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lunedì 8 febbraio 2021

MORTE DEI LIBRI ?


 Fra i libri e l'uomo la storia non muore


       

"Non sono state le guerre o i complotti ma le pagine scritte, nelle loro molteplici forme, ad aver dato vita alla nostra civiltà". La riflessione di Tolentino Mendonça sul nuovo "Vita e Pensiero"

Dal Covid con in suoi strascichi sociali, politici e antropologici, alle nuove rivalità nazionali per la conquista dello spazio; dalle nuove frontiere del rinnovamento economico al ruolo della cultura, della comunicazione e dei libri per costruire il futuro. Come sempre ricco di dibattiti e approfondimenti il nuovo numero della rivista "Vita e Pensiero", il bimestrale della Cattolica in uscita giovedì. Qui anticipiamo l’intervento nella sezione "Polemiche culturali" del cardinale José Tolentino Mendonça sul ruolo passato e futuro dei libri nella costruzione dell’Occidente. Fra le firme di spicco Amartya Sen con un articolo su "Libri, libertà, dissenso e tirannia"; Gianfranco Ravasi e Mariapia Veladiano sull’editoria religiosa; l’economista Gaël Giraud sulle disuguaglianze nel mondo; Emidio Diodato sulle controversie e timori politico-strategici nella corsa allo spazio; Fabrice Hadjadj su Stato e trascendenza; Pier Angelo Sequeri su virus e ruolo della comunità.

 -José Tolentino Mendonça

Siamo ormai alle soglie, si dice da più parti, della fine dell’era del libro. E non perché i libri, nell’arco storico della nostra vita, abbiano cessato di esistere da un momento all’altro, o perché siano sul punto di farlo: noi speriamo e ardentemente desideriamo che continuino a essere scritti e letti, a essere pubblicati, diffusi e conservati ancora per lungo tempo. Quello che però sta avvenendo è che, tanto come manufatti quanto come trasmettitori di una determinata concettualizzazione morale della vita, i libri hanno smesso di rappresentare, come sosteneva George Steiner già negli anni Sessanta del secolo scorso, il principale punto focale di energia della nostra civiltà. In questa funzione, il libro è stato sostituito dallo schermo.

Ognuno di noi, in effetti, oggi trascorre più tempo davanti a un display che a un libro. E sono di tanti tipi gli schermi che popolano massicciamente il nostro quotidiano e lo plasmano venendo così a occupare il luogo che, per secoli, era stato riservato alla pagina e al testo, manoscritto o a stampa. Ciò a cui assistiamo nel consumarsi di questa svolta è che il testo alfabetico stesso sta diventando niente più che una modalità fra le tante di elaborazione dei miliardi di messaggi che vengono visualizzati sugli schermi. Il libro, e ciò che esso rappresenta, si trova relegato in un ruolo sempre più minoritario. Nell’autorappresentazione che il mondo contemporaneo fa di sé, il libro non è più, per esempio, “la grande me-tafora”, come lo era nel XII secolo quando il teologo e mistico Ugo di San Vittore sosteneva che omnis mundi creatura quasi liber, per dire che ogni creatura di questo mondo è come un libro e può essere spiegata per analogia a partire da esso; o come lo era ancora alla fine del XIX secolo, quando Mallarmé immaginava il libro come una struttura onnicomprensiva, una sorta di coagulo totale delle scritture decifrabili e indecifrabili dell’uomo e dell’universo.

È pur vero che, come qualcuno dice, dovremmo parlare di trasformazione, più che di crepuscolo, del libro, dal momento che quella in corso è semplicemente una modificazione del supporto del libro e non del libro propriamente detto. L’attuale forma cartacea è una tappa di una storia più lunga, iniziata con i testi incisi su pietra, su tavolette di argilla, e continuata poi con i rotoli. Una storia che continuerà a fare il suo cammino. In questo senso Umberto Eco affermava fiducioso che il libro rientra in quella tecnologia eterna a cui appartengono la ruota, il coltello, il cucchiaio, il martello, la pentola o la bicicletta. Per quanto i designer investano nella trasformazione di questo o quel dettaglio, sarà sempre possibile riconoscere che quello è un coltello o quello è un cucchiaio. Una bicicletta avrà sempre due ruote e un telaio. Analogamente, con tutte le variazioni che potranno essere introdotte, quello che terremo tra le mani sarà sempre un libro.

Non possiamo tuttavia dimenticare che la civiltà che inventò il libro ha inventato anche le condizioni necessarie per la sua lettura, e che queste ci hanno plasmato antropologicamente, venendo a costituire un patrimonio culturale che dobbiamo preservare. Perché chi inventò il libro inventò il silenzio della lettura; inventò quella forma intima di temporalità che rende l’incontro col libro indissociabile dall’incontro con noi stessi; inventò l’attenzione, l’avventura della conoscenza e la curiosità; inventò un habitat sociale in cui l’attività intellettuale era ammessa e, non dimentichiamolo, questo habitat ha liberato l’uomo, rivelandogli la propria dignità; inventò il diritto universale all’alfabetizzazione e moltiplicò le comunità di lettori; inventò l’individuo e la vita privata; inventò la fiducia nella consistenza del linguaggio e le biblioteche; inventò i salotti letterari, i caffè e le piazze come luoghi di dibattito; inventò i sistemi critici ed ermeneutici che garantiscono non solo la leggibilità dei libri, ma la comprensione dei mondi possibili; inventò le scuole monastiche e l’idea moderna di università; inventò l’umanesimo e la libertà d’espressione, che è sempre inseparabile dalla libertà di essere. Il libro accompagnò la nascita e l’espansione delle lingue moderne dell’Occidente, e assistette allo sviluppo delle sue possibilità espressive, cognitive e di immaginazione. Chi inventò il libro inventò una certa forma di produrre storia e inventò anche la figura del lettore quale ancora noi siamo. Per questo è incalcolabile il patrimonio umano, culturale e spirituale rappresentato dal libro. Quello che il libro mette in gioco è molto più del libro.

Non possiamo disfarcene come fosse un arcaico residuo destinato a essere disattivato. Ha scritto Mario Vargas Llosa: «Quando penso al piacere immenso che mi hanno offerto le biblioteche e come è stato bello lavorarvi, stimolato da quelle migliaia di libri nei quali sono depositate la conoscenza e la fantasia letteraria di tanti secoli, penso con tristezza che forse la mia sarà l’ultima generazione a fare un’esperienza simile se, come non è impossibile pensare fin da ora, le nuove generazioni di scrittori lavoreranno circondate da display invece che da scaffali e la materia del libro non sarà la carta, ma i cristalli liquidi dei monitor». In questo frangente di passaggio di civiltà, dobbiamo interrogarci su quello che, come società, possiamo fare per valorizzare questo patrimonio e assicurare che il libro continui a ispirarci nella costruzione della nostra umanità. I libri non ci rendono solo lettori, ci rendono anche cittadini.

La storia dell’Europa è inseparabile dai libri che hanno costituito il suo stile di creare cultura, scienza, spiritualità e pensiero. Non possiamo considerare l’identità europea e i suoi valori fondanti senza una connessione al mondo dei libri che l’hanno aiutata a superare il monolitismo ideologico, le ristrettezze di orizzonti o l’inconsistenza e i limiti di visione. La dimensione più straordinaria del progetto europeo non nacque come una conquista bellica, come una concezione economica o meramente politica. Sono i libri ad aver fatto l’Europa. Da Omero a Virgilio, a Catone, a Petrarca. Dai trattati di Aristotele alle lettere di Paolo. Dalle commedie di Terenzio alle Confessioni di Agostino. Dalle fantasie di Lucrezio alla Summa di Tommaso. Dai trovatori medievali a Dante o a Camões. Dai pamphlet di Voltaire a Marx. Da Hegel a Freud. Da Dostoevskij a Joyce. Da Simone Weil a María Zambrano. In momenti particolarmente duri della storia europea apparvero alcune delle più belle dichiarazioni d’amore per i libri. Ricordo Thomas Mann, partendo in esilio per gli Stati Uniti volle leggere e commentare, durante la lunga traversata oceanica, il Don Chisciotte di Cervantes. Etty Hillesum nello zaino essenziale con cui entrò nel campo di concentramento, non scelse di mettere oggetti ma due libri: la Bibbia e il volume di poesie di Rainer Maria Rilke.

Ricordo la storia dello scrittore Józef Czapski, internato tra il 1940 e il 1941 in un gulag: al termine di ogni giornata di lavori forzati, tra i rigori delle temperature siberiane, un gruppetto di prigionieri sedeva in circolo per ascoltare il loro compagno Józef Czapski tenere una serie di conferenze su Proust. Egli aveva avuto per l’ultima volta l’opera di Proust tra le mani nel 1939 e temeva di non tornare più a vedere un libro. Per questo le sue lezioni si basavano su un lavoro di recupero della memoria di quel colossale universo romanzesco. Scrive Czapski: «In quei momenti pensavo con emozione a Proust, che, nella sua camera surriscaldata e tappezzata di sughero, si sarebbe meravigliato e forse commosso se qualcuno gli avesse detto che, a vent’anni dalla sua morte, un manipolo di prigionieri polacchi, dopo un’intera giornata trascorsa sulla neve, in un freddo che arrivava spesso a 40 gradi sotto lo zero, avrebbe ascoltato col massimo interesse la storia della duchessa di Guermantes». Il teologo Romano Guardini racconta che, «in una delle grandi battaglie dell’ultima guerra, un reparto si trovava in una situazione disperata. Il cappellano militare era presente e, sentendo che non aveva da dire nulla di accettabile in quell’ora, tolse di tasca la propria copia del Nuovo Testamento, ne strappò le pagine e ne diede una a ogni uomo». Proteggiamo il patrimonio culturale che i libri rappresentano. Essi sono mappe per decifrare da dove veniamo. Ma sono anche telescopi e sonde puntati sul futuro.

(Traduzione di Pier Maria Mazzola)

 www.avvenire.it



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