L'antidoto alla guerra
è
un "di più"
di umanità
-
-
di Brunetto
Salvarani e Roberto Mancini
«Esistono cose per le quali vale la pena
impegnarsi senza compromessi. E a me pare che la pace e la giustizia sociale, o
precisamente Cristo, siano una di queste». È in qualche modo da questo concetto
espresso da Dietrich Bonhoeffer che prende le mosse il libro del filosofo
Roberto Mancini e del teologo Brunetto Salvarani, Oltre la guerra. Le vie
della pace tra teologia e filosofia (Effatà, pagine 160, euro 15,00) del
quale anticipiamo un estratto dall’introduzione.
Non si tratta di un libro che intende fare
l’apologia della pace. Il desiderio di pace è certamente una cosa scontata.
Piuttosto è un ragionamento sull’effettivo impegno nella nostra vita di ogni
giorno in favore della pace, fin dal modo di pensare, soprattutto oggi che
sempre più prossimi venti di guerra inquietano le relazioni fra popoli e fra
Stati. Vivere la pace nei nostri cuori, sottolineano gli autori, non è
semplicemente un discrimine fra chi aderisce o non aderisce al Vangelo, ma lo è
anche fra chi esercita o non esercita pienamente le prerogative della propria
umanità.
Da più di un anno, dopo l’invasione
dell’Ucraina da parte delle truppe di Putin, la pace è tornata a sembrare una
chimera nell’opinione di molti. Del resto il discorso stucchevole che la elogia
in teoria e poi si affretta a dichiararla irrealizzabile in pratica serve solo
a sprofondare nella banalizzazione della questione. Eppure, il confronto sul
suo senso e sulle vie percorribili per raggiungere una condizione di convivenza
pacifica tra i popoli è di capitale importanza. Una riflessione del genere è
come uno specchio che rifrange la capacità di responsabilità, di adesione alla
vita e di rispetto per la dignità e i diritti umani che abbiamo.
Dichiarare impossibile la pace – ecco una
delle ipotesi che si sono affermate anche nell’opinione pubblica in questo
tempo – è già un gesto che equivale ad abdicare alla nostra umanità. Tale
abdicazione non è senza conseguenze. La logica che una maggioranza di persone
adotta, nelle istituzioni che hanno potere decisionale e alla base della
società, determina le scelte politiche, economiche, militari, persino quelle
culturali, producendo atteggiamenti e comportamenti che non sono mai neutri. O
promuovono la pace o la impediscono. Non esiste una posizione asettica, da cui
cogliere la realtà oggettiva come se essa fosse già data a prescindere dal
nostro modo di orientarci e di agire. Il tipo di pensiero che sviluppiamo è
inscritto più ampiamente nel nostro modo di esercitare la responsabilità
storica per la condizione dell’umanità e del pianeta.
Più si accetta questa responsabilità con
coraggio e fedeltà e più si riesce a cogliere la verità della pace. Intendiamo
in prima istanza una verità morale: essa rappresenta una forma di
armonizzazione delle differenze e di attraversamento dei contrasti che possiede
un valore che spicca proprio in contrapposizione al disvalore incarnato da
qualsiasi ipotesi di supremazia, vittoria, guerra o distruzione.
Al tempo stesso si tratta di una verità
ontologica: la pace è l’unica dinamica che sia congruente con l’essere delle
creature viventi, con la nostra tendenza a trovare una condizione di vita
adeguata al nostro benessere integrale e alla nostra destinazione. Bisogna
inoltre ricordare che qui è in gioco la verità teologica: il Dio della vita non
ha posto semi di distruzione nella creazione, non ha destinato le sue creature
alla morte, non approva alcuna distruzione né alcuna violenza nella realtà che
ha generato affinché tutto in essa sia buono (“tov”, nel racconto del primo
capitolo del libro della Genesi: bello e buono a un tempo, secondo la doppia
accezione ebraica del lemma).
Ma la cosa più difficile da cogliere è che la
pace ha anche una sua verità storica. Essa è data, per un verso, dal fatto che
la storia ha una sua dignità, consistente nell’evitare di ridursi a
un’interminabile sequenza di atrocità e nell’arrivare ad avere una forma
giusta, dove nessuno sia costretto a diventare vittima di un potere che la
schiaccia. Per altro verso, la dimensione storica della verità della pace sta
nel fatto che essa è sì ardua, improbabile, complessa, ma resta in ogni caso
realizzabile. Nessuno può levarsi a dimostrare con argomenti logici o
statistici che autorizzino a concluderne la definitiva impossibilità. È nello
spiraglio tra il difficile e l’impossibile che devono muoversi la nostra
responsabilità e la nostra creatività politica.
In questa prospettiva un libro sulla pace non
serve certo a farne una sterile apologia, ma semmai a spingersi il più avanti
possibile svolgendo il pensiero responsabile, quello che consente di vedere le
possibilità di mutamento e di svolta che molti non vedono, se non per malafede,
quanto meno per il pregiudizio e per la pigrizia intellettuale che chiudono il
loro sguardo. Abbiamo ritenuto che una riflessione del genere dovesse avere un
carattere polifonico, dunque che dovesse essere, al tempo stesso,
teologico-biblica e filosofico-politica. Questo ci ha permesso di evitare di
proporre un approccio unilaterale destinato solo a chi già si riconosce nella
fede religiosa, oppure solo a chi fa attenzione al confronto sulle
argomentazioni filosofiche.
Ecco il senso di un testo scritto a quattro
mani e con due prospettive, largamente, e necessariamente, interdisciplinari e
convergenti. Nella prima, lo sforzo è di mostrare come il grande codice biblico
affronti la questione della pace e della guerra con uno sguardo plurale,
complesso, non sempre facile da decifrare a una prima lettura e bisognoso di
non cedere a facili moralismi; come nella accidentata storia della Chiesa per
lunghi secoli l’illusione di una guerra giusta, e persino di una guerra baciata
dal crisma della santità, si sia fatta largo zittendo le rare voci che
proclamavano, inascoltate o disattese, la via della nonviolenza come l’unica
coerente con lo sguardo di Dio sulla storia, fino alla proclamazione da parte
di un papa cristiano (H. Arendt) dell’insensatezza radicale di ogni risposta
bellicistica ai problemi umani; e infine di porre le premesse per una teologia
per la pace all’altezza dei tempi incerti e del cambiamento d’epoca (papa
Francesco) che stiamo attraversando, una teologia a carattere pubblico,
ecumenico, interreligioso e planetario.
Nella seconda, la filosofia, intesa come
attitudine umana, prima ancora che come disciplina nell’insieme dei saperi,
viene chiamata a riattivare le coscienze in primo luogo proprio rispetto a un
confronto, necessario e ineludibile, su pace e guerra, nella convinzione che la
prima prevenzione sia l’umanizzazione del nostro agire. L’umanità non è per
natura buona, o cattiva, o neutra: la sua natura non è un bagaglio di
caratteristiche biologiche vincolanti, è la relazione con il Bene, con quel
Bene originario che fonda la vita stessa. Fino a porsi la domanda decisiva, se
possano venire alla luce un’esistenza, una società e una storia che si svolgano
nella libertà dal principio di potere e di guerra.
Da parte nostra, la risposta non può che
essere positiva, ma potrà esserlo solo se si accetta il rischio di pensare
altrimenti, superando i luoghi comuni del pensiero convenzionale e facendo
nostro il valore essenziale della responsabilità. Se, come riteniamo evidente,
la guerra prevale dove manca la politica, appare infatti indispensabile
rigenerare quest’ultima come espressione della dignità umana, mettendo la
parola fine alla scissione tra vita privata e cittadinanza. Lo affermiamo nella
convinzione, che ci ha mosso nell’ideare e poi nello scrivere queste pagine,
che non sia possibile aderire alla vita e vivere le relazioni quotidiane senza
impegnarsi per un mondo salvato dalla distruttività.
Fonte: Avvenire
Nessun commento:
Posta un commento