giovedì 6 giugno 2019

UNA CHIAMATA PER UN CAMMINO COMUNE

Papa Francesco: " ...... Le tre linee che vi indico sono: la santità, come chiamata che dà senso al cammino di tutta la vita; la comunione, come “humus” delle vocazioni nella Chiesa; la vocazione stessa, come parola-chiave da preservare, coniugandola con le altre: “felicità”, “libertà” e “insieme”; e infine declinandola come speciale consacrazione.
Santità
Il discorso sulla vocazione porta sempre a pensare ai giovani, perché «la giovinezza è la stagione privilegiata delle scelte di vita e della risposta alla chiamata di Dio» (Doc. Finale del Sinodo dei Vescovi sui giovani, 140). Questo è bene, ma non dobbiamo dimenticare che la vocazione è un cammino che dura tutta la vita. Infatti, la vocazione riguarda il tempo della giovinezza quanto all’orientamento e alla direzione da assumere in risposta all’invito di Dio, e riguarda la vita adulta nell’orizzonte della fecondità e del discernimento del bene da compiere. La vita è fatta per portare frutto nella carità e questo riguarda la chiamata alla santità che il Signore fa a tutti, ciascuno attraverso la sua propria strada (cfr Gaudete et exsultate, 10-11). Molto spesso abbiamo considerato la vocazione come un’avventura individuale, credendo che riguardi soltanto “me” e non prima di tutto “noi”. In realtà, «nessuno si salva da solo, ma si diventa santi insieme» (cfr ibid., 6). «La vita dell’uno è legata alla vita dell’altro» (Gen 44,30), ed è necessario che ci prendiamo cura di questa comune santità di popolo.
Comunione
La pastorale non può che essere sinodale, vale a dire capace di dare forma a un “camminare insieme” (cfr Christus vivit, 206). E la sinodalità è figlia della comunione. Si tratta di vivere di più la figliolanza e la fraternità, di favorire la stima reciproca, valorizzare la ricchezza di ciascuno, credere che il Risorto può operare meraviglie anche attraverso le ferite e le fragilità che fanno parte della storia di tutti. Dalla comunione della Chiesa nasceranno nuove vocazioni. Spesso nelle nostre comunità, nelle famiglie, nei presbitéri abbiamo pensato e lavorato con logiche mondane, che ci hanno diviso e separato. Ciò appartiene anche ad alcuni tratti della cultura odierna e la sofferta storia politica dell’Europa è di monito e fa da sprone. Solo riconoscendoci veramente comunità – aperte, vive, inclusive – diventeremo capaci di futuro. Di questo i giovani hanno sete.
Vocazione
La parola “vocazione” non è scaduta. L’abbiamo ripresa nell’ultimo Sinodo, durante tutte le fasi. Ma la sua destinazione rimane il popolo di Dio, la predicazione e la catechesi, e soprattutto l’incontro personale, che è il primo momento dell’annuncio del Vangelo (cfr Evangelii gaudium, 127-129). Conosco alcune comunità che hanno scelto di non pronunciare più la parola “vocazione” nelle loro proposte giovanili, perché ritengono che i giovani ne abbiano paura e non partecipino alle loro attività. Questa è una strategia fallimentare: togliere dal vocabolario della fede la parola “vocazione” significa mutilarne il lessico correndo il rischio, presto o tardi, di non capirsi più. Abbiamo bisogno – invece – di uomini e donne, laici e consacrati appassionati, ardenti per l’incontro con Dio e trasformati nella loro umanità, capaci di annunciare con la vita la felicità che viene dalla loro vocazione.
Felicità
Questo – l’essere un segno gioioso – non è per nulla scontato, eppure è la questione più importante per il nostro tempo, in cui la “dea lamentela” ha molti seguaci e ci si accontenta di gioie passeggere. Invece la felicità è più profonda, permane anche quando la gioia o l’entusiasmo del momento scompaiono, anche quando sopraggiungono le difficoltà, il dolore, lo scoraggiamento, la disillusione. La felicità rimane perché è Gesù stesso, la cui amicizia è indissolubile (cfr Christus vivit, 154). «In fondo – diceva Papa Benedetto – vogliamo una cosa sola: la vita beata, la vita che è semplicemente vita, semplicemente felicità» (Enc. Spe salvi, 11). Alcune esperienze di pastorale giovanile e vocazionale confondono la felicità che è Gesù con la gioia emozionante e annunciano la vocazione come tutta luminosa. Questo non va bene, perché quando si entra a contatto con la carne sofferente dell’umanità – la propria o quella degli altri –, questa gioia scompare. Altri introducono l’idea che discernere la propria vocazione o camminare nella vita spirituale sia una questione di tecniche, di esercizi dettagliati o di regole da seguire; in realtà, «la vita che Dio ci offre […] è un invito a far parte di una storia d’amore che si intreccia con le nostre storie» (Christus vivit, 252).
Libertà
È vero che la parola “vocazione” ai giovani può fare paura, perché spesso è stata confusa con un progetto che toglie la libertà. Dio, invece, sostiene sempre fino in fondo la libertà di ciascuno (cfr ibid., 113). È bene ricordarlo, soprattutto quando l’accompagnamento personale o comunitario innesca dinamiche di dipendenza o, peggio, di plagio. Questo è molto grave, perché impedisce la crescita e il consolidarsi della libertà, soffoca la vita rendendola infantile. La vocazione si riconosce a partire dalla realtà, in ascolto della Parola di Dio e della storia, in ascolto dei sogni che ispirano le decisioni, nella meraviglia di riconoscere – a un certo punto – che ciò che vogliamo per davvero è anche ciò che Dio vuole da noi. Dallo stupore di questo punto d’incontro, la libertà si orienta a una scelta dirompente d’amore e la volontà fa crescere gli argini capaci di contenere e incanalare verso un’unica direzione tutta la propria energia di vita.
Insieme
La vocazione – lo abbiamo già accennato – non è mai soltanto “mia”. «I veri sogni sono i sogni del “noi”» (Veglia con i giovani italiani, 11 agosto 2018). Nessuno può compiere una scelta di vita soltanto per sé; la vocazione è sempre per e con gli altri. Penso che dovremmo riflettere molto su questi “sogni del noi” perché riguardano la vocazione delle nostre comunità di vita consacrata, i nostri presbitéri, le nostre parrocchie, i nostri gruppi ecclesiali. Il Signore non chiama mai solo come singoli, ma sempre all’interno di una fraternità per condividere il suo progetto d’amore, che è plurale fin dall’inizio perché lo è Lui stesso, Trinità misericordiosa. Trovo sia molto fecondo pensare alla vocazione in questa prospettiva. Anzitutto perché offre uno sguardo missionario condiviso, poi perché rinnova la consapevolezza che nella Chiesa nulla si compie da soli; che siamo all’interno di una lunga storia orientati verso un futuro che è partecipazione di tutti. La pastorale vocazionale non può essere compito solo di alcuni leader, ma della comunità: «ogni pastorale è vocazionale, ogni formazione è vocazionale e ogni spiritualità è vocazionale» (Christus vivit, 254).....


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