sabato 7 settembre 2019

CHI NON RINUNCIA ......

Una folla numerosa seguiva Gesù.

Lc 14, 25-33
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: "Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro".
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

Commento di p. Paolo Curtaz

Una folla numerosa ...... ancora oggi, in teoria.
Un po’ per convinzione, un po’ per abitudine, un po’ perché non si sa mai e, tutto sommato, il cristianesimo porta in sé una discreta dose di credibilità. E poi che tenero è Gesù. E un po’ ci hanno sempre insegnato così. E poi è comodo, in fondo.
È difficile pensare alle cose di Dio, come già fa notare l’autore del testo della Sapienza, unico libro della Bibbia che cerca di usare linguaggio e ragionamenti che occhieggino ai greci, i cittadini del mondo dell’epoca.
Difficile perché, immagina magnifica usata dall’autore alessandrino, il corpo appesantisce l’anima.
Quindi evviva se qualcuno ci fa il riassunto. Se altri hanno riflettuto prima di noi. Se non dobbiamo sbatterci troppo a cercare Dio e ci viene proposto già precotto e masticato. Evviva!
È simpatico Gesù. Poi guarisce, d’ogni tanto. E tutto sommato poco esigente, vuoi mettere col mese di digiuno (fatto seriamente) dei musulmani?
Insomma, ci sta. Siamo cristiani. Abbastanza, inso
Poi.
Poi Gesù si volta verso la folla numerosa. E parla.
Spiega cosa intende quanto dice di essere venuto a portare il fuoco sulla terra.
Cosa significa diventare discepolo di uno come lui. Vabbè.

Di più.  Seguire il fuoco significa incendiarsi d’amore. Seguire uno come lui, disposto a donarsi totalmente, a percorrere i quattro confini della terra per raccontare con le parole e con la vita chi è davvero Dio, significa voltare pagina, salire una vetta. Allora chiede, Gesù, osa. Chiede di essere amato di più. Chiede di essere amato perché esiste l’amore, che tutti conosciamo, che è epifania divina, che è esperienza totalizzante e struggente di Dio riflesso nelle persone e nelle situazioni. Ed esiste un amore più grande, quello del dare vita. Quello che Gesù ci ha svelato. E che in lui possiamo sperimentare. È esigente, sì, e finanche presuntuoso, il Signore. Ma perché può mantenere ciò che promette.  Può amare di più. Un amore più grande. Più grande del più grande amore che abbiamo vissuto o che mai potremo sperimentare. Chiede perché lui per primo dona. Non c’è spazio per i tiepidi. O per i superficiali. O per i calcolatori. Niente bilancino per pesare quanto diamo per poter esigere da Dio in controparte, col Signore. Ecco, qualcuno, fra i molti che lo seguono, abbassa lo sguardo, si ferma. Non scherziamo.

La propria croce. Seguire Gesù significa portare la propria croce.  E qui ci rassicuriamo. Vittime come siamo di ogni disgrazia, silenziosi penitenti reietti, santi in pectore rassegnati a soffrire come Gesù ci chiede… Solo che non abbiamo capito nulla di quanti Gesù dice. Nulla. Nada. Nothing.  Ha appena parlato d’amore. Di un amore più grande. Da ricevere e da restituire.  L’amore ha a che fare con la croce. Cioè col dono totale di sé. Il primo a parlarne è Marco (Mc 8.34-35) quando, a Cafarnao, Gesù spiega in che modo sarà Messia. È disposto a morire pur di non rinnegare il volto del Padre. Pur di non cambiare idea. E così sarà.  Allora chiede ai discepoli di essere disposti anch’essi a seguirlo in questo compito così impegnativo, anche a costo della propria morte.  Questa è la croce da prendere: la testimonianza del volto del Padre anche a costo della stessa vita.  Seguire il fuoco, l’Amato significa avvicinarsi alla testimonianza radicale del dono di sé.  Quindi (e mi sgolo nel ripeterlo): Dio non manda le croci. Mai.  E, potendolo, Gesù stesso avrebbe volentieri evitato quella testimonianza definitiva e tragica.  Noi ci diamo le croci, gli uni gli altri, con i nostri giri di testa, le nostre paranoie, i nostri vittimismi. La croce non è una disgrazia accolta che rende felice Dio. Dio non ama la sofferenza. Mai.   E Gesù stesso, salendo sulla croce, è risorto.   Se la vita ci mette davanti ad una testimonianza di dolore, questi va superato, non idolatrato.  Non alziamoci ogni mattina felici di carteggiare la croce pensando di rallegrare Dio!

Fatti due conti. Ecco, i patti sono chiari, evidenti. Fatti due conti. Una religiosità che si esaurisce in quattro buone parole, in qualche distratta celebrazione, in un atteggiamento religioso che si esaurisce alla prima difficoltà, non è il fuoco di cui parla Cristo.  Fatti due conti, perché seguire uno così significa ribaltare la vita, convertirsi sul serio o, almeno, desiderarlo.  E questi tempi amari stanno setacciando i nostri cuori. Facendoci capire se stiamo seguendo la rissosa logica del mondo o la rivoluzione mite portata da Cristo.  Siate realisti, chiedete l’Impossibile, come scriveva Camus.  Osa Gesù, folle presuntuoso.  È bellissimo amare, essere riamati, avere degli affetti e godere delle gioie legittime.  Eppure lui è di più. Più della più grande gioia che abbiamo vissuto e che mai vivremo.

Cambiamenti. Così facendo la nostra vita, da ora, cambia di prospettiva.  Mettere la ricerca del tutto, la ricerca di Dio al centro della nostra vita, ci fa divenire persone nuove.  Ne sa qualcosa Filemone, simpatico cristiano delle origini, cui Paolo indirizza un biglietto di accompagnamento rimandandogli uno schiavo che si era rifugiato presso l’apostolo.  Paolo invita Filemone ad uscire dalla logica di questo mondo, padrone-schiavo, per entrare nella logica del Regno, fratello-fratello. Paolo non lo sa, ma in questo piccolo biglietto pianta il seme che diventerà l’albero dell’abolizione della schiavitù.

 Cerchiamo Dio, allora.  Non quello piccino delle nostre paure, dei nostri deliri, delle nostre ossessioni.  Del buon senso, della religiosità popolare che non cambia la vita, quello che benedice le nostre idee. Quello magnifico del Signore Gesù.
Più grande della più grande gioia che siamo in grado di vivere.





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