- Dal “come” al “perché”-
Valore e sacrificio -
Quali valori?
La
sfida del presente
Educare
oggi non è più, se mai lo è stato, il semplice completamento di percorsi già
organizzati da altre agenzie formative come la scuola, la Chiesa o la famiglia.
L’evoluzione
della macchina produttiva, le immigrazioni, i conflitti sempre più gravi e
destabilizzanti, il rapporto delle realtà nazionali con le strutture regionali
o sovranazionali hanno corroso gran parte delle consolidate prospettive
esistenziali, quelle prospettive che animavano e sorreggevano l’attività
educativa. Nell’incertezza di nuovi orizzonti, molto si è contestato,
abbandonato o perso.
I
profondi cambiamenti della famiglia, il ridursi della presenza religiosa nella società
e l’orientamento professionalizzante dell’iter scolastico (sempre più precoce)
ci pongono oggi di fronte a una domanda di formazione profonda e strutturale.
Oggi,
come educatori, dobbiamo accettare la sfida di un’educazione che cerchi di
essere completa: un cammino che miri allo sviluppo di una piena umanità.
Dal
“come” al “perché”
Se
l’educazione è un cammino, i valori rappresentano la bussola e il propellente. Come
in ogni cammino, è possibile “gironzolare”, “andare senza meta” o perdersi. C’è
un fascino nell’”andare senza meta”, si possono fare insperate scoperte, ma si
può anche sprecare tanto tempo.
SCEGLIERE
Ben
più grave è perdersi: se la sorte è benigna, si è corso un grosso rischio; se
non lo è, si smarrisce ogni direzione e si rischia la sopravvivenza.
Anche
l’educazione può “gironzolare”, facendo attività d’intrattenimento e di svago.
A volte queste attività possono rivelarsi educative, ma è un caso fortuito,
isolato e, alla fine, inconcludente. Ma l’educazione può anche perdersi, generando
disperazione o malvagità.
È
il rischio di ogni attività educativa, perché l’uomo, non essendo semplicemente
soggetto all’istinto, agisce secondo modelli acquisiti.
Questo
fatto, banale e notissimo, viene troppo spesso sottovalutato. Non esiste uno
stato “naturale”, una condizione “indifferente” che l’uomo possieda a prescindere
da qualsiasi esperienza formativa.
Per
ogni generazione, per ogni epoca c’è, letteralmente, il rischio
dell’imbarbarimento.
E’
per questo che l’educazione non può limitarsi a integrare. Riproporre i modelli
che sembrano naturali, sorvolando o dimenticando la loro origine culturale, può
essere un fatto necessario, ma è completamente esposto alla regressione.
Preoccuparsi
del “come”, tralasciando i “perché”, insistere sulle abilità, ignorando gli
scopi, significa fare dell’addestramento e non dell’educazione. E l’addestramento
si disinteressa della consapevolezza e strumentalizza la responsabilità.
Il
cammino di crescita, invece, autentico e con speranze di efficacia, ha bisogno
di “perché”. Chi lo compie, se vuole conoscere questi “perché”, per comprenderli
a fondo, per modificarli, per assumerli come guida, deve esercitare critica e
discernimento.
Questi
“perché”, come è evidente, sono i valori. Ma la loro conoscenza, anche se
frutto di critica e discernimento, non emancipa dalla tentazione predicatoria,
dal “mettersi a posto la coscienza”, sventolando i “valori”, per coprire i
propri interessi, la sete di popolarità, il discredito sugli avversari o, semplicemente,
il proprio o l’altrui immobilismo.
Valore
e sacrificio
I
nostri valori possono uscire dall’ipocrisia predicatoria solo fondendosi con il
sacrificio.
L’uomo
non è infinito, non è dotato di ubiquità. Quando si pone in cammino, abbandona
ciò che gli era accanto, per raggiungere dell’altro. Sacrifica qualcosa, per
ottenere qualcos’altro, più importante, più significativo… comunque “più”, e
questo “più” è appunto il riconoscimento di un valore. Sacrificio e valore
debbono sempre rimanere legati, perché solo il sacrificio rende autentico il
valore. Ciò accade perché il valore, se è valore, fa “muovere”, spinge verso un
cambiamento, verso una conversione. Tutto questo, implicando un abbandono o un
superamento, richiede sacrificio. In questo cammino, però, c’è molta gioia,
molto entusiasmo, perché il “più”, se è vero, se è profondamente capito, se non
è imposto, mette le ali ai piedi, affascina, cattura e trasforma lo sforzo in
serena e allegra fatica.
Nasce
così una gerarchia di valori, un criterio per dare delle priorità, per escludere
delle possibili mete. Per questo l’idea di sacrificio oggi, per molti, è fuori
moda.
Dove
l’infantilismo impera, dove si desidera tutto senza voler nulla, dove i capricci
zampillano dai sogni di onnipotenza, non c’è spazio per accettare i propri
limiti e per riconoscere la bontà di ciò che inevitabilmente si lascia con lo
scopo di raggiungere la più grande bontà di ciò che si cerca.
L’abbinamento
valore-sacrificio è, dunque, necessario, ma è ben lungi dall’essere
sufficiente. È potente, ma, proprio per questo, è assai pericoloso, come tutte
le cose profondamente umane.
Quali
valori? La saggezza (il discernimento): un giudicare adulto. Il
sacrificio va sempre guardato con sospetto. I cimiteri di guerra sono pieni di
defunti che hanno sacrificato la loro vita al suono delle fanfare. Interi
popoli hanno creduto, obbedito e combattuto, immolandosi per dei “valori” che a
loro sembravano sacri.
Le
buone intenzioni possono forse giustificare davanti a Dio, ma certo non davanti
all’umanità. Lo sviluppo delle capacità umane rende oggi possibile, e quindi
obbligatorio, il passaggio dall’etica della convinzione alla più severa etica
della responsabilità. Forse nel passato non era possibile pretendere l’assunzione
di responsabilità per gli effetti delle proprie azioni, forse una buona
intenzione poteva scusare realizzazioni disastrose, ma le capacità di
previsione
attuali non consentono più indulgenze simili.
Il male è sempre stato “qualcosa di bene” messo nel posto sbagliato.
Sbagliare
la gerarchia dei valori significa immolare ed immolarsi assurdamente, operando
contro se stessi e contro l’umanità.
La
saggezza (discernimento) è l’unico antidoto per evitare che “i valori” si
rivoltino contro l’uomo e lo “sottopongano” a degli idoli, capaci di richiedere
il sacrificio della sua natura e della sua dignità.
Ma
la saggezza è un metodo, non un contenuto; è la capacità di un uomo, non il
deposito di una biblioteca.
SCEGLIERE
La
saggezza è quella modalità adulta, mai interamente posseduta, che svela il
senso dell’umana maturità e che si fonda sulla capacità di giudizio.
La
capacità di giudizio nasce dal sapere, ma non è il sapere - né quello tecnico-scientifico,
rigorosamente consequenziale nella sua astrattezza,
né
quello sapienziale, frutto della contemplazione e della comprensione del Vero.
Conoscenza e sapienza sono i presupposti del giudizio e ne determinano, per
buona parte, la qualità, ma se ne distinguono, perché la capacità di giudicare
è, per sua natura,
un’applicazione.
Nel costruire un giudizio, infatti, noi usiamo due “saperi”
e
generiamo un accadimento. Da un lato, facciamo appello alla nostra cultura, nel
senso più vasto del termine (tutto quello che abbiamo letto, sentito, studiato,
vissuto); dall’altro, impegniamo la nostra capacità percettiva, per riuscire a
cogliere la situazione, ’oggetto, le persone che ci stanno di fronte e che, qui
ed ora, richiedono il nostro giudizio. Alla fine, c’è, appunto, la
compromissione, che è sempre un fatto.
Questa
natura del giudicare - concreta, pratica, applicativa - comporta una serie di
conseguenze di grande rilievo per l’attività educativa.
Troppo
spesso si confondono le teorie o le ipotesi con i giudizi. La confusione è
giustificata, perché, lo ripetiamo, il sapere è ciò che qualifica il giudizio
e
lo distingue dall’arbitrio, dall’”istintualità”, dall’obbedienza. Ma giudicare non
è fare un’ipotesi o enunciare un principio; giudicare è compiere un passo in
più, un passo decisivo, che ci trasferisce di colpo dal regno del reversibile a
quello dell’irreversibilità: la diagnosi fatta, la sentenza emessa, la strategia
scelta, l’epiteto attribuito potranno forse essere corretti, sospesi o ritrattati,
ma non sono più ipotesi, sono, irreversibilmente, dei fatti.
Giudicare
è quindi scegliere, prendendo delle responsabilità.
Per
questo il giudizio non può mai essere solo il frutto di un “sapere”, esso è anche
e sempre il manifestarsi di un “essere”. Per questo giudicando male non solo si
sbaglia, ma, inevitabilmente, si tradisce.
Le
passioni, le speranze, i ricordi, le teorie, l’ignoranza, la distrazione: tutto
interviene nel momento delicato e fuggevole del giudizio, tutto l’uomo e tutta la
storia, in una dialettica che sfugge ad ogni schema.
Non
è il diritto che giudica, ma il giudice; non è l’economia che produce, ma
l’imprenditore; non la docimologia che valuta, ma l’insegnante.
È
insegnabile la saggezza? Certamente no. Si possono e si debbono creare le condizioni
perché tale “valore” si conquisti e si eserciti; si possono denunciare le
manipolazioni e combattere gli ostacoli, ma esiste un confine strutturale, oltre
il quale non è possibile spingersi.
Al
di là di questo limite si generano solo effetti contrari. E il limite è dato dal
fondamento della saggezza, cioè dalla capacità di giudicare.
Giudicare,
infatti, è sempre e strutturalmente giudicare da sé, cioè per proprio conto,
ossia personalmente. Arduo passaggio che tutti, e non solo i giovani,
rivendicano a gran voce e che molti, o quasi, evitano con gran cura. Arduo passaggio
che richiede vasta cultura, fiducia di sé, comprensione degli altri, pazienza
meditativa e pronta capacità decisionale.
Arduo
passaggio che però conduce all’autentica fedeltà alla gerarchia dei valori.
Gian Maria Zanoni
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