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di ALESSANDRO ZACCURI
Non ci sono alternative: con gli odiatori bisogna parlare.
Pacatamente, ostinatamente, anche nelle circostanze più delicate. Compresa la
più insidiosa di tutte, quella nella quale la voce del pregiudizio sembra
provenire da dentro di noi. Dalle nostre paure, forse, o forse soltanto dalla
nostra pigrizia. Della necessità del dialogo, inteso anzitutto come impegno
educativo, è convinta Milena Santerini, che per Cortina ha appena pubblicato La
mente ostile (pagine 242, euro 19,00), un viaggio attraverso le «forme
dell’odio contemporaneo » che prende le mosse proprio dal conflitto interiore
tra emozione e ragione. Docente di Pedagogia generale e interculturale
all’Università Cattolica di Milano, Santerini ricopre tra l’altro l’incarico di
coordinatrice nazionale della lotta contro l’antisemitismo. «Che è un caso
esemplare di odio – sottolinea – ma purtroppo non l’unico».
L’impressione è risentimento e aggressività dilaghino: ma la
nostra non si presenta come una società più tollerante?
Le società non sono tutte uguali, tanto per cominciare, e
all’interno di una stessa società convivono persone e gruppi largamente
differenziati tra loro dal punto di vista culturale e generazionale. Al di là
di questo, l’evoluzione sociale non va necessariamente di pari passo con quella
della mente umana, che è ancora contraddistinta dai meccanismi di reazione
ancestrali nei confronti di quanto viene percepito come minaccia. È l’assetto
del cosiddetto cervello primitivo, a suo modo necessario per sopravvivere, ma
non sufficiente per vivere bene. Per questo, nel corso del tempo, abbiamo
interiorizzato processi di cooperazione che ci permettono di muoverci al di
fuori dello schematismo attacco/difesa. Il problema, però, è che in tempi
di crisi il richiamo dei comportamenti primitivi torna a farsi sentire in modo
molto insistente.
Si riferisce alla sensazione di insicurezza suscitata dalla
pandemia?
Diciamo che, in una fase come l’attuale, la tentazione di dividere il mondo tra amici e nemici diventa particolarmente forte. L’abbiamo visto fin dal principio, quando si discuteva di contagio, e torniamo a vederlo in questi giorni, con le tensioni attorno ai piani vaccinali. Il vero rischio non sta nella singola fiammata polemica, ma nell’indebolimento di una coscienza comune che, almeno in Europa, si era affermata con fatica e sofferenza dopo le tragedie delle Guerre mondiali e della Shoah. In qualche misura, il «mai più» sul quale ci eravamo accordati oggi suona meno convinto di prima, nel suo complesso la coscienza storica appare molto indebolita, i sistemi di contenimento che avevamo elaborato risultano meno robusti.
La rete ha una responsabilità specifica in questo senso?
Internet rappresenta una risorsa straordinaria, lo sappiamo,
ma nello stesso tempo può essere un temibile strumento di propaganda, un mezzo
che, rendendo liquidi i sentimenti di ostilità, li rifonde così da renderli di
nuovo disponibili. La dinamica è molto complessa, come si può constatare a
proposito delle espressioni di sessismo che in rete assumono spesso una
violenza impressionante. Quando si provano a ricostruire le origini della
misoginia digitale, ci si accorge che spesso a risultare intollerabile è
l’immagine di una donna assertiva e competente, capace di insidiare alcuni
ruoli professionali e sociali che fino a qualche tempo fa erano considerati
esclusivamente maschile. Il punto è che questa stessa immagine è promossa
proprio dal web, che a sua volta finisce per catalizzare delusioni,
insoddisfazioni, risentimenti. Sentendosi minacciato, il maschio si rivale
contro la femmina. Anzi, contro le femmine, perché l’odio è rivolto di
preferenza al gruppo più che al singolo.
Come mai?
Forse perché questo permette di avere a disposizione una
certa abbondanza di capri espiatori, ossia di soggetti sui quali scaricare i
sentimenti negativi che non riusciamo più a dominare. In questo senso, i
fantasmi che abbiamo visto agitarsi da quando è iniziata la pandemia non fanno
altro che confermare la necessità primordiale di individuare e, se possibile,
punire il presunto colpevole. Non per niente le teorie del complotto, che pure
sono sempre esistite, hanno ripreso vigore con l’avanzata della
globalizzazione: più ci si sente inermi davanti a qualcosa che non si arriva a
controllare, più si è inclini a fantasticare di un potere incontrollabile e
occulto.
Questo significa che l’odio è sempre uguale a sé stesso?
Le manifestazioni possono essere molto simili
tra loro, anche perché sono veicolate da dispositivi ricorrenti,
i principali dei quali sono senza dubbio la disumanizzazione
e l’esclusione dell’altro. Ma le differenze ci sono, specie per
quanto concerne le motivazioni, ed è su questi elementi
distintivi che occorre insistere per non rendere generico e
inconcludente il discorso sull’odio. Nella fattispecie, il razzismo
non equivale all’antisemitismo, il quale non può essere
assimilato all’odio antimusulmano. Il razzista ha la
mentalità del dominatore, retaggio del passato
coloniale, laddove l’antisemita teme di essere dominato
dagli ebrei, verso i quali sviluppa un’avversione che conserva
una sua indubbia peculiarità, non solo in termini di
continuità storica. Contro i musulmani, infine, si riversano paure nel
contempo ataviche e recentissime, in un’inestricabile confusione di livelli che
ostacola qualsiasi tentativo di obiettività. Le cause sono diverse, ripeto, per
quanto il risultato sia sempre costituitoda un disimpegno morale che ci illude
di poter fare all’altro quello che mai vorremmo fosse fatto a noi.
Ed è su questo aspetto che occorre intervenire?
Esattamente. L’odio non si vince se non si favorisce
un’educazione all’interiorità che passa attraverso l’accettazione di
determinate forme di ritegno per poi condurre all’assunzione di responsabilità.
In generale, l’odiatore è afflitto da una sorta di cecità selettiva: dell’altro
vede solo il male, perché per lui, in ultima istanza, l’altro è il male.
Analogamente, di sé non vede che il bene e quindi non è disposto a mettersi in
discussione. Prima ancora del giudizio di valore, è la ricerca di senso a fare
difetto, quella domanda sul significato della realtà che per secoli ha
rappresentato il fondamento dell’educazione cristiana. Solo ristabilendo questa
premessa, si può dialogare in modo efficace. Perché il dialogo è necessario, lo
ribadisco. La parola è l’unico mezzo che possa sfidare l’omertà in cui l’odio
prospera. Non dimentichiamo mai che, quando c’è da prendersela con qualcuno, ci
sono quelli che parlano, quelli che si aggregano e quelli che, presto o tardi,
agiscono. Se non vogliamo essere complici, dobbiamo anzitutto rompere il silenzio.
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