- di Giuseppe Savagnone*
- La rovinosa ritirata dell’Occidente dall’Afghanistan e il crollo del regime “democratico”, sostenuto per vent’anni dalle truppe della NATO, dovrebbero spingerci a una seria riflessione non tanto su quel Paese, quanto su noi stessi.
Si potrebbe partire dagli errori di valutazione che evidentemente sono stati alla base della decisione degli Stati Uniti di ritirare i propri soldati. Per quanto in questi giorni l’amministrazione americana cerchi di minimizzare e mascherare il disorientamento di fronte a ciò che è accaduto, è chiaro che le informazioni fornite dai servizi segreti statunitensi erano tali da far sperare, se non in una perfetta tenuta del governo del presidente Ghani, in una dignitosa resistenza, sulla cui base giungere, attraverso una stagione di negoziati, a un accordo ragionevole con i talebani. È appena il caso di sottolineare che le cose sono andate molto diversamente da queste previsioni, rivelando l’inadeguatezza del poderoso apparato di intelligence americano nel capire mondi culturali diversi dal proprio. Un dato assai poco rassicurante e che è bene tenere presente anche per altre situazioni.
La fallita ricerca di un’alternativa al vecchio colonialismo
Ma non è questo il nodo decisivo della questione. Esso risiede piuttosto nella evidenziazione dell’incapacità dell’Occidente – e degli Stati Uniti in primo luogo – di trovare, nel rapporto con i popoli di quello che un tempo si chiamava “terzo mondo” (per distinguerlo sia dall’area occidentale, sia da quella socialista), una formula alternativa al vecchio colonialismo che sia veramente efficace.
Quella sperimentata in Afghanistan – un governo locale sostenuto economicamente e militarmente dalle potenze democratiche – evidentemente non funziona. Per la verità lo si era già capito nella drammatica vicenda della guerra del Vietnam, rievocata da molti in questi giorni per i punti di contatto con quanto accade in Afghanistan. Anche là l’illusione era di portare la democrazia, mantenendo in piedi, con un consistente appoggio esterno, un governo – quello di Saigon – minacciato da forze anti-democratiche. In quel caso non si trattava, come in Afghanistan, dei fondamentalisti islamici, ma dei Vietcong, sostenuti al governo comunista del Vietnam del nord.
Anche allora, alla prova dei fatti, l’illusione si era rivelata tale: il ritiro delle truppe americane, nel 1975, diede luogo alla rapida dissoluzione del governo sud-vietnamita e a una fuga precipitosa di quanti l’avevano sostenuto. L’impressionante somiglianza delle immagini di questa fuga con quelle dell’evacuazione da Kabul ha smentito clamorosamente il presidente Biden, che poco più di un mese fa aveva escluso esplicitamente la possibilità di vedere scene analoghe.
Potere e autorità
Alla domanda che tutti si fanno in questi giorni – come e perché stato possibile un simile disastro? – la risposta più plausibile è quella del mancato riconoscimento del governo instaurato e sostenuto dagli occidentali da parte della stragrande maggioranza del popolo afgano. Non è bastato lo sforzo di democratizzazione – libere elezioni aperte anche alle donne –, e neppure quello di modernizzazione a livello sociale ed economico, messi in atto prima da Karzai, poi da Ghani. A prevalere è stato invece lo scollamento del popolo da un regime sempre avvertito come estraneo e in cui, peraltro, pare che la corruzione raggiungesse livelli altissimi, facendo finire la maggior parte degli aiuti economici americani nelle tasche dei notabili.
Se un governo non viene riconosciuto, resta mero potere. L’autorità, per essere tale, ha bisogno del riconoscimento di coloro nei cui confronti pretende di valere. E, sul piano del potere, i talebani hanno dimostrato con i fatti di poter prevalere. Saranno in grado, a loro volta, di dar luogo – dopo questa fase di sovvertimento del potere precedente – a un governo dotato di vera autorità?
Probabilmente sì. La grande maggioranza degli afghani sembra dalla loro parte. Almeno i maschi. E le donne evidentemente non hanno ancora raggiunto un livello di influenza sociale e politica tale da poter contrastare con successo questo consenso popolare. Le scene di disperazione, così come le manifestazioni di piazza, represse dai talebani con la consueta violenza, a dispetto delle assicurazioni verbali, coinvolgono comunque una minoranza. Piaccia o non piaccia (a me personalmente non piace) – questa è la situazione.
Le buone ragioni della condanna da parte dell’opinione pubblica occidentale…
Soprattutto degne di riflessione sono, però, le reazioni dell’opinione pubblica occidentale di fronte a tutto questo. Un’opinione pubblica che si è, negli ultimi decenni, nutrita dalla certezza che la verità assoluta non esiste e che il bene è relativo ai diversi punti di vista, in questa circostanza sta vivendo intensamente il dramma di vedere trionfare l’errore del fondamentalismo e negare la dignità di tanti esseri umani.
Una percezione che si può senz’altro condividere. Nessuno può dubitare che un regime religioso intollerante, come quello che i talebani avevano instaurato in Afghanistan nel breve periodo della loro permanenza al governo (1996-2001), violi la logica più profonda della politica, che deve garantire un sano pluralismo intellettuale ed etico. E nessuno che non sia un illuso (ma a quanto pare ce ne sono sul nostro scenario politico) può credere che il nuovo governo degli “studenti del Corano” sarà diverso da quello precedente. Le dichiarazioni rassicuranti in questo senso stanno già avendo ampie smentite dalle notizie di persecuzioni e repressioni da parte dei vincitori.
Particolarmente drammatico si profila il destino delle donne, ormai aperte, dopo vent’anni di libertà, a una visone di se stesse e del loro ruolo nella società simile a quello delle occidentali, e ora minacciate dall’incubo di una regressione paurosa a una condizione di minorità e di reclusione.
Le contraddizioni del relativismo
Ciò che lascia perplessi non sono dunque i motivi della generale recriminazione, in Occidente, di quanto sta accadendo in Afghanistan, ma la coerenza tra questi motivi, in sé validissimi, e una cultura diffusa, al punto da essere dominante, che fa del relativismo etico il fondamento indiscutibile (e già questa, a dire il vero, è la insanabile contraddizione interna a questa posizione) di una civiltà degna di questo nome.
Se non ci sono verità e bene assoluti, se i valori sono relativi alle culture, come si sbandiera in ogni occasione, neanche i diritti umani dovrebbero esserlo. Non dovremmo, in tal caso, avere alcun motivo per essere tristi di quanto sta accadendo in Afghanistan, tanto più che dagli indizi a nostra disposizione sembra emergere chiaramente che il popolo di là non è vittima di una violenza subita dall’esterno, anzi ha percepito in questi anni come una violenza proprio il nostro intervento di occidentali per far valere quei diritti.
O dobbiamo riconoscere che il relativismo è una visione inadeguata dell’umano, che ne misconosce alcune costanti antropologiche ed etiche indiscutibili, di cui avvertiamo l’assolutezza proprio in circostanze simili a questa? Oggi, in una cultura come la nostra, in cui parlare ancora di “natura umana” viene considerato un segno evidente di bigottismo, dovremmo ammettere che non esiste alcuna base comune tra l’umanità delle donne occidentali e quella delle donne afghane, e che, in forza della incommensurabilità delle culture, va bene alle seconde ciò che per le prime sarebbe una inaudita violenza?
Ma forse, se si smette di considerare con scetticismo questa identità di fondo dell’umano (che la si chiami “natura”, oppure no, poco importa), anche il modo di farla valere non può essere quella adottata finora dai Paesi ricchi e potenti della terra nei confronti di quelli poveri, troppo simile, come abbiamo visto, al vecchio colonialismo. Altrimenti sarà sempre legittimo il sospetto che, dietro le operazioni “umanitarie” dell’Occidente – così come dietro la loro brusca interruzione – ci siano sempre e solo i suoi interessi. È questo, non un’impossibilità oggettiva, che rende inesportabile la democrazia.
*Pastorale Cultura Diocesi Palermo
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