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di Giuseppe Savagnone *
Si diceva del problema del lavoro. Se ne è molto parlato in relazione
al Covid, ma soprattutto per segnalare l’aumento della disoccupazione o i
problemi legati all’obbligo del green pass. E in questa direzione sono
andati anche le proteste, i cortei, gli scontri di piazza. In realtà,
però, gli effetti più profondi della pandemia sono quelli che si stanno
verificando non tanto nelle situazioni esterne, ma nel cervello delle
persone.
Quelli del primo livello, infatti, potranno facilmente essere
annullati da un cambiamento del trend sanitario ed economico, mentre più
difficilmente accadrà lo stesso per quelli che coinvolgono il modo di
vedere se stessi e la propria vita. Ora, sembra che proprio qui si stiano
verificando delle singolari novità.
Raccolgo dai giornali alcuni dati. A partire dagli Stati Uniti, dove,
con l’attenuarsi dell’emergenza sanitaria, si registra un aumento del
numero di dimissioni dal posto di lavoro: «Ad agosto 4 milioni di
americani si sono licenziati» (C. Benna, “Mi dimetto e cambio vita”. I
40.000 in fuga dalle aziende, «Corriere Torino», 1°
novembre 2021).
Addirittura, «un recente report di Microsoft afferma che il 40% delle
persone sta pensando di dimettersi dal lavoro attuale entro l’anno» (R. Zezza, Fuga dal lavoro: perché la pandemia sta provocando le
Grandi Dimissioni, «Il Sole24ore», 1 ottobre 2021).
Qualcosa di simile sta accadendo anche in Italia, dove «il tasso di
dimissioni è più che raddoppiato nel giro di due anni: dall’1,1% sul
totale degli occupati al 2,3% di oggi». Il fenomeno ha dimensioni
impressionanti: «“Mi dimetto. E cambio vita”. L’hanno pensato, detto,
fatto 480 mila italiani, un quarto del totale delle cessazioni del
rapporto lavorativo da aprile a giugno, di cui circa 30-40 mila in
Piemonte, l’85% in più rispetto all’anno scorso (…). Con lo sblocco
dei licenziamenti in tanti prevedevano l’apocalisse del lavoro. È successo
il contrario. Sono più i lavoratori a tempo indeterminato che
lasciano l’azienda che aziende che li licenziano» (C. Benna, art. cit.).
Le diverse motivazioni e la comune origine nella relativizzazione
della “sistemazione”
Le motivazioni sono molteplici. Dalle considerazioni degli analisti
esse appaiono non solo diverse, ma per certi versi contraddittorie. Alcuni
osservatori ne individuano uno importante nello stress causato dallo smart
working, che ha annullato la distanza fisica e temporale tra la sfera
professionale e quella privata, dilatando i tempi di lavoro e invadendo la
vita personale e familiare dei lavoratori. La tempesta dei messaggi e
delle incombenze che li ha assediati attraverso cellulari, tablet e
computer non ha più consentito lo stacco, che prima era fisiologico, tra i
luoghi e le ore dell’attività lavorativa e quelli dedicati al riposo.
Da un altro lato, però, si segnala una difficoltà dell’impiegato di
tornare, ora che la diminuzione dei contagi lo consente, al vecchio
ambiente del lavoro “in presenza”. Un ambiente spesso segnato da una
freddezza disumana, rispetto al quale lo smart working, pur con la sua
invasività, aveva talora costituito l’occasione di trascorrere le proprie
giornate in una maniera più autentica, a contatto con la vita “reale”.
L’articolo del «Sole24ore» segnala un simpatico video belga in cui
viene raffigurato un padre al ritorno in ufficio, tenuto per mano dalla
sua bambina che lo conforta con le classiche parole con cui i genitori di
solito incoraggiano i figli nel rientro a scuola: «Rivedrai i tuoi amici,
starai bene, non piangere» (R. Zezza, art. cit).
In altri casi si tratta semplicemente dell’aspirazione a trovare un
lavoro migliore, a lungo covata, forse, ma che ora, con il trauma
determinato dal coronavirus, trova finalmente una concretizzazione. Ci si
sente più liberi, si diventa più audaci.
Alla base di tutte queste motivazioni, però, c’è probabilmente il fatto che
«una larga parte della forza lavoro ha reagito alla transizione
pandemica interrogandosi sul senso della propria vita – come le crisi
spingono a fare – e volendone riprendere il controllo» (ivi). Commenta l’autrice dell’articolo: «Siamo ben
lontani da una visione di “risorse” umane, intese come beni che si possono
acquistare e manutenere perché non si deteriorino e
garantiscano produttività» (ivi).
Il Covid ci ha costretti tutti a fermarci, per certi versi, e a riflettere.
Certo, ci sono stati anche quelli che si sono rifiutati di farlo e hanno
impiegato le loro energie a immaginare complotti finalizzati a instaurare
una dittatura mondiale, al servizio degli interessi di Bill Gates e delle
case farmaceutiche, oppure semplicemente a maledire il governo per le
restrizioni che imponeva alle loro sacre libertà; ma molti altri hanno
trovato nel lockdown, loro malgrado, una insolita occasione di ritrovarsi
soli con se stessi e di pensare. E hanno scoperto che non volevano
continuare a vivere come avevano fatto finora, prima della pandemia.
Il riflesso di questo è l’accentuarsi di una tendenza già da molto tempo in
atto nelle società post-industriali: «Oggi il posto per tutta la vita non
esiste più: le persone hanno smesso di desiderarlo perché si stanno
rendendo conto che cambiare si può, anche dopo tanti anni» (C. Benna, art. cit.). Ma soprattutto il Covid ha
messo in evidenza la relatività di certe scelte materiali – quella
del lavoro era tradizionalmente considerata la base di una “sistemazione”
umana
definitiva – rispetto al grande problema della felicità personale. Non si
può assolutizzare un lavoro. Anzi, forse, neppure il lavoro. Prima viene
il vivere, poi il lavorare.
Il contro-esodo
In questo senso va, per quanto riguarda l’Italia, un altro effetto
della pandemia: il profilarsi di un contro-esodo. Secondo una ricerca
condotta dal Centro Studi Pwc , «l’epidemia da Covid induce una
parte consistente dei giovani emigrati all’estero per motivi di studio e di
lavoro a prendere in considerazione un ritorno “a casa” (…). Un
talento su cinque pensa di tornare in Italia, 1 su 4,3 sta per tornare
nelle regioni del Sud» (V. Viola, Cervelli in fuga, controesodo
spinto da Covid e sgravi fiscali, «Il Sole24ore», 18 settembre 2020).
Una ragione importane è sicuramente la crisi economica che, a seguito
del Covid, ha colpito Paesi dove l’emigrazione aveva portato molti giovani
italiani alla ricerca di opportunità che in Italia non trovavano. Ma anche
in questo caso, siamo davanti a un cambiamento che non è solo dovuto a ragioni
puramente materiali, ma implica la trasformazione del modo di vedere le
cose da parte delle persone: «Prima della primavera 2020 – recita lo
studio di Pwc – si pensava di ritornare nelle città di origine solo avendo
la certezza di poter migliorare retribuzione e livello di carriera; oggi
questi obiettivi di vita perdono smalto (…). È cambiata la scala dei
valori dei nostri giovani» e «il Covid ha inciso profondamente» (ivi).
Si recupera il valore delle relazioni umane, di quelle familiari in
modo particolare. Non è un caso che il contro-esodo si annunci massiccio
soprattutto verso le regioni meridionali. Certo, è da queste che la
migrazione all’estero di giovani in cerca di lavoro si è soprattutto verificata
in questi anni. Ma le interviste parlano anche del desiderio di recuperare
relazioni più ricche e più intense, come sono quelle abituali al Sud.
Guadagnare bene non basta, se poi si è
soli e si vive male.
Non c’è dubbio che il Covid sia stato e continui ad essere una seria
minaccia per tutti noi. Eppure, da quanto detto, emerge che gli effetti
che sta producendo non sono solo negativi. Pur nella loro problematicità e
provvisorietà, i dati che abbiamo trovato e riportato ci parlano di una
scossa che le nostre società “evolute” non conoscevano da molto tempo e
che le rimette in discussione sotto un profilo di decisiva importanza
com’è quello del senso attribuito al lavoro.
Non è garantito da nessuno che questo cambiamento abbia un esito
finale positivo. Però qualcosa si muove, non solo nei numeri, ma nelle
coscienze e nella cultura. Quanto basta per aprire uno spiraglio di
speranza in un futuro diverso da quello a cui, al tempo del perdurante dominio
della logica del mero profitto, ci eravamo rassegnati.
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