mercoledì 17 marzo 2021

IN DEMOCRAZIA CI VUOLE UMILTA'

Parla il politologo John Keane: «L’attuale crisi dei processi di rappresentanza può essere affrontata consolidando e moltiplicando gli organismi di controllo partecipativo, che fanno da argine al dilagare dei populismi» Secondo il filosofo, molto influente nel mondo anglosassone, «nonostante i proclami, viviamo in una fase di post-sovranità La pandemia è la prova di quanto profonde siano le reti mondiali di interdipendenza»

  

-         di ALESSANDRO ZACCURI

      

- L’Antartide, per esempio. «Di solito se ne parla per motivi ambientali – osserva il politologo John Keane –, trascurando il fatto che questo territorio è governato da un sistema molto prossimo alla democrazia monitorante». La monitory democracy è uno degli elementi portanti della riflessione di Keane, che divide la sua attività tra l’Università di Sydney (in Australia, ad Adelaide, è nato nel 1949) e il Centro di ricerca per le Scienze sociali di Berlino. Pensatore molto influente nel contesto anglosassone, come dimostra il dibattito suscitato dal suo recente saggio sul “nuovo dispotismo”, finora lo studioso australiano non era mai stato pubblicato in Italia. Adesso però è proprio un suo libro, il corposo Potere e umiltà (traduzione di Piernicola D’Ortona, prefazione di Anna Loretoni, pagine 492, euro 45,00), a inaugurare la collana “La stanza del mondo”, ideata e diretta da Paola Caridi per l’editore torinese Hopefulmonster. L’argomento centrale è esattamente il concetto di “democrazia monitorante”. «Di norma i cittadini si servono di tradizioni consolidate e di consuetudini sociali per semplificare e tenere a bada le grandi complessità della vita – spiega Keane —. Oggi come oggi, però, populisti come Bolsonaro in Brasile, Duterte nelle Filippine, Vucic in Serbia, Babis nella Repubblica Ceca e altri ancora nel mondo fanno qualcosa di diverso: sfruttano la complessità per far levitare l’inquietudine sociale».

In questo trovano terreno fertile, non trova?

Sì, mi rendo conto di come il fuoco del populismo si alimenti della disaffezione derivante dalle attuali ingiustizie e, nel contempo, prometta di illuminare un futuro migliore. In un nome di un “popolo” fittizio, però, il populismo va politicamente all’attacco di quelli che vengono di volta in volta definiti diversi, dissidenti o addirittura nemici. Peggio ancora, le persone sono incoraggiate a schivare l’estrema complessità del mondo contemporaneo.

Ed è a questo punto che interviene la democrazia monitorante?

La vedo come la cura più adatta per contrastare gli effetti tossici del populismo, perché permette di consolidare il rispetto della complessità da parte dei cittadini attraverso la libera circolazione di punti di vista differenti, la denuncia delle ipocrisie, la messa in discussione dei politici corrotti e con processi di analisi serrata che permettono di tenere sotto osservazione le attività dello Stato e delle industrie.

In che cosa consiste?

Con l’espressione monitory democracy ci riferiamo a una forma storicamente innovativa di democrazia, che poggia sulla rapida diffusione di molte nuove istituzioni di controllo: cani da guardia, se così vogliamo chiamarli, che all’occorrenza non smettono di abbaiare. Le prime forme di cogestione lavorativa si incontrano nella Germania degli anni Quaranta, i comitati per le generazioni future vengono inizialmente istituiti in Galles, le cosiddette “sentinelle dei ponti” sono una specialità sudcoreana, il Sudafrica ha garantito notorietà internazionale alle commissioni per la verità e la riconciliazione, i bilanci partecipativi sono un’invenzione brasiliana. Queste realtà di monitoraggio possono attecchire ovunque, nell’ambito del governo locale o nazionale così come nella società civile e nei contesti di frontiera.

Mettendo in crisi i tradizionali processi di rappresentazione?

Favorendone l’evoluzione, semmai. Le elezioni, il sistema dei partiti politici e gli stessi parlamenti esercitano

oggi una presa sempre più debole sulle esistenze dei cittadini e sulla difesa dei loro interessi. In passato il principio fondamentale era quello di “una persona, un voto, un rappresentante”, oggi l’istanza etica che presiede alla democrazia monitorante è quella di “una persona, molti interessi, molte voci, voti molteplici, molteplici rappresentanti”.

Quali sono le caratteristiche essenziali di questo processo?

Non dobbiamo dimenticare che la democrazia monitorante non è mai un progetto concluso. Tuttavia, laddove il modello funziona ragionevolmente bene, troviamo sempre leader politici non corrotti, cittadini animati da forte senso civico, numerose piattaforme mediatiche e numerosi organismi di controllo pronti a contrastare ogni abuso di potere. Non meno importante è tornare alla situazione degli anni Quaranta del secolo scorso. Allora circolava un’energia oscura, scatenata dal tremendo massacro della guerra, dalle dittature, dai totalitarismi. In quella fase l’universo di senso della democrazia subì un’espansione straordinaria. Fu proprio in questo decennio che si cominciò a immaginare e a costruire un altro modello, che scacciasse i demoni di un potere arbitrario.

La sovranità rappresenta un nodo molto delicato… Siamo abituati a concepire la sovranità in termini di demarcazione territoriale, in particolare mediante il riferimento agli Stati, ma a dispetto di quanto vogliano sostenere i nazionalisti e gli antiglobalisti di oggi, il problema che è ormai ogni democrazia agisce in condizioni di post-sovranità. Il contagio da Covid-19 è l’ennesima conferma di quanto le reti mondiali di interdipendenza non consentano più alle singole democrazie territoriali di rimanere splendidamente isolate rispetto al resto del pianeta. È con questo spirito che mi interrogo sulla possibilità che la democrazia possa esistere anche al di fuori di una cornice territoriale.

È il caso dell’Antartide?

Di solito ci si appassiona allo scioglimento dei ghiacci del Polo Sud e alle conseguenze sul cambiamento climatico, ma non si sa nulla di come sia governata questa vasta distesa di freddo. Benché qualcosa di simile sia già avvenuto in Europa, questo è il primo continente che si sia formalmente affrancato dalla condizione di Stato territoriale sovrano. L’Antartide post-sovrana è un genere inedito di conglomerato governativo, regolato dal Trattato Antartico, da un parlamento in via di costituzione, dal rispetto di leggi proclamate da istituzioni che condividono il proprio potere sulla base di valutazioni trasparenti e dell’esercizio del diritto di voto.

In che modo la pandemia potrebbe influire?

Uno degli esiti più singolari e inattesi della grande pestilenza sta nel fatto che il Paese colpito per primo può ora godere dei vantaggi tecnologici, di governo e di soft power derivanti dal fatto di essere stato anche il primo a liberarsi del virus. Per questo alcuni osservatori sono tentati dal trarre la conclusione che il “modello cinese” sia il migliore per affrontare eventuali pestilenze future, ma io non sono di questo parere. Una manciata di governi democratici (Uruguay, Corea del Sud, Taiwan, Nuova Zelanda e la stessa Australia) ha dimostrato l’esistenza di alternative efficaci. L’elemento davvero interessante è che i processi di diagnosi precoce e di allerta digitale messi in atto da questi governi hanno ribadito quanto sia cruciale la trasparenza. All’opposto, lo stile di governo alla Boris Johnson, con le sue decisioni alla cieca, ha generato confusione. Il risultato? Milioni di contagi, centinaia di migliaia di morti evitabili. Il segreto del successo delle democrazie monitoranti sta nel dichiarato coinvolgimento e nella responsabilizzazione dei cittadini, puntualmente invitati a fare la loro parte.

C’è una questione irrisolta che le sta particolarmente a cuore?

La mia maggior preoccupazione riguarda i tentativi di scatenare una guerra contro la Cina. La distruzione del regime di Pechino rappresenta la priorità di molti “falchi”, persuasi che la Cina sia un castello di carte da far volare in aria con uno schiocco di dita. Un’altra Guerra fredda, ecco che cosa vogliono. Dal mio punto di vista, questi attacchi sfrenati guardano con eccessiva sufficienza alle disastrose conseguenze che la caduta di Pechino avrebbe su scala globale. Per trattare con la Cina occorrono strategie più realistiche, nella logica di quello che mi piace chiamare “non allineamento agile”. È un atteggiamento che presuppone un impegno di cooperazione critica con la Cina in campi quali lo sviluppo delle infrastrutture, la ricerca scientifica, l’alta formazione e le energie rinnovabili. Rompere con la Cina non è necessario. Anzi, sarebbe un’impresa insensata e autodistruttiva.

Da qui il valore dell’umiltà come virtù politica?

Le virtù democratiche sono molte: pazienza, misericordia, coraggio, rispetto degli altri, attitudine al compromesso. Tutto considerato, però, la virtù cardinale è proprio quella dell’umiltà, che non ha nulla a che vedere con la sottomissione del gregge. L’umiltà sa sempre opporsi all’arroganza del potere, è la consapevolezza dei propri limiti e di quelli altrui e, insieme, è l’assunzione di responsabilità affinché il riconoscimento e il rispetto di questi limiti siano universalmente garantiti. Le persone umili si percepiscono come abitanti della terra, nel senso di humus, terreno. L’umiltà incoraggia, rafforza chi non ha potere, conferisce un’energia interiore che permette di agire al cospetto del mondo. Detesta l’arroganza, la dismisura, così come la violenza e i violenti. È una virtù sociale, una forma di generosità. Giustamente sant’Agostino sosteneva che, lì dove si trova l’umiltà, si trova anche la carità. Le persone umili, in definitiva, vivono nella democratica convinzione che il mondo possa essere un posto migliore, più tollerante e più ispirato all’uguaglianza.

 

Una versione più ampia di questa intervista è disponibile nel sito www.avvenire.it





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