lunedì 9 aprile 2018

CONFINE O INTERAZIONE?

L'ACCOGLIENZA: ANTIDOTO AGLI STECCATI 
Barriere, frontiere, muri... La modernità genera un bisogno di nuove fortificazioni, con conseguenze tutte da valutare. 
Dibattito fra i filosofi Forti e Ronchi


      Il concetto di confine. Un tema che oggi, più che mai, è attuale e fa da cerniera tra vita individuale e collettiva, tra soggetto, mente e città. Un tema che coinvolge non solo la politica, ma anche la società tutta, con la sua ricaduta nella contemporaneità, su temi quali l’accoglienza e le migrazioni, in un’epoca in cui spesso la paura attraversa le nostre strade, provocando un brontolio che proviene sì dal basso, ma che ha origini forse più antiche, che si ripercuotono dalla storia dell’umanità, fino ai giorni nostri. 
     Il concetto di confine, paradossalmente, ha una doppia valenza: può significare vicinanza, adiacenza, contiguità tra ciò che è limitrofo, ma al tempo stesso può estremizzare, creare una barriera, una frontiera, un muro. E nonostante il nostro sia un mondo che ha fatto della globalizzazione il suo simbolo, invece di aspirare a una dimensione universalistica, sempre più spesso si alzano muri, segnando a tutti gli effetti un confine, anche fisico, con l’esterno, il diverso, lo straniero. Ed è proprio in questo solco che si inserisce la riflessione di Simona Forti, docente della New School for Social Research di New York: «Questo è davvero uno dei paradossi della nostra epoca. 
       Alla fine del ’900, la caduta del muro di Berlino non ha soltanto solleticato l’illusione di una 'fine della storia', ma anche il sogno di uno spazio liscio, senza confini e barriere. A uno sguardo anche superficiale appare chiaro che al processo di globalizzazione corrisponde una sorta di ri-feudalizzazione: la costruzione di nuove fortezze, di nuovi muri, di feudi protetti e isolati. In poche parole, è come se al declino degli Stati sovrani - quella che viene definita la fine del modello Westfalia - si rispondesse con l’erigere 'stati murati', come dice Wendy Brown.
          Se si pensa alla proliferazione non di frontiere, ma di muri veri e propri, di controlli sfinenti, ovunque nel mondo, non si può che rimanere stupefatti. Più cresce il numero di agenzie internazionali, più veloce diventa la circolazione di flussi informatici e finanziari globali, più si hanno risposte difensive e reattive. Più si indebolisce la sovranità territoriale, più le differenze locali cercano di murare se stesse. Piccoli o grandi che siano, i privilegiati, nati e cresciuti in un luogo al momento 'fortunato', allontanano da sé, senza pietà, lo spettacolo di un’umanità dolente, non tanto perché portatrice di una diversità inconciliabile, quanto piuttosto perché spettro di ciò contro cui il temporaneo privilegio non appare più come garanzia. È ovvio che l’accoglienza dell’immigrazione va gestita, non improvvisata e soprattutto non sfruttata. Ma chiunque legga i numeri, le statistiche, non può davvero pensare che in essa stia 'il problema'. 
        Al concetto di confine, poi, si può legare quello di territorialità, introducendo un ulteriore elemento nella riflessione: la nozione di identità, indagata insieme a Rocco Ronchi, fondatore e docente della Scuola di Filosofia Praxis: «La nozione di identità è spesso utilizzata come arma nel dibattito politico e culturale contemporaneo, ma in realtà è una nozione complessa, in parte legata a una dimensione profondamente immaginaria. L’identità diventa un problema nella misura in cui è compromessa, nel momento in cui se ne avverte la perdita. 
        Senza sradicamento non c’è un’interrogazione sul tema di identità, soprattutto per chi lo rivendica come valore forte e come principio politico. Lo sradicato ha bisogno di un confine che gli assicuri una realtà immaginaria, ma anche quello di confine è un concetto ambiguo. Se non è stato trasgredito, non si disegna, e risponde inoltre a un bisogno di sicurezza che è espressione stessa dell’identità minacciata. Il punto è che dove c’è sradicato, c’è bisogno di dualismo. Di un nemico e un amico, concetti su cui si basano i pensieri identitari, perché senza nemico non c’è identità».
         Il tema di 'immaginario', a partire proprio dal senso contemporaneo di sradicamento, è una sensazione, però, che trascende in una dimensione geografica, quindi anche culturale; in questo senso, allora, si può davvero parlare di confini 'fisici', quindi geografici, e confini 'immaginari', oppure stiamo parlando dello stesso grande contenitore su cui costruiamo la nostra identità? «Credo sarebbe un enorme risultato educare, per così dire, alla disidentificazione – spiega ancora Forti – a percepire il paradosso di un doppio movimento, per il quale le nostre identità sono l’esito di un impulso necessario, ma al contempo sono risultati contingenti e transitori. So di essere provocatoria, e in minoranza, ma sono convinta che se invece di insistere sul multiculturalismo, quale visione che cerca di far coabitare le differenze etniche e culturali, puntassimo sulla consapevolezza di un io e di un noi già internamente segnati dalla differenza con se stessi, il cambiamento di atteggiamento non sarebbe solo locale e temporaneo, ma profondo, oserei dire rivoluzionario. La politica ha sempre giocato su questo bisogno di protezione e di identità. Senza una sua canalizzazione politica e culturale, il nostro 'bisogno di confini' rimarrebbe comunque, e non è detto che si tradurrebbe in una modalità più accettabile».
         Rispetto a questa tematica, Ronchi ipotizza anche una via d’uscita dialettica, propria della narrativa del concetto, cercando di assumere positivamente il senso di sradicamento, se lo vedessimo «non come minaccia, ma come condizione dell’essere umano, quindi dell’homo viator, immerso nella dimensione del viaggio - essenza stessa dell’uomo - cambierebbe il rapporto con il concetto. In una dimensione psicologica, poi, la questione di confine e identità sono legate a una proiezione immaginaria che va a soddisfare o alimentare paure, nelle quali si cerca di creare un’identità posticcia ma rassicurante.  
        Il mondo globalizzato è una grande esperienza speculativa e filosofica, ha aspetti che tutti conosciamo e che sono criticabili, ma come principio restituisce all’umanità la sua autentica dimensione, che è universale: «un solo mondo, un solo uomo». Identità, confine e memoria, in definitiva, si intrecciano su concetti quali distanza e perdita, superamento e trasgressione, esodo e condizioni dell’uomo, in un costante oscillare tra finis, che «ci restituisce l’idea di confine come barriera», spiega Forti, e limes, che «rimanda invece ad un’accezione di confine come filtro, come permanente negoziazione su chi è dentro e chi è fuori».


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