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sabato 6 novembre 2021

PANDEMIA. LA GRANDE FUGA


Fuga dal lavoro 
per cambiare vita

 

-         di Giuseppe Savagnone *

 Mentre ancora siamo alle prese con la quarta ondata della pandemia, le notizie che vengono dal mondo del lavoro, in queste settimane, confermano che in ogni caso essa non rimarrà soltanto una dolorosa parentesi da dimenticare, lasciandosela dietro le spalle per tornare alla vita di prima e di sempre, ma costituirà una frattura radicale, che già sta profondamente segnando gli stili di vita delle società occidentali, compresa quella italiana.

Si diceva del problema del lavoro. Se ne è molto parlato in relazione al Covid, ma soprattutto per segnalare l’aumento della disoccupazione o i problemi legati all’obbligo del green pass. E in questa direzione sono andati anche le proteste, i cortei, gli scontri di piazza. In realtà, però, gli effetti più profondi della pandemia sono quelli che si stanno verificando non tanto nelle situazioni esterne, ma nel cervello delle persone.

Quelli del primo livello, infatti, potranno facilmente essere annullati da un cambiamento del trend sanitario ed economico, mentre più difficilmente accadrà lo stesso per quelli che coinvolgono il modo di vedere se stessi e la propria vita. Ora, sembra che proprio qui si stiano verificando delle singolari novità.

Raccolgo dai giornali alcuni dati. A partire dagli Stati Uniti, dove, con l’attenuarsi dell’emergenza sanitaria, si registra un aumento del numero di dimissioni dal posto di lavoro: «Ad agosto 4 milioni di americani si sono licenziati» (C. Benna, “Mi dimetto e cambio vita”. I 40.000 in fuga dalle aziende, «Corriere Torino», 1° novembre 2021).

Addirittura, «un recente report di Microsoft afferma che il 40% delle persone sta pensando di dimettersi dal lavoro attuale entro l’anno» (R. Zezza, Fuga dal lavoro: perché la pandemia sta provocando le Grandi Dimissioni, «Il Sole24ore», 1 ottobre 2021).

Qualcosa di simile sta accadendo anche in Italia, dove «il tasso di dimissioni è più che raddoppiato nel giro di due anni: dall’1,1% sul totale degli occupati al 2,3% di oggi». Il fenomeno ha dimensioni impressionanti: «“Mi dimetto. E cambio vita”. L’hanno pensato, detto, fatto 480 mila italiani, un quarto del totale delle cessazioni del rapporto lavorativo da aprile a giugno, di cui circa 30-40 mila in Piemonte, l’85% in più rispetto all’anno scorso (…). Con lo sblocco dei licenziamenti in tanti prevedevano l’apocalisse del lavoro. È successo il contrario. Sono più i lavoratori a tempo indeterminato che lasciano l’azienda che aziende che li licenziano» (C. Benna, art. cit.).

Le diverse motivazioni e la comune origine nella relativizzazione della “sistemazione”

Le motivazioni sono molteplici. Dalle considerazioni degli analisti esse appaiono non solo diverse, ma per certi versi contraddittorie. Alcuni osservatori ne individuano uno importante nello stress causato dallo smart working, che ha annullato la distanza fisica e temporale tra la sfera professionale e quella privata, dilatando i tempi di lavoro e invadendo la vita personale e familiare dei lavoratori. La tempesta dei messaggi e delle incombenze che li ha assediati attraverso cellulari, tablet e computer non ha più consentito lo stacco, che prima era fisiologico, tra i luoghi e le ore dell’attività lavorativa e quelli dedicati al riposo.

Da un altro lato, però, si segnala una difficoltà dell’impiegato di tornare, ora che la diminuzione dei contagi lo consente, al vecchio ambiente del lavoro “in presenza”. Un ambiente spesso segnato da una freddezza disumana, rispetto al quale lo smart working, pur con la sua invasività, aveva talora costituito l’occasione di trascorrere le proprie giornate in una maniera più autentica, a contatto con la vita “reale”.

L’articolo del «Sole24ore» segnala un simpatico video belga in cui viene raffigurato un padre al ritorno in ufficio, tenuto per mano dalla sua bambina che lo conforta con le classiche parole con cui i genitori di solito incoraggiano i figli nel rientro a scuola: «Rivedrai i tuoi amici, starai bene, non piangere» (R. Zezza, art. cit).

In altri casi si tratta semplicemente dell’aspirazione a trovare un lavoro migliore, a lungo covata, forse, ma che ora, con il trauma determinato dal coronavirus, trova finalmente una concretizzazione. Ci si sente più liberi, si diventa più audaci. 

Alla base di tutte queste motivazioni, però, c’è probabilmente il fatto che «una larga parte della forza lavoro ha reagito alla transizione pandemica interrogandosi sul senso della propria vita – come le crisi spingono a fare – e volendone riprendere il controllo» (ivi). Commenta l’autrice dell’articolo: «Siamo ben lontani da una visione di “risorse” umane, intese come beni che si possono acquistare e manutenere perché non si deteriorino e garantiscano produttività» (ivi).

Il Covid ci ha costretti tutti a fermarci, per certi versi, e a riflettere. Certo, ci sono stati anche quelli che si sono rifiutati di farlo e hanno impiegato le loro energie a immaginare complotti finalizzati a instaurare una dittatura mondiale, al servizio degli interessi di Bill Gates e delle case farmaceutiche, oppure semplicemente a maledire il governo per le restrizioni che imponeva alle loro sacre libertà; ma molti altri hanno trovato nel lockdown, loro malgrado, una insolita occasione di ritrovarsi soli con se stessi e di pensare. E hanno scoperto che non volevano continuare a vivere come avevano fatto finora, prima della pandemia.

Il riflesso di questo è l’accentuarsi di una tendenza già da molto tempo in atto nelle società post-industriali: «Oggi il posto per tutta la vita non esiste più: le persone hanno smesso di desiderarlo perché si stanno rendendo conto che cambiare si può, anche dopo tanti anni» (C. Benna, art. cit.). Ma soprattutto il Covid ha messo in evidenza la relatività di certe scelte materiali – quella del lavoro era tradizionalmente considerata la base di una “sistemazione” umana
definitiva – rispetto al grande problema della felicità personale. Non si può assolutizzare un lavoro. Anzi, forse, neppure il lavoro. Prima viene il vivere, poi il lavorare.

Il contro-esodo

In questo senso va, per quanto riguarda l’Italia, un altro effetto della pandemia: il profilarsi di un contro-esodo. Secondo una ricerca condotta dal Centro Studi Pwc , «l’epidemia da Covid induce una parte consistente dei giovani emigrati all’estero per motivi di studio e di lavoro a prendere in considerazione un ritorno “a casa” (…). Un talento su cinque pensa di tornare in Italia, 1 su 4,3 sta per tornare nelle regioni del Sud» (V. Viola, Cervelli in fuga, controesodo spinto da Covid e sgravi fiscali, «Il Sole24ore», 18 settembre 2020).

Una ragione importane è sicuramente la crisi economica che, a seguito del Covid, ha colpito Paesi dove l’emigrazione aveva portato molti giovani italiani alla ricerca di opportunità che in Italia non trovavano. Ma anche in questo caso, siamo davanti a un cambiamento che non è solo dovuto a ragioni puramente materiali, ma implica la trasformazione del modo di vedere le cose da parte delle persone: «Prima della primavera 2020 – recita lo studio di Pwc – si pensava di ritornare nelle città di origine solo avendo la certezza di poter migliorare retribuzione e livello di carriera; oggi questi obiettivi di vita perdono smalto (…). È cambiata la scala dei valori dei nostri giovani» e «il Covid ha inciso profondamente» (ivi).

Si recupera il valore delle relazioni umane, di quelle familiari in modo particolare. Non è un caso che il contro-esodo si annunci massiccio soprattutto verso le regioni meridionali. Certo, è da queste che la migrazione all’estero di giovani in cerca di lavoro si è soprattutto verificata in questi anni. Ma le interviste parlano anche del desiderio di recuperare relazioni più ricche e più intense, come sono quelle abituali al Sud. Guadagnare bene non basta, se poi si è
soli e si vive male.

Non c’è dubbio che il Covid sia stato e continui ad essere una seria minaccia per tutti noi. Eppure, da quanto detto, emerge che gli effetti che sta producendo non sono solo negativi. Pur nella loro problematicità e provvisorietà, i dati che abbiamo trovato e riportato ci parlano di una scossa che le nostre società “evolute” non conoscevano da molto tempo e che le rimette in discussione sotto un profilo di decisiva importanza com’è quello del senso attribuito al lavoro.

Non è garantito da nessuno che questo cambiamento abbia un esito finale positivo. Però qualcosa si muove, non solo nei numeri, ma nelle coscienze e nella cultura. Quanto basta per aprire uno spiraglio di speranza in un futuro diverso da quello a cui, al tempo del perdurante dominio della logica del mero profitto, ci eravamo rassegnati.

 *Pastorale Cultura Diocesi Palermo

 

www.tuttavia.eu

 

 

 

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