E' DIVENTARE
IL TU DELL'ALTRO -
- di Johnny Dotti
- Darsi il tu
è impegnativo, noi facciamo come gli americani ma sbagliamo.
Il tu è una
cosa seria.
La tradizione non era stupida nell’arrivare gradualmente al tu. La riduzione che c’è stata a causa dell’individualismo negli ultimi 80 anni è proprio una riduzione della ricchezza dei pronomi personali. Ogni persona è sei pronomi, ciascuno di noi è sei pronomi. Invece noi finiamo per giocare tutto tra l’io e il tu, peraltro immaginando che il tu è sempre l’altro.
Mentre la
sfida della fede è diventare il tu dell’altro. Per me il Vangelo è tutto qui, in questa
scommessa.
E va notato
un altro elemento. Immaginiamo che la parte plurale – il noi, il voi, il loro –
siano ‘persone’ e invece no: sono ‘persona’. In lingua italiana, ma anche in quella
tedesca, quella francese, inglese, cinese, eccetera, i pronomi personali sono ‘persona’.
Persona
La nostra
persona è declinata in sei pronomi e questo, a ben vedere, è già scritto anche
nella nostra biografia: abbiamo un nome e un cognome, il cognome è un ‘noi’, è
un plurale.
Più vado
avanti con gli anni più ho dei dubbi sull’io, perché l’esperienza concreta che
facciamo nella vita è quella di essere il tu di qualcuno, o il ‘lei’ di
qualcuno, o il ‘noi’ di qualcuno. L’individualismo ha ribaltato tutto e
l’identificazione dell’uomo e della donna con l’individuo è una ferita mortale
per l’umanità.
Noi abbiamo un’individualità, non siamo individui. E per questo la parola che io dono come gemma è tre. Tre è la struttura fondamentale della realtà. Non è né uno né due, la realtà è uno e tre. La realtà della persona, la realtà della natura, la realtà di Dio è tre, cioè relazione radicale. Un papà e una mamma si danno già per un figlio, che ci sia o non ci sia biologicamente.
L’immaginario
di un uomo e di una donna è quello di un figlio. L’uomo senza il cosmo e senza Dio non esiste. Oppure, antropologicamente, noi siamo
intelletto, sentimento e spirito.
Torna il
tre.
Questa è la tradizione cristiana e noi la stiamo completamente dimenticando. Viviamo in un tempo gnostico-manicheo, un tempo binario. Gli algoritmi, che hanno questa straordinaria potenza, sono binari. Sono 0 e 1.
La grande sfida per il cristiano è stare dentro questo mondo gnostico-manicheo, che è binario, che è bene e male, che è buono e cattivo, che è bianco e nero. E la nostra scelta deve sempre essere «o … o…». Scommettere sul tre è l’opposto, vuol dire «e… e…».
La Trinità è un «e…e…», la tensione tra il Padre e il Figlio genera lo Spirito. È ciò che poi chiamiamo amore. La tensione tra un uomo e una donna genera un figlio.
Nella Genesi la tensione tra Dio e il cosmo genera l’uomo: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente».
Questa
grandissima tradizione cristiana oggi è muta e oggi siamo finiti a immaginare
che noi siamo il nostro io. No! Un uomo
non è il suo io.
Se fosse così non starebbe in piedi la Resurrezione, ad esempio. Chiediamocelo: ma noi forse resusciteremo con il corpo di quando avevamo 2 anni o 16 o 40? Quello che resuscita è il mistero di te.
Ciascuno è
un mistero relazionale.
Infatti nel
Vangelo nessuno riconosce Gesù ‘fisicamente’ dopo la Resurrezione.
I quadri del Rinascimento ci hanno ingannato rappresentando il Gesù Risorto simile al Gesù Crocifisso, questo ha cambiato il nostro immaginario. Nel Vangelo non accade così: la Maddalena non lo riconosce, Pietro non lo riconosce e neanche Giovanni.
Gesù Risorto
viene riconosciuto solo nel momento relazionale, quando parla.
Non lo
riconoscono in quanto individuo, ma in quanto persona. Gesù era radicalmente il
tu dell’altro, e questa esperienza la si fa attraverso la parola, cioè
attraverso l’amore.
Quando Gesù si manifesta come tu, lo riconoscono. Non sto parlando in astratto, questo discorso è «concreto», parola che è l’analogia di cattolico. In senso etimologico «concreto» è cum-crescere, far crescere insieme le cose.
Le
dimensioni della realtà crescono insieme, in relazione.
La preghiera e il discernimento sono ciò che ci aiuta a sfuggire alla trappola della logica binaria. Possiamo anche definirla “esperienza radicale della propria fragilità”, questo è il discernimento quotidiano ed è ciò che fa dire a San Paolo: Quando sono debole è allora che sono forte. (2 Cor, 12,10). Fuori da una dinamica relazionale queste parole non hanno senso. Sono da matti, come anche felix culpa.
Cosa
significano allora? San Paolo dice che è
esattamente il limite dell’io (debole) che dà la possibilità di accedere alla
libertà del tu (forte).
Noi siamo il
tu di Dio, questo è il punto di forza.
Anche Dante
è uno che ha fatto questa esperienza spirituale e poi gli ha dato una forma
incastonata nel tre: ha scritto tre cantiche, ciascuna composta di canti in
terzine.
La tensione amorosa con Beatrice non era binaria, era un «e…e..». È l’essere capaci di stare dentro una relazione senza consumarla. Dovremmo impararlo anche nel matrimonio, a non ridurre tutto a un «o…o…». C’è l’idea che il matrimonio sia l’incontro di due io, ma è una svista clamorosa perché due io si uccidono a vicenda.
Le tre tentazioni che Gesù vive nel deserto mettono alla prova proprio questo aspetto radicale. Sono le tentazioni fondamentali del figlio.
Il male non è da superare come prova di resistenza o di forza, ma proprio come tentazione che cerca di riportarti solo e soltanto al tuo io. Lo scopo del male è mettere in discussione la figliolanza con Dio, che è relazione. Il male tenta di riportati solo e soltanto al tuo io.
Noi siamo un
tu e siamo la libertà di essere il tu di Dio, il tu dei nostri fratelli, il tu
di tua moglie, il tu dei tuoi figli, il tu degli amici e anche il tu del
nemico.
Gesù è stato anche il tu del nemico. Vivere così è un pellegrinaggio spirituale bellissimo. Nel mondo binario, gnostico e manicheo, questo non è previsto.
Anche
rispetto a questo, insisto sul fatto che questa scommessa non è astratta, ma
esperienziale.
Io vivo in
una piccola comunità di famiglie da 35 anni e non abbiamo chiavi in casa.
Non è una
scelta ideologica e neppure para-religiosa. L’idea è che l’altro ti possa raggiungere in
qualsiasi momento, perché l’altro ti salva. È l’ospitalità.
L’ospite
Pensiamo a
quello che accade nella Bibbia, Sara resta incinta quando Abramo ospita. Quando usciamo da noi stessi, ci salviamo. E non è un atto moralistico, è un atto di
vita.
Se non ti
apri all’altro, diventi rigido e immagini di essere l’artefice di te stesso.
L’ospite è il portatore dell’invisibile. Per il cristiano l’invisibile è addirittura più reale del visibile. Oggi nessuno ci crede più, perché ci limitiamo ad assorbire lo sguardo scientifico che osserva solo il visibile e ne dà informazioni basate su quantità e proporzioni. L’ospite invece porta l’imprevisto, l’impossibile, il non controllabile, la novità.
Siamo in
relazione con questo mistero al punto che nella lingua italiana “ospite” si
riferisce sia a chi ospita sia a chi è ospitato. E qui ritorno alla persona che non è solo
io-tu-egli, la nostra persona è anche noi-voi-essi.
Noi siamo una relazione radicale di pronomi, cioè di qualcosa che costituisce il nostro nome. La nostra libertà non è la libertà di scegliere, questo è un altro imbroglio del periodo post cartesiano. La libertà è essere ciò che si è chiamati a essere, è vocazione, è sentire che stai aiutando a venire al mondo il mistero di te. Libertà è mettersi nella condizione affinché Dio possa metterti al mondo.
È
bellissimo!
Vivere, quindi, è nascere continuamente e quindi anche morire continuamente, cioè lasciar andare. Nella nostra tradizione il percorso esistenziale di tutte le preghiere è quella del pellegrinaggio.
Attorno abbiamo un sistema di pensiero che ci spinge alla consistenza, mentre invece la vita è esistenza, è un pellegrinaggio. C’illudiamo di consistere, e abbiamo rimosso il pensiero della morte. In questo senso la pandemia è un’apocalisse, cioè può essere una rivelazione. Dalle mie parti a Bergamo abbiamo visto migliaia di morti, non abbiamo potuto eludere l’incontro con sorella morte. Noi crediamo che la morte vada combattuta, non è vero. Va combattuta la sofferenza, la miseria. Ma la morte è una compagnia, perché non c’è altra via per resuscitare.
Noi siamo vita, morte, resurrezione, eccoci di nuovo alla sfida cristiana del tre.
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