Senza barbari
che
sarà di noi?
Secondo il latinista Dionigi, la capacità di
includere popoli e culture fu la vera forza della civiltà romana
di IVANO DIONIGI*
Siamo testimoni di un cambiamento d’epoca che ci consegna un
mondo ametrico, senza misura, nel quale non trovano più casa le nostre identità
consolidate e rassicuranti. Oltre alla ormai conclamata rivoluzione
tecnologica, che ci prospetta un uomo competitivo con la macchina, combinato
con la macchina, aumentato dalla macchina e minacciato dalla macchina,
assistiamo a un’altra rivoluzione: quella sociale dell’immigrazione, che
decreta l’eclissi della centralità dell’Europa e del primato dell’Occidente,
quasi a ricondurci umilmente alle ragioni della sua etimologia di 'mondo
destinato al tramonto'.
Questa rivoluzione ha il volto e il nome dei nuovi popoli che
fuggono da guerra, fame, persecuzione e chiedono giustizia. Impauriti e
smarriti, come davanti a un bivio senza segnaletica, ci chiediamo quale strada
prendere, quale insegnamento seguire, quale maestro adottare.
Un’indicazione, anzi una vera e propria lezione illuminante, ci
viene dalla Roma classica e segnatamente da una circostanza raccontata da
Tacito (Annali 11, 24, 1-4). È l’anno 48 d. C.: ai senatori che, in una sorta
di grido 'prima i Romani', pretendono che i seggi vacanti vengano riservati a- gli
indigeni e ai residenti e non ai transalpini, l’imperatore Claudio ricorda che,
secondo l’esempio degli antenati, «a Roma va trasferito quanto vi è di
eccellente altrove », che in passato furono chiamati a far parte del Senato
cittadini provenienti da tutte le province, e che Spartani e Ateniesi
rovinarono perché «respinsero i vinti come stranieri (alienigeni)». Per Claudio
bisognava, piuttosto, prendere esempio dal padre Romolo che «ebbe tanta saggezza
da trasformare i nemici (hostes) in cittadini (cives)». Quello stesso Romolo
che, come racconta Livio (1, 8 sg.), non solo costruisce mura più grandi del
necessario «in previsione di una popolazione futura numerosa» ( in spem
futurae multitudinis), ma offre anche un asilo ( asylum), vale
dire un luogo 'inviolabile', alle popolazioni vicine, senza distinzione fra
liberi e schiavi ( sine discrimine liber an servus esset). Anche
la leggenda del ratto delle Sabine rispondeva all’intento di mescolare sangue e
stirpe ( sanguinem et genus miscere).
Nel segno di questa eterogeneità va anche il racconto dei sette
re, in una alternanza etnica fra Romani, Sabini, Etruschi. Si comprende, da
questi antefatti, come la storia di Roma andrà letta come un inarrestabile
processo di inclusione, che parte dall’asilo di Romolo e arriva alla
Constitutio Antoniniana, l’editto del 212 d. C. con cui l’imperatore Caracalla
estende la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero. I Romani
volevano essere più numerosi per essere più potenti. Opposta, e per questo
fallimentare, la politica dei Greci, i quali hanno alzato un muro tra chi è
dentro e chi è fuori: «Il barbaro deve obbedire al greco, perché loro sono
schiavi e noi siamo uomini liberi», dichiara l’Ifigenia di Euripide.
All’inclusione
politica, si aggiunge quella culturale: celeberrimo il motto oraziano secondo
il quale Roma ha conquistato la Grecia con le armi, ma la Grecia ha conquistato
Roma con le arti (Epistole 2, 1, 56 Graecia capta ferum victorem
cepit). E all’inclusione culturale, si aggiunge quella religiosa:
dotati di una vera e propria virtus religiosa, come riconosce
Minucio Felice (Ottavio 6, 2 sg.), uno dei primi scrittori cristiani (IIIII
sec. d. C.), i conquistatori romani «cercano gli dèi stranieri e li fanno
propri» ( deos quaerunt et suos faciunt), configurando un
Pantheon meticcio e multietnico. Roma ci ha educati alla cultura dell’et et, non
dell’aut aut. Per questo, con Rémi Brague, è da ritenere che
più che la tradizione ellenica o ebraica sia la Romanità - intesa come
attitudine a ricevere, trasmettere e assimilare - il modello di quell’arcipelago
culturale che si chiama Europa.
A nobilitare questa molteplice virtus romana, politica,
culturale e religiosa, sarà il messaggio universalistico e umanitario di
Seneca, il quale - oltre a constatare (
La consolazione alla madre Elvia 6, 4 sgg.) che nelle città e nei luoghi
più dispersi e disparati «ci sono più forestieri ( peregrini) che
indigeni ( cives) » e che «tutto risulta da mescolanza e
innesti» ( permixta omnia et insiticia sunt) - enuncia ( Lettera
95, 51 sgg.) un triplice comandamento di sorprendente consonanza
evangelica: «porgere la mano al naufrago» ( naufrago manum porrigere), «indicare
la via a chi è smarrito» ( erranti viam monstrare), «dividere
il pane con l’affamato» ( cum esuriente panem dividere).
È, questo, il messaggio di un pagano che dovrebbe fare
riflettere e arrossire i tantissimi cattolici avversi agli immigrati. Lo stesso
Seneca ricorderà che l’auctor dell’Impero, Enea, è un esule ( exul) e
un profugo ( profugus) venuto dal mare.
Roma,
dunque, modello di politica umanitaria? Certamente no. Sappiamo bene che
accanto all’utopia della 'città eterna' c’era la storia con la maledizione
della guerra e la ferocia delle legioni; che antecedente e parallela a quella
cristiana c’era «una resistenza spirituale contro Roma » (Harold Fuchs) da
parte dei vinti che non accettavano soprusi e violenze; che l’imperium e la pax, profetizzati
da Anchise ad Enea, per i popoli sottomessi erano propaganda politica e
addirittura mistificazione linguistica («I Romani il depredare, il massacrare,
il rapinare con falsi nomi li chiamano impero, e là dove fanno il deserto lo
chiamano pace», farà dire Tacito nell’Agricola a un oppositore): al punto che
Simone Weil individuerà proprio nella Roma imperiale le radici dell’hitlerismo.
Non modello di humanitas o di pietas, ma
di realpolitik e di un grande disegno politico: Roma è stata
la più potente ed è durata a lungo perché non ha alzato muri tra sé e gli
altri, perché ha tenuto dentro lo straniero e 'il barbaro'. A noi la
rivoluzione cristiana e la rivoluzione illuministica hanno consegnato il grande
messaggio di essere fratelli: più forte che essere consanguinei, più
impegnativo che essere cittadini, più nobile che essere uomini. Se non
riusciamo ad apprendere questa lezione, ascoltiamo almeno quella di Roma: là
dove non arrivano virtù e convinzione, giustizia e humanitas, dovrebbero
supplire e soccorrerci il calcolo e la lungimiranza della politica, il realismo
e la convenienza, vale a dire la consapevolezza che loro, 'i barbari', possono
essere la soluzione dei nostri problemi, la via della nostra sopravvivenza, la
direzione del nostro destino.
Lo aveva ben intuito Costantino Kavafis: «Che aspettiamo, raccolti nella piazza? / Oggi arrivano i barbari. / … /
Perché d’un tratto questo smarrimento / ansioso? (I volti come si son fatti
serî!) / Perché rapidamente e strade e piazze / si svuotano, e ritornano tutti
a casa perplessi? / S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. / Taluni
sono giunti dai confini, / han detto che di barbari non ce ne sono più. / E
adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? / Era una soluzione, quella gente»
( Aspettando i barbari).
Sintesi della relazione tenuta al Convegno "Pordenonelegge"
*Ivano Dionigi, latinista, presidente di Alma Laurea e della Pontificia
Accademia di Latinità, già Rettore dell’Università di Bologna
Da AVVENIRE – www.avvenire.it
Ivano
Dionigi, OSA SAPERE, CONTRO LA PAURA E L’IGNORANZA,
ed. Solferino, pag. 90, € 7,90
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