A PROPOSITO DI
OBBEDIENZA
Visto che
la mia esperienza d’insegnamento si svolge in Germania, mi piace iniziare la
riflessione sul rapporto scuola-obbedienza con la parola tedesca che sta per
obbedire: gehorchen. Al prefisso ge segue horchen, verbo di uso corrente che
significa porgere l’orecchio, ascoltare attentamente.
In tedesco quindi l’obbedienza viene
sorretta dal bisogno essenziale di un ascolto concentrato e presente,
presupponendo che la fonte dell’interesse sia un po’ nascosta, immersa nel
silenzio, difficile da percepire. Proprio il contrario di quello che
l’obbedienza sembra sottintendere: pretesa, azzeramento della volontà o della
capacità di pensare dell’altro.
A scuola il termine obbedienza sembra
essersi dissolto. Non sento mai dire: «I bambini non ubbidiscono», ma
piuttosto: «Non fanno quello che dico, non mi seguono, fanno quello che
vogliono, fanno finta di non sentire». Non è una peculiarietà relativa alla
scuola. Nella Germania di oggi la parola obbedienza assieme a ordine,
diligenza, autorità, potere, provoca una sorta di disagio, ha un retrogusto
sospetto.
È ancora troppo vicino il passato del
nazionalsocialismo che, abusando di tutti questi termini, ha cercato di
giustificare i suoi orrendi crimini. Quelle che una volta erano le migliori
qualità indiscusse, peculiari e fondamentali di una nazione hanno dovuto essere
ripensate, creando all’inizio un certo disorientamento.
A questo
ripensamento corrisponde in ambito pedagogico la messa al bando definitiva
della cosiddetta «pedagogia nera» improntata sulla paura e che tende a vedere
l’alunno come un oggetto, un contenitore da riempire con le varie discipline,
che porta in sé tendenze potenzialmente pericolose da raddrizzare nel caso si
manifestino.
Ecco quindi, influenzata dal
[Sessantotto, la pedagogia antiautoritaria, che mette al centro il bambino con
i suoi diritti e le sue potenzialità ma soprattutto si scaglia contro l’obbedienza,
il criterio guida della pedagogia nera. Un’obbedienza che serve interessi
sociali e di potere e che soddisfa anche chi richiede una sottomissione
psicologica. Il nuovo ideale dunque è l’individualità al posto del conformismo
e un’educazione che rende se stessa superflua.
In concreto
però si registrano spesso perdita di valori, mancanza di rispetto e di
disciplina, incapacità di sopportare la frustrazione e un fiorire di piccoli o
grandi despoti incapaci di rapportarsi alle più semplici regole della
convivenza. Le più moderne riflessioni pedagogiche sottolineano oggi il
concetto di responsabilità al posto dell’ubbidienza, accompagnata dal rispetto
incondizionato e della presa di coscienza da parte dell’educatore della dignità
del bambino. Quindi la parola obbedienza a scuola è davvero superata?
Dopo una breve inchiesta sul tema che
ho fatto rivolgendomi a diversi miei colleghi, sono giunta alla conclusione che
l’obbedienza si basi indissolubilmente sulla fiducia, ne sia una sorta di
sinonimo dal suono leggermente più antipatico. Soprattutto i bambini piccoli
danno quasi sempre alla maestra una fiducia incondizionata, una sorta di
accredito; un grande regalo e una grande responsabilità per l’educatore; un
dono a volte anche fragile, che con la crescita viene periodicamente
ricontrollato, riaggiustato.
Crescendo, l’accredito molto spesso
cala, vuole poter essere messo in discussione, anche criticato. I veri
professionisti di questa critica sono gli adolescenti. E il concetto di
autorità? Come la Chiesa, anche la scuola è un’istituzione gestita secondo un
modello gerarchico autoritario. Non dispotico ma, si spera, basato su valori
come la collegialità ed il dialogo e arricchito dall’autorevolezza di tanti,
cioè dalla loro capacità carismatica di coinvolgere e convincere.
Nel
quotidiano scolastico l’obbedienza è presupposta ma non data per scontata;
rappresenta il comportamento adeguato dell’alunno in risposta all’insegnante,
la regola del gioco di squadra senza la quale il gioco non può funzionare, una
regola a volte faticosa da fare rispettare. Vive del contrasto tra imposizione
come mezzo e libertà come fine.
Serve per semplificare, per dare una
struttura, rende possibile un ordine in cui ognuno sappia come muoversi e possa
crescere. Poi, è ovvio, obbedire non è sempre bello e non è sempre facile. Non
tutto quello che l’insegnante dice viene sempre messo in pratica da tutti gli
studenti e non tutte le mancanze di obbedienza hanno la stessa gravità.
Alcuni
esempi pratici e antitetici, il primo molto nordico. Se fuori c’è la neve i
ragazzi nell’intervallo non possono fare le pallate. Un certo pericolo è
evidente, soprattutto con la lungimiranza di chi sa che qua la neve quasi
sempre in inverno ghiaccia e se a qualcuno arriva in faccia una palla di ghiaccio
misto a neve non fa decisamente bene. Ma non c’è niente da fare.
Il fascino di questo freddo e bianco
materiale e la gioia sportiva di lanciarla fa sempre dimenticare l’obbedienza.
Altro caso è il bullismo: la disubbidienza alla regola fondamentale del
rispetto reciproco richiede tempo, dialogo e sanzioni di ben altra dimensione.
A seconda del carattere dell’alunno e del tipo di educazione ricevuta dai
genitori ci sono bambini che non hanno problemi a dare fiducia e quindi ad
obbedire e altri che sembrano volere disobbedire a qualsiasi regola per partito
preso.
Chi ha sempre bisogno di mettere in
discussione ogni piccolezza o deve porre sempre se stesso e il proprio piccolo
mondo al centro di ogni situazione, chi non è mai in grado di sottostare ad
un’autorità, chi non sa farsi prendere per mano e aiutare non si rende semplice
la vita. A scuola anche l’insegnante deve ubbidire. Al dirigente scolastico o a
chi fa parte della squadra di direzione.
Come
l’alunno, anche l’adulto lo fa più o meno volentieri, a seconda del carisma e
della competenza del dirigente, del tipo di mansione da svolgere, del senso che
vede o meno nella mansione. A volte si sceglie attivamente di dare fiducia e si
scopre che è stato un bene, altre volte si subisce e si agisce controvoglia.
Entrambe le esperienze sono fonte di crescita.
Oggi è chiaro che l’obbedienza è uno strumento
educativo e non un fine; che ubbidire non mi rende un burattino nelle mani di
qualcuno che mi manovra, ma mi aiuta a muovermi sicuro e senza pericolo su un
sentiero che non conosco. A scuola obbedendo imparo appunto anche a tendere
l’orecchio, a rimanere in ascolto, a discernere, fino al momento in cui mi
sentirò sicuro e comincerò a muovermi con responsabilità e libertà.
Monica Catani
(articolo
tratto da www.messaggerocappuccino.it)
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