sabato 21 agosto 2021

DA CHI ANDREMO?


Domenica 22 agosto  2021
 XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
 (Gv 6,60-69)

Il passo evangelico di questa domenica ci conduce a chiusura del capitolo 6 secondo Giovanni (il quale consta di 71 versetti). 
Di notevole interesse e di poderosa portata, nella pericope odierna, è la “professione di fede” di Pietro («Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio“» – Gv 6, 68-69), la quale è possibile valutarla come corrispondente, o “sinottica”, alle pronunzie simili manifestate dallo stesso Pietro negli altri tre Vangeli (cf. Mt 16, 16; Mc 8, 29; Lc 9, 20). Considerare Gesù quale «il Santo di Dio», invero, per la tradizione ebraica era appellativo fortissimo, quasi impronunciabile, poiché il concetto di “santità” era riferito e riferibile solo ad Adonài cioè «il Signore» (cf. 1Sam 2, 2), ovvero a ciò che era in strettissima connessione con Adonài (cf. 2Cr 8, 11). 
Interessante notare come in Giovanni ci siano altre decise “professioni di fede” nei confronti di Gesù, manifestate tanto da Natanaele o Bartolomeo (cf. Gv 1, 49), quanto da Marta (cf. Gv 11, 27), quanto da Tommaso (cf. Gv 20, 28; cf. TENDI LA TUA MANO E METTILA NEL MJO FIANCO). E come non notare, poi, il fatto che nei Vangeli il più “costante” nelle “professioni di fede” che concernono la santità, la divinità di Gesù sia curiosamente il demonio (cf. Mt 8, 29: Mc 1, 24.34). 
Preso atto di quanto, e di come questo argomento delle “professioni di fede” possa essere ampiamente sviluppato (ed è solo uno dei vari argomenti che si possono approfondire partendo dalla pericope odierna), ci è gradito, invece, in questa occasione, fare una breve riflessione partendo dal seguente versetto: «Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?”» (Gv 6, 60). Ebbene, l’aggettivo «dura» certamente si riferisce, in particolare, alla misteriosa presenza di Gesù nel pane e nel vino, ma ancor più, in generale, a tutto il contenuto del discorso presente anche nelle righe che precedono la pericope odierna, e che vanno a costituire l’intero corpus che caratterizza propriamente Gv 6. 
Nondimeno questo stesso aggettivo «dura» può rimandarci ad un riferimento appartenente alla cultura e alla tradizione ebraica. Innanzitutto, così come è nel nostro solito, andiamo al testo originario greco del Vangelo. Il termine greco che viene tradotto con «dura» è sklerós, termine similmente presente nel nostro italiano (cf. «sclerosi», ovvero processo di indurimento di un organo o parte di esso). Ebbene questo aggettivo può portarci al concetto ebraico di chòk. Per la concezione culturale e tradizionale ebraica, il termine chòk indicava la caratteristica specifica di un dato precetto. Il precetto chòk, invero, indicava non un semplice decreto, bensì un “decreto divino” che andava recepito, osservato e adempiuto «così com’è». Ancor più specificamente, il precetto chòk è quel dato precetto che trascende ogni motivazione razionale in quanto considerato di origine divina. -Facciamo un esempio: il precetto chòk del divieto di sha’atnetz. La «mescolanza di lino e lana in un tessuto» (sha’atnetz appunto) era vietata «così com’è» (chòk appunto), nello specifico «così com’è» descritta e prescritta in Lv 19,19 e Dt 22,11. I rabbini, invero, hanno sempre cercato le interpretazioni delle proibizioni definite chòk , ma la verità è che di queste non se ne conosce la motivazione razionale. In merito al chòk che vieta lo sha’atnetz, ad esempio, si discute se tale divieto possa derivare dal fatto che i pagani mischiassero i tessuti; o dalla confusione di identità di specie e quindi sfiducia in Dio; oppure dall’unione di prodotto vegetale e animale, che implica in qualche modo una violenza verso l’animale; oppure per distinguere gli abiti profani da quelli sacerdotali; oppure per differenziare il mondo agricolo sedentario da quello pastorizio beduino, ovvero non mescolare i sacrifici di Caino e Abele; oppure perché il demonio si nasconde dietro il misto dei tessuti. Insomma, è difficile stabilire: non si sa (cf. La Sindone – videolezione 2 – Sepoltura ebraica – unità 1) 
Quel che è certo, però, è che, secondo i rabbini, quando un precetto era (ed è) difficile da capire, ovvero andava (e va) recepito ed adempiuto «così com’è» (chòk appunto), il suo compimento è più meritorio, perché si fa per pura fede, anche contro ogni luce della ragione. Preso atto di tutto quanto, interessante riferire, alla luce del nostro discorso, come il termine chòk possa intendere letteralmente «scolpire su pietra». -Molto molto singolare, poi, come Gv 6, si concluda proprio con la professione di fede, sopra citata, di Simon “Pietro”, ovvero Simon “Kèfa”, ovvero Simon “Roccia/Pietra” (cf. Gv 1, 42; Mt 16, 18) Ebbene, ecco allora come possiamo accendere il versetto che oggi abbiamo in analisi di una luce rilevante: la misteriosa presenza di Gesù nel pane e nel vino, ovvero il tema portante di Gv 6, che si può racchiudere nella pronunzia di Gesù: «Io sono il pane della vita» (cf. Gv 6, 35.48), è argomento che tanto ai discepoli quanto a noi, tanto allora quanto oggi, crea enorme difficoltà di comprensione e di professione, per non dire confusione e imbarazzo logico-razionale. Ma Gesù, invero, rimanendo così “duro” in questo suo discorso così centrale -discorso che riguarda la Sua Sostanza, il Suo Mistero; discorso che, abbiamo detto, è la “sinossi giovannea” dell’Ultima Cena -cf. AVRÀ SETE, ovvero così ineffabile, così chòk, ci invita, dinanzi ai misteri più grandi e imponderabili della nostra fede, ad essere aperti più al divino che all’umano; ci invita maggiormente ad abbandonarci alla sua Parola senza cercare in ogni modo e maniera, arrovellando le nostre menti e scervellandoci, di spiegare e spiegarci ciò che non si può definitivamente, pienamente e compiutamente spiegare col raziocinio. 
Questo non significa che la nostra fede non sia storica, ovvero che la nostra fede non abbia bisogno della ragione. Questo significa, invece, come la nostra fede sia storia, ma storia che non può prescindere dal kerýgma («annuncio teologico»); questo significa come alla nostra fede non basti il solo metodo logico-razionale per essere vissuta, ma necessiti decisamente, e imprescindibilmente, del salto della “fiducia” (cf. il greco pístis e il latino fides che valgono sia «fede» ma anche «fiducia»). E se in altri commenti abbiamo dovuto ribadire l’aspetto storico della nostra fede (cattolica in Gesù Cristo Lógos fatto carne -cf. Gv 1, 44), ovvero abbiamo sollecitato a recuperare l’aspetto storico della nostra fede (poiché essa, la nostra fede, troppo spesso, viene considerata, e accolta, meramente come fosse un “romanzetto/favoletta”), ecco che oggi, in queste poche righe, dobbiamo ribadirne, invece, proprio l’aspetto kerygmatico, ovvero teologico, che non è sinonimo di “fiabesco”, bensì di chòk, ovvero “duro come la pietra” (cf. Mt 7, 24-25; Lc 6, 48). 
Ecco, allora, che potremmo definire la nostra fede non solo “storia e kerýgma” ma anche e propriamente “storia e chòk”. 





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