giovedì 19 marzo 2020

LA GRANDE EMERGENZA. L'UOMO E' UNA COSA INUTILE?

Il nichilismo antropologico ci assedia e ci vede solo come materia animata, un semplice momento della vita della natura, ovvero un frutto casuale dell’evoluzione cosmica.
 Nelle correnti più radicali passa talvolta l’idea che l’essere umano sia un animale mal riuscito, a causa dello spirito in lui, da cui dobbiamo liberarci.

VITTORIO POSSENTI

Forse nessun problema ha inquietato il pensiero moderno come quello del nichilismo: crisi dei valori, svalorizzazione di quelli più alti, relativismo intellettuale e morale, dissoluzione dell’idea stessa di verità. E anche un pessimismo crepuscolare orientato al declino, un senso acuto della finitudine legato alla chiusura della concezione progressiva e ascendente della storia, che ha animato larga parte della modernità. Vi sono forze di reazione o il nichilismo sta avendo partita vinta, come l’ultima parola del pensiero? No, fortunatamente il nichilismo non è il nostro destino: elementi di rinnovamento si manifestano nel pensiero filosofico, che in varie espressioni non cede alla critica dell’idea di verità, al relativismo, al totale oscuramento del senso, che conduce alla paralisi. Eppure vi è nella presente fase storica una forma di nichilismo che serpeggia, che sembra difficile debellare e concerne l’uomo: è il “nichilismo antropologico”: l’uomo come null’altro che materia animata, come semplice momento della vita della natura, prodotto casuale dell’evoluzione cosmica, l’uomo come passione povera ed inutile.
Tale nichilismo appare un processo in cui la concezione “tradizionale” dell’essere umano ha subito una forte manipolazione, ed è stata sostituita da una in cui l’esistenza della persona non ha vero senso: “nichilismo come negazione dell’umanità dell’uomo”, così l’enciclica Fides et ratio individua un carattere primario del nichilismo contemporaneo. Se la verità dell’essere e dell’uomo si è eclissata per noi, nel senso che ne abbiamo perso l’accesso, il soggetto si trova entro un turbinio dove nulla sta fermo e tutto si scinde e dissolve. Nelle correnti radicali si esprime talvolta l’idea che l’uomo sia un animale mal riuscito a causa della presenza dello spirito in lui, e che dunque per portarlo ad essere un animale riuscito e adattato a se stesso, occorra intraprendere una lotta contro lo spirito per abolirlo, negandone la libertà. Ma se crediamo di essere liberi senza esserlo, è perché la nostra vista è miope, l’orizzonte che raggiungiamo limitato: ignoriamo che esistano alternative di vita diverse e più alte di quelle che ci vengono comunemente presentate. E così la persona, che è un essere potenziale che punta oltre se stesso, rischia di veder frustrato il desiderio, spesso deluso ma sempre rinascente, di non essere un prodotto del caso e della particolare nicchia in cui la vita l’ha posto.
Entro un tale terremoto l’estrema risorsa è porre qualcosa come significante, volendolo con una volontà che va oltre la mancanza di senso, e che intenderebbe creare un nuovo ordinamento dell’essere diretto dall’ideologia della tecnica, secondo la quale tutto è a disposizione e tutto può essere trasformato. Allora i diritti dell’uomo non potranno esibire una giustificazione valida, non avranno un fondamento inconcusso, ed an- zi verranno dichiarati mera convenzione una volta giunta a maturazione l’età della tecnica con la sua intrinseca volontà di potenza. Questa idea di un fondamento assoluto è un miraggio del razionalismo moderno che abusa del termine di fondazione e che, ormai deluso di se stesso, non sa più come far quadrare i conti. La ragione umana realista non fonda ma giustifica, e nel caso dei diritti umani li giustifica vedendoli radicati in esigenze fondamentali della persona umana che è universale, e che anzi costituisce il Diritto sussistente (Rosmini). Persona e Diritto sono due facce della stessa medaglia che include l’universalità dei diritti e doveri primari. In questo senso esiste una base per trovare un accordo o un consenso sui diritti e doveri, difficile quanto si voglia, ma non arbitrario, in quanto essi parlano di noi e a noi. Sono espressione di una filosofia dell’uomo e della storia teleologicamente orientata al compimento di ogni essere umano in cammino verso un’esistenza meno grama e un riconoscimento di giustizia. Nell’idea stessa dei diritti e doveri umani è inscritto un finalismo che mai potrà essere cancellato da alcun nichilismo,
compreso quello giuridico.
Quest’ultimo merita una parola. In esso, secondo la linea sostenuta da Nietzsche e da Kelsen, si concepisce il diritto come posto da un qualsiasi volere potente in un certo momento storico: potestas non veritas facit legem. Oggi non pochi vedono nella tecnica tale volere più poderoso di ogni altro e a cui tutti gli altri devono sottostare. Ed è qui che si gioca l’esistenza stessa del Diritto. Il diritto che l’ideologia della tecnica vuole fabbricare per se stessa è un diritto da essa posto ( positum) o meglio im–posto. L’esito è agevole dal momento che il positivismo giuridico ha pensato il diritto solo come posto da una volontà, e non anche e prioritariamente come immanente alla persona e atto di ordinamento razionale.
Il positivismo giuridico radicale è una vittima del suo originario movimento antimetafisico, che cerca di togliere di mezzo ogni nucleo stabile e ogni sapere fermo; esso appare una vera manna per l’ideologia della tecnica perché le apre dinanzi senza difesa uno spazio sconfinato in cui essa può fare quello che vuole. Allora il diritto sarà pur un diritto storico e dinamico, elemento che il giuspersonalista non intende negare, ma la direzione storica e il suo dinamismo non saranno inerenti alla persona ma imposti dalla tecnica; avremo la trasvalutazione di tutti i valori come intendeva Nietzsche.
La critica elevata dal positivismo giuridico radicale contro l’idea di un diritto stabile e proprio della persona, non può che approdare all’assunto che i diritti e i doveri umani sono qualcosa di assolutamente contingente e di cui la volontà di potenza può fare a meno. La diagnosi non è allegra, ma guai a cedere allo scoraggiamento e alla paura, su cui oggi si fa leva per ottenere un ordine sociale minimo e angosciante, mentre si disseccano la speranza e il desiderio quali fattori fondamentali della vita. Alto è il bisogno di un movimento di risveglio antropologico che conduca fuori dalle attuali strettoie. Nel momento in cui il pensiero raggiunge una verità adeguata, si può avviare un moto di risveglio: aiutare a uscire da paure e rifiuti, per dialogare e ripartire. Il risveglio è una necessità inderogabile della vita, individuale e sociale. Ogni movimento del genere inizia attraverso un’esperienza spirituale, uno sguardo rinnovato sulla realtà e su noi stessi, in cui speranza e desiderio si riaccendano: il loro vigore è essenziale all’uomo per raggiungere una maggiore fecondità di giudizio sulla vita umana. Le speranze e i desideri relativi all’ideale di giustizia e di unità al quale aspirano gli uomini sono a lunga scadenza. Possiamo giudicare fortemente le disgrazie del momento presente a patto di sperare e desiderare ancora più fortemente un altro cammino: il pessimismo non è una soluzione, e il nichilismo non può essere il nostro punto di arrivo. Occorre ricostituire la sovranità del Bene, come invitava a fare Iris Murdoch.



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