Vietate le parole «handicappato» e «diversamente abile»
nei documenti ufficiali:
perché il governo Meloni sceglie
un linguaggio inclusivo
per la disabilità
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di Ygnazia
Cigna
Tutte
le amministrazioni pubbliche dovranno adottare una nuova terminologia per le
persone con disabilità: ecco quali parole devono cambiare e come mai
Addio
ai termini «handicappato» o «diversamente abile». È tempo di adottare un
linguaggio rispettoso e inclusivo quando si parla e si scrive di persone con
disabilità, affinché vengano evitate espressioni considerate obsolete o
stigmatizzanti, a favore di altre che rispecchino il valore della dignità e
della diversità umana. È l’invito contenuto in una recente nota dell’ufficio di
gabinetto del ministero per le Disabilità, che sollecita ad aggiornare e
uniformare la terminologia ufficiale delle amministrazioni pubbliche. Si tratta
di un aggiornamento che fa capo all’articolo 4 del Decreto legislativo n. 62
del 2024 (entrato in vigore il 30 giugno) e interessa sia la comunicazione
istituzionale (comunicati stampa, siti web, documentazione informativa) sia l’attività
amministrativa vera e propria, come decreti, provvedimenti o modulistica.
I
termini da cambiare
Nella
nota vengono indicate le seguenti modifiche:
- «Handicap» viene sostituito da
«condizione di disabilità» in tutti i documenti ufficiali.
- Termini come «persona handicappata»,
«portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e
«diversamente abile» vengono unificati in «persona con disabilità».
- Le espressioni «con connotazione di
gravità» e «in situazione di gravità» sono sostituite da «con necessità di
sostegno elevato o molto elevato».
- Infine, «disabile grave» diventa
«persona con necessità di sostegno intensivo».
Perché
usare «persona con disabilità» invece di «disabile»
Perché
usare l’espressione «persona con disabilità» invece di «disabile» o
«handicappato»? La differenza principale sta nel fatto che, nel primo caso, si
mette al centro la persona, mentre negli altri due si rischia di ridurre
l’individuo alla sua disabilità. L’obiettivo di queste modifiche linguistiche è
quindi di spostare l’attenzione sulla persona, piuttosto che sulla sua
condizione, per evitare che venga etichettata unicamente in base alla
disabilità. Si tratta di un approccio che promuove un linguaggio che rispetta e
valorizza la dignità e la complessità di ogni individuo. Sebbene la modifica
del linguaggio possa sembrare un cambiamento puramente formale, in realtà
riflette una visione più moderna e inclusiva della società, che ora sta
trovando spazio anche negli ambienti istituzionali.
Un
cambio di rotta del governo?
Si
tratta di una mossa apparentemente dissonante nella linea adottata finora dalla
maggioranza di governo, che alle sollecitazioni sulla
necessità di utilizzare un linguaggio più inclusivo, ha più volte risposto in
modo respingente. La premier stessa ha scelto di farsi chiamare «Il
presidente», rifiutando l’utilizzo di «la presidente». La scorsa estate, il
senatore della Lega Manfredi Potenti ha presentato un
disegno di legge per vietare l’uso di termini femminili come
«sindaca», «questora», «avvocatessa» e «rettrice» negli atti pubblici,
sostenendo che il maschile universale dovesse prevalere in tutti i contesti
ufficiali, pena sanzioni. E, solo pochi giorni fa, Meloni ha dichiarato:
«Alcune femministe credono che la parità di genere si realizzi declinando
titoli al femminile». Eppure, quando si parla di disabilità, il governo sceglie
una strada diversa, più soft e meno controversa.
Forse
un cambio di rotta o, più probabilmente, una mossa dettata dal fatto che il
tema della disabilità è percepito come meno divisivo e, ad esempio, meno
polarizzante rispetto alla questione di genere. In altre parole, parlare di
linguaggio inclusivo per le persone con disabilità non solleva le stesse
tensioni politiche e culturali che, invece, si accendono quando si discute
della parità di genere. La disabilità continua ad essere erroneamente vista
come una questione semplicemente di rispetto, mentre il tema della parità di
genere sfida direttamente gli equilibri di potere esistenti. Sorge dunque
spontaneo chiedersi se questo intervento faccia parte di un reale cambiamento
di paradigma, o se si tratti semplicemente di un tentativo di presentarsi come
inclusivi su un tema che, al momento, non scotta come altri. Ciò non toglie,
che la revisione della terminologia sui temi della disabilità rappresenti un
passo avanti e un segno di civiltà.
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