L’accordo per le
autonomie
La notizia di
questi giorni che il governo sta per approvare un accordo che trasferisce a tre
regioni del Nord – Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – una serie di funzioni
(con relativi budget finanziari), finora riservate allo Stato, può essere letta
a vari livelli.
Uno è quello
del metodo, per la verità ben poco democratico – e per nulla “populista” – che
si è seguito. Dopo aver gridato a gran voce contro gli “inciuci” della “casta”,
consumati sulle teste degli italiani, i partiti al governo si trovano oggi a
discutere a porte chiuse una scelta che non potrà non avere una portata storica
per il nostro Paese e conseguenze rilevantissime per la vita concreta delle
persone.
Se, infatti, le
tre regioni italiane più ricche potranno gestire i servizi fondamentali,
avranno anche il diritto di trattenere all’interno dei loro confini quel
surplus che deriva dal loro gettito fiscale e che attualmente viene
redistribuito dallo Stato in modo da venire incontro ai bisogni delle altre
regioni, in particolare di quelle meridionali, i cui bilanci sono invece in
deficit. Non è un’ipotesi, ma una certezza, la previsione di un serio
contraccolpo sulle economie già precarie di queste regioni.
La fine di un modello
unitario statale: l’istruzione
Ma, dicevo, non
è un problema solo economico. Trasferendo alle regioni che ne stanno facendo
richiesta l’autonomia in ambiti decisivi come, per fare un esempio,
l’istruzione, lo Stato italiano rinuncerà ad avere un modello unitario di
scuola.
Potrà diventare
diverso studiare in Lombardia o in Veneto e in Calabria o in Sicilia, come lo è
oggi tra studiare in Italia e in Germania (potrà essere diversa anche l’offerta
formativa).
Ma lo sarà
anche insegnare: si parla già di stipendi più alti per i professori che
lavoreranno al Nord e quelli del Sud. E, naturalmente, toccherà alle rispettive
regioni stabilire le regole per l’assunzione, ivi inclusa la provenienza
regionale dei candidati.
Del resto le
motivazioni non mancheranno: fa parte dell’armamentario culturale della Lega il
luogo comune che i “terroni” sono degli scansafatiche e dei parassiti.
Proprio a
proposito di scuola, il ministro leghista dell’Istruzione Marco Bussetti, alla
domanda di un cronista su come le scuole meridionali possano recuperare il gap
con quelle del Nord, ha risposto che «ci vuole l’impegno del Sud, vi dovete
impegnare forte».
E,
all’insistenza del cronista che gli chiedeva se fosse previsto un piano di
aiuti economici, si è visibilmente irrigidito: «Più fondi? No, più impegno:
lavoro, sacrificio, impegno, lavoro e sacrificio».
Insomma, come
titolava, «Libero» (vicino alla Lega), anche per i meridionali, dopo che per i
migranti, «la pacchia è finita».
Il rischio della
discrezionalità e delle discriminazioni
Ma a tutti i
livelli, non solo a quello scolastico, bisogna spettarsi una ricaduta analoga
del nuovo regime dell’autonomia. Ormai è prevedibile che nei bandi di concorso,
nelle ammissioni a tutti i servizi, compresi quelli sanitari, possano scattare
meccanismi di discriminazione che vanificherebbero la comune cittadinanza
italiana, dando la precedenza a quella regionale.
Dopo il «Prima
gli italiani», scatta (come ampiamente previsto dai pochi, inascoltati, che
hanno fin dall’inizio diffidato delle promesse elettoralistiche di Salvini al
Sud) la seconda fase: «Prima il Nord».
Roba di fronte
a cui la riforma costituzionale proposta da Renzi e su cui si sono spesi fiumi
di discorsi, sui giornali, in televisione, sui social, diventa ben poca cosa.
Mappa delle
persone a rischio povertà nelle varie regioni, pubblicata dall’istituto tedesco
BBSR
Il mancato
ascolto dell’opinione pubblica
Se c’era,
dunque, una questione su cui sarebbe stato necessario un vastissimo
coinvolgimento dell’opinione pubblica era proprio questa.
Invece, già il
governo Gentiloni (che ha avviato la procedura) sia questo (che la sta portando
a compimento) sono stati talmente riservati che solo all’ultimo momento si è
cominciato a parlarne sui mezzi di comunicazione.
Si dirà che l’accordo
deve ancora essere definito e che poi sarà necessaria l’approvazione del
Parlamento. Ma chi ricorda che in Senato l’ultima legge di bilancio è stata
approvata dai senatori senza che neppure avessero il tempo di eleggerla, e che
alla Camera i deputati hanno dovuto votare senza avere quello discuterla, non
può certo sentirsi rassicurato sulla possibilità di un vero confronto pubblico.
E, in ogni
caso, la decisone resterà nelle mani di gruppi parlamentari di maggioranza che
hanno dimostrato inequivocabilmente di dipendere totalmente dalla volontà dei
loro leader, e dunque del governo di ci essi sono i (vice)premier.
Autonomia suona meglio
di secessione
Un altro
livello di lettura è quello riguarda il significato politico. Quella che si sta
verificando ha potuto essere definita, da un serio economista studioso dei
problemi Nord-Sud, Gianfranco Viesti, la «secessione dei ricchi».
La
realizzazione, cioè, del programma che la Lega Nord aveva invano perseguito con
Bossi partendo dalla periferia e attaccando “Roma ladrona”, questa volta
attuato da Salvini a partire proprio dal centro dello Stato. Ha aiutato anche
cambiare il nome: “autonomia” suona meglio di “secessione”…
L’utilità delle
autonomie per lo sviluppo della nazione
Da parte del
governo, a dire il vero, arrivano le più ampie rassicurazioni. Conte al termine
della riunione di governo che ha trattato l’argomento, dopo aver sottolineato
che «sull’autonomia c’è assoluta unanimità e pieno consenso», ha promesso che
sarà lui il «garante della coesione nazionale; non sarà un percorso che
arricchirà alcune regioni e ne impoverirà altre».
Senza i
miliardi che per ora lo Stato eroga, attingendo alle entrate fiscali del Nord e
reinvestendole al Sud, i meridionali saranno, secondo loro, molto più felici.
Perché anche
loro, si fa notare, potranno chiedere la stessa autonomia che oggi viene data
alla Lombardia, al Veneto e all’Emilia Romagna. «Mi auguro che questo percorso
venga raccolto dalle regioni del sud», ha detto Salvini in conferenza stampa.
Già. Forse il
nostro ministro degli Interni non ricordava che questa autonomia già la Sicilia
ce l’ha fin dal dopoguerra e che essa non ha portato, finora, particolare
felicità, anzi ha favorito corruzione, mafia e degrado economico.
Finora si era
contato sull’aiuto dello Stato per cercare di vincere queste derive. Ora che
ogni regione prende la sua strada, per la parte sana della popolazione si
delinea un futuro sempre più problematico.
La Chiesa e il rapporto
nord-sud
Un’ultima
lettura può essere quella che guarda alla visione della Chiesa italiana, che si
è molto occupata del rapporto tra Nord e Sud.
Già nel
documento della CEI del 1989, Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella
solidarietà, si era voluto riflettere «sulla “questione meridionale” come
problema di tutto il Paese» (n.1) e si era notato che «la questione meridionale
implica sostanzialmente l’esistenza di una crisi che è di tutto il Paese e non
solo del Mezzogiorno» (n.8).
In continuità
con questa impostazione, nel nuovo documento Per un Paese solidale, pubblicato
poco più di dieci anni dopo, i vescovi osservano che oggi «affrontare la
questione meridionale diventa un modo per dire una parola incisiva sull’Italia
di oggi» (n.1).
I vescovi
denunziavano senza mezzi termini una deriva culturale che «ha fatto crescere
l’egoismo, individuale e corporativo, un po’ in tutta l’Italia, con il rischio
di tagliare fuori il Mezzogiorno dai canali della ridistribuzione delle
risorse, trasformandolo in un collettore di voti per disegni politico-economici
estranei al suo sviluppo» (n.5).
Non si tratta,
però, di scaricare i meridionali delle loro responsabilità. Già nel documento
del 1989 ciò si diceva chiaramente: «Sono necessari, e doverosi, l’aiuto e la
solidarietà dell’intera Nazione, ma in primo luogo sono i meridionali i
responsabili di ciò che il Sud sarà nel futuro» (n.15).
Citando
Giovanni Paolo II, il documento del 2010 dice la stessa cosa: «Spetta “alle
genti del Sud essere le protagoniste del proprio riscatto, ma questo non
dispensa dal dovere della solidarietà l’intera nazione”» (n.2).
Oltre
l’assistenzialismo
Basta, dunque,
col vittimismo e con l’assistenzialismo. L’aiuto che il Paese può e deve dare
il Sud è di stimolarlo a trovare in se stesso le energie e le risorse per
uscire dal degrado.
Ma questo, se
da un lato esclude che si continui come si è fatto finora, richiede una più
stretta e autentica collaborazione tra le regioni italiane: «Proprio per non
perpetuare un approccio assistenzialistico alle difficoltà del Meridione,
occorre promuovere la necessaria solidarietà nazionale» (n.8).
Mi sembra il
contrario di ciò che si sta facendo. Invece di studiare progetti di intervento
e di cooperazione tra Nord e Sud alternativi all’ “approccio assistenzialistico”,
si abbandona il Meridione al suo destino. Accompagnando il gesto con parole di
vago conforto, come si usa ai funerali.
*Direttore Ufficio Pastorale della Cultura
dell'Arcidiocesi di Palermo. Scrittore ed Editorialista.
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