e i problemi di una infanzia iperconnessa
Su L’Osservatore Romano il sociologo Alberto Pellai
analizza il fenomeno globale della serie televisiva targata Netflix: c’è una
generazione di giovanissimi troppo esposta di fronte a un mercato aggressivo.
Chi si deve occupare di tutelarli?
di Alberto Pellai
In queste settimane chi si occupa di infanzia e
adolescenza ha sentito parlare e ha parlato di Squid Game: vera emergenza
educativa o il solito polverone sollevato da adulti spaventati che non sanno
come adeguarsi “a un mondo che cambia”? Spesso la questione è stata affrontata
proprio in questi termini: tutto o niente. Personalmente, dopo aver scritto
sulla mia pagina Facebook un post dove riferivo che molti insegnanti della
primaria erano preoccupati del fatto che numerosi loro alunni erano diventati
spettatori della serie e poi inscenavano nei loro giochi situazioni viste (post
che ha raggiunto a oggi quasi cinque milioni di persone) ho ricevuto migliaia
di commenti. Molti mi hanno scritto invocando la qualità della serie tv a
giustificazione del suo successo: siccome è molto valida e ben scritta e di
alto pregio artistico, il problema non esiste. Se i genitori non controllano i
figli, il problema non è della serie tv ma della famiglia che non fa il suo
dovere. Ma se andate a leggere quello che dicono i genitori, scoprirete che il
problema è enorme e molto più vasto.
I genitori si sentono impotenti di fronte a
“corazzate” mediatiche che entrano massicciamente nelle vite dei più piccoli
senza che nessuno l’abbia voluto o desiderato. Questi fenomeni mediatici
acquisiscono una popolarità così enorme e così veloce da diventare, inevitabilmente,
parte della vita di tutti, anche dei più piccoli. Il problema è che in una
società dove tutto è fluido e immediatamente fruibile ed accessibile con tre
click, i bambini sono proprio i più esposti. Perché a loro, quei tre click,
danno l’illusione di essere capaci di fare un salto in avanti nella vita e
nella crescita (che bello poter avere a disposizione cose da grandi quando sei
piccolo!) e inoltre gli fanno sperimentare un’immediata sensazione di
inclusione con il gruppo allargato (tutti ne parlano e lo conoscono, quindi
anch’io devo essere in grado di entrare in contatto con “l’esperienza del
momento”). È in questo modo che la socializzazione dei più piccoli si
sottomette a riti di influenzamento collettivo, in cui il marketing che crea
fenomeni mondiali di popolarità istantanea e velocissima, “aggancia” prima di
tutti proprio i più vulnerabili in questo senso: ovvero i bambini e i minori
più in generale.
C’è bisogno di fare una profonda analisi di ciò che
sta accadendo all’infanzia proprio in funzione del fatto che l’abbiamo resa
iperconnessa e le abbiamo messo in mano strumenti che con tre click permettono
di fare e vedere tutto. L’unica competenza reale che abbiamo noi genitori è
rallentare tutto questo, ritardando il più possibile l’accesso a questo genere
di esperienze. E qui ritorna il concetto, approfonditamente espresso nel libro
Vietato ai minori di 14 anni (De Agostini) che ho scritto con Barbara Tamborini
e che mai come in questi giorni ci sembra necessario aver scritto: forse è
davvero arrivato il tempo per noi adulti di comprendere che il divieto può
essere una via “educativa” e che la responsabilità di vietare certe cose alla
fine rimane solo nelle nostre mani e dipende da noi. Anche se sarebbe meglio
trovare collaborazione anche da parte dello Stato e di un sistema nazionale (o
internazionale) di garanzia in grado di allearsi con i bisogni educativi dei
nostri figli.
Oggi più che mai c’è bisogno di ciascuno di una presa
di posizione di noi genitori, di noi docenti, di noi adulti se vogliamo proteggere
i nostri figli da tutto ciò che il “mercato” fa entrare nelle loro vite,
incurante dei danni e degli effetti indesiderati che ne potrebbero
derivare. Dobbiamo diventare protagonisti di una “alleanza” che ci
permetta di creare una vera e propria comunità educante. È ora di sviluppare
una mente adulta comune, che permette di vedere con occhi lucidi e competenti
ciò che fa bene e ciò che fa male a chi cresce. È solo in questo modo che si
costruisce un vero villaggio in grado di far crescere un bambino. Sapere che la
serie tv Squid Game è ufficialmente vietata ai minori di 14 anni e ciò
nonostante una miriade di bambini e bambine la stanno guardando è il segno
evidente che questo “villaggio” non esiste. E lo dimostra il fatto che bambini
sempre più piccoli — ovvero i nostri figli — si trovano immersi sempre più
negli schermi, che nella vita reale, incontrando la morte di Squid game senza
magari aver mai sentito nominare né Geppetto, né il Gatto e la Volpe.
Guardiamoci in faccia, noi genitori: smettiamola di essere maldestri
Geppetti i cui figli vengono risucchiati nella pancia della balena da
Lucignoli, Gatti e Volpi che hanno invaso il villaggio dove loro crescono.
Forse, siamo noi adulti, per primi, a non sapere più distinguere chi parla con
la saggezza del Grillo Parlante e chi invece lo fa seguendo il copione del
Gatto e la Volpe. Leggiamo, approfondiamo, parliamo, dialoghiamo, condividiamo
pensieri e accendiamo riflessioni. Chi si deve occupare di “vietare ai minori
di 14 anni” una serie di esperienze inadatte ai bambini? Da dove
dobbiamo/possiamo cominciare noi genitori? Il dibattito è aperto e deve
continuare.
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