«Diagnosi precoce decisiva
ma il sistema non regge più»
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Di Luciano Moia*
Di fronte a una diagnosi di autismo la maggior parte dei genitori avverte un senso di abbandono e di solitudine e punta il dito contro il silenzio del sistema sociosanitario. «Hanno perfettamente ragione. Tutto il sistema è costruito su una logica, quella del 'codice di prestazioni sanitarie' che non può reggere per accompagnare le disabilità. Bisogna partire da un nuovo criterio di antropologia sociale», osserva Massimo Molteni, direttore area di ricerca e clinica in psicopatologia dello sviluppo della 'Nostra Famiglia' di Bosisio Parini, una rete che comprende 28 centri di eccellenza in tutta Italia con oltre 2.400 operatori e circa 25mila bambini assistiti ogni anno «Dobbiamo pensare a un sistema generativo, capace di progettare una serie di azioni che – riprende l’esperto – possano raccordare i tanti pezzetti di quotidianità di una persona con disabilità, Pensiamo all’insegnante di sostegno per un bambino autistico. Va benissimo, ma se non pensiamo anche al prima e al dopo, la famiglia sarà sempre in difficoltà. Per uscire dall’isolamento occorre ridisegnare l’intero sistema dei servizi sociosanitari».
Il
problema quindi non sarebbero le diagnosi precoci e neppure l’eccesso di
verifiche neurocognitive a cui sono sottoposti i bambini, ma il vuoto
assistenziale che esiste prima e dopo queste diagnosi. «La diagnosi precoce
anzi, tra i due e tre anni, è fondamentale per intervenire in modo efficace.
Naturalmente l’accertamento va fatto da un’equipe di specialisti con la
presenza di neuropsichiatri, psicologi, terapisti della riabilitazione,
pediatri. Tanto prima si avvia la terapia, quanto più le speranze di successo
aumentano. Meglio se prima dei due anni perché ormai sappiamo che i tre anni
sono il limite per migliorare le competenze in modo significativo».
Non
che negli anni successivi le speranze svaniscano, ma le percentuali di
miglioramento si riducono. Non va dimenticato che i disturbi dello spettro
autistico rimangono un problema complesso in cui si intrecciano atteggiamenti
di chiusura, insufficiente interazione sociale, turbe nella comunicazione
verbale e non verbale, strane reazioni all’ambiente, problemi nella motricità.
Ma anche auto aggressività, agitazione, segnali d’angoscia, alterazioni
dell’umore secondo schemi che sono diversi da bambino a bambino. Un insieme di
sintomi, peraltro molto variabili nelle fasi di vita del bambino, a cui
corrisponde una grande incertezza sulle cause di questi disturbi. «Se sulle
cause genetiche ormai ci sono pochi dubbi – riprende Molteni – è certo che
esistono anche cause ambientali di cui però non riusciamo ancora a misurare
l’incidenza. Non parlo di fattori relazionali che sarebbero impossibili da
valutare ma biologici, naturali. Stiamo profondamente manipolando e inquinando
l’ambiente e non conosciamo quali effetti potrebbero derivarne. Pensiamo solo
alle dosi di antibiotici che ingeriamo ogni giorno attraverso il cibo. Che
conseguenze potranno avere? Non lo sappiamo». Non è da escludere quindi che
l’aumento dei casi registrati nell’ultimo ventennio non accenni a rallentare,
con la conseguente necessità di accelerare quel cambio di paradigma
assistenziale auspicato dagli esperti.
*Direttore di "Nostra Famiglia"
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