- di Gianluca Zappa
Lo ricordo come fosse
ieri. Erano gli ultimi anni del secolo scorso ed io ero un docente da poco
entrato in ruolo. Una studentessa di primo anno mi fece una confidenza: “Lo sa
professore? Il mio ragazzo è così geloso, che non mi lascia portare fuori il cane
di sera”. “Lascialo – fu la mia risposta immediata – tanto questa relazione non
dura!”. La ragazza reagì con un: “Professore, che me la tira?”, che si potrebbe
tradurre: “Mi vuole male?”. Quattro anni dopo, più o meno, la stessa ragazza
venne a confidarmi che quella relazione era finita. Come previsto. Ma erano
altri tempi: nel secolo scorso non si rischiava ancora la vita. I dati dicono
che i femminicidi in Italia sono numericamente cresciuti da dieci anni a questa
parte. Ma non è questo il punto che mi interessa. È la reazione di quella
ragazza, che viveva da schiava, magari anche soffrendo, ma non aveva maturato
una coscienza tale da rischiare di cambiare quella condizione per una vita più
libera e autonoma.
Oggi le ragazze che in
classe mi informano su come vanno le cose nei rapporti tra i giovani, mi fanno
capire che la situazione non è cambiata, anzi è divenuta più paradossale. “Se è
geloso vuol dire che ci tiene a me!”, questa è la motivazione per cui una
ragazza apprezza e quindi continua a vivere un rapporto che andrebbe chiuso il
prima possibile. Ma non basta: ancor più stupefacente è il fenomeno per cui una
ragazza definisce un ragazzo “il suo malessere”, che è una visione romantica di
un rapporto sballato. Lui, il mio “malessere”, può prendermi e poi lasciarmi e
poi rivenirmi a cercare e poi possedermi di nuovo e poi abbandonarmi. E questo
è bello e romantico! Informatevi: la pensano proprio così! Poi ci sono quelle
che, per dimostrare la propria fedeltà assoluta al proprio “malessere”, si
sottopongono al controllo del loro cellulare, quel dispositivo custodito
gelosamente con password e schermate di blocco perché non venga controllato dai
genitori. Dai genitori no, dal proprio “malessere” sì. Vi sono ragazzi che
definiscono la ragazza come la propria “bitch”, così, davanti a tutti, senza
che la “bitch” reagisca con una scenata, chiedendo rispetto, il rispetto che si
deve a una persona.
Scusate, sarà poco
politically correct, ma a me sembra che oltre al “vergognarsi di essere uomo”
bisognerebbe cominciare a mettere a tema il “vergognarsi di essere donna”.
Vergognarsi, sì, di essere un femminicida, un violento, uno che definisce
“bitch” la propria ragazza, un bullo che fa il forte e lo spavaldo e poi se lei
lo lascia o palesa una propria volontà di autonomia, va in crisi e si mette a
piangere e minaccia di suicidarsi. Ma vergognarsi anche di essere una che si
lascia fare tutto, che vive attaccata ad un sogno romantico che in realtà è un
vero incubo, che si lascia definire in modo offensivo senza un briciolo di
dignità, di amor proprio, di autostima. Il femminicidio si verifica dentro una
coppia. Bisogna lavorare sulla coppia.
La società piange lacrime
di coccodrillo sulle proprie vittime. Cosa abbiamo insegnato ai giovani? Nelle
scuole non si è parlato altro che di contraccezione. Era importante diffondere
il più possibile lo slogan: “Fatelo come e con chi vi pare, ma fatelo sicuro!”.
Bisognava invece riflettere sul “fatelo!”, sul quando e perché, sul senso
profondo di un atto che riguarda il corpo e lo spirito, la dimensione fisica e
quella interiore allo stesso tempo. Sarebbe stato un opportuno invito a sapersi
conoscere ed autogestirsi, ma soprattutto a conoscere l’altro e a rispettarlo,
a prendere il rapporto amoroso per quello che è: una cosa seria, grande, un
lavoro su di sé insieme ad un altro, non lo sfruttamento reciproco di due
solitudini. Ma una certa ideologia ha combattuto questo livello profondo di
riflessione, lo ha deriso, lo ha considerato sorpassato e ha semplificato e
rovinato tutto. Risultato? Un deserto per i ragazzi, senza più punti di
riferimento, senza guide, senza responsabilità, con una libertà impazzita sulle
mani, come inesperti che non hanno la patente, alla guida di una macchina di
Formula Uno.
La famiglia sul banco
degli imputati… Ma per favore! Ma chi ci crede più? Certi ragionamenti fanno
arrossire quando vengono fatti da adulti, tanto sono lontani dalla realtà! La
famiglia molto spesso non c’è proprio più, per vari motivi, e nel frattempo un’altra
“famiglia”, ben più invasiva di quella del passato, si è imposta. Un tempo
c’era il gruppo dei pari, quelli del muretto, il giro di amici. Gruppetti
ristretti e facilmente identificabili. Oggi la famiglia vive sui social, ed è
immensa, permeante, ti prende il cervello e l’anima, ti modifica, ti seduce, ti
impone atteggiamenti e convinzioni assurde (come credete che si propaghino mode
come quella del “malessere”?).
I social riempiono gli
spazi, il tempo libero dei nostri giovani e noi, poveri illusi o ciechi,
conosciamo solo la punta dell’iceberg.
La musica che i nostri giovani ascoltano, le canzoni di cui imparano a
memoria i testi, che cantano, che ballano, non la conosce nessuno. Che robaccia
quella trap, diciamo. Ma se la prendessimo un attimo in considerazione, se
leggessimo certi testi, non potremmo che commentare: “Questa è roba da
bestie!”. Bene, questa roba bestiale è la compagna normale dei ragazzi, quella che
si sparano in cuffia di continuo.
Un esempio voglio farlo.
C’è una canzone, Doc 3, che è stata un hit, a noi sconosciuto, neanche un anno
fa. Ha ottenuto più di 130 milioni di visualizzazioni (!). Fate un sondaggio
nel vostro piccolo e vedrete. La conoscono quasi tutti. Vi invito alla lettura
integrale del testo. Io vi citerò solo alcune perle (evitando i passi più
esplicitamente pornografici): “Non ce l’ho una tipa (Chiaro), fo-fotto un
po’ con chi mi pare/ Ma soltanto un bitch per il Doc è molto limitante/ Si sa,
sono un militante, del sesso libero sempre (Ah)/ Baby se sei dilettante, sappi
che non è un problema/ Saprò esser delicato massaggiando gambe e schiena […]/
Baby vieni dal Doc/ Se ti annoi in quel locale/ Hai tanta voglia di
giocare/ Un vestitino da strappare/ (Stase’) vieni dal Doc…”.
Sono venuto a conoscenza
di questa robaccia quando ho scoperto che la conoscevano dei ragazzini di
seconda media (!) e la cantavano non solo i maschietti, ma anche le femminucce
(!). Ecco allora perché un ragazzetto chiama “bitch” la propria ragazza e perché
questa lascia fare e accetta il suo “malessere”, accetta quel ruolo di “bitch”!
A questo punto la domanda
è: ci sarà un cambiamento grazie all’educazione sessuale nelle scuole? O alle
lezioni sulla Costituzione? O a quelle storiche sul femminismo e sul cammino di
emancipazione della donna? O, per restare all’attualità, sulla storia del
patriarcato? Ci credete davvero a queste cose che parlano unicamente al
cervello? Molti ci credono convinti e dimostrano che c’è in giro un livello di
astrazione nel mondo adulto da far paura. Chi ci salverà?
Occorre ripartire dalle
fondamenta. Dalla conoscenza del proprio essere, del proprio “funzionamento”,
dall’interesse per il proprio io. Occorre ripartire dal valore dell’altro, come
occasione di conoscenza di sé. Occorre riprendere sul serio tutto quello che si
è obliterato e prendere una posizione decisa nei confronti di chi propaga un
disumanesimo di cui è pieno la cultura pervasiva e malata che i nostri ragazzi
respirano e assorbono.
L’ideale sarebbe che
divenisse affascinante e coinvolgente e compagno di cammino un modello di
vivere non solo l’amore, ma tutta la vita, in modo più alto e diverso. Che
insegni che amore è dono, rispetto, limite, sacrificio, lavoro su di sé per
l’altro e con l’altro. Sarebbe già qualcosa se il mondo adulto imparasse a
guardare davvero la realtà, smettendola con le semplificazioni che buttano
tutto in caciara, e si facesse un bell’esame di coscienza, andando in cerca,
nel grande deserto, di punti di luce che pure ci sono, anche se non
adeguatamente valorizzati dai media e dal mainstream.
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