le domande
Il 25 novembre si celebra la
giornata contro la violenza sulle donne. Già il fatto che si stato necessario
istituire una simile ricorrenza dimostra che il problema è grave. Mentre, nel
corso degli ultimi anni, diminuisce progressivamente il numero complessivo di
omicidi commessi nel nostro Paese, lo stesso non avviene per quelli che hanno
come vittima le donne: 133 nel 2018, 111 nel 2019, 112 nel 2020, già 100 alla
fine dell’ottobre di questo 2021 (contro 93 alla stessa data nel 2020). E molti
di questi fatti di sangue hanno come protagonisti i mariti o partner delle
vittime.
L’ultimo caso, agghiacciante, a Sassuolo, dove un uomo ha ucciso la
compagna, Elisa Mulas, con la madre e due figlioletti, dopo che la storia della
coppia era ormai finita da qualche mese. Da allora l’uomo minacciava la donna e
proprio qualche giorno fa Elisa lo aveva denunciato. Purtroppo vanamente. Dopo
la strage l’omicida si è, a sua volta, tolto la vita.
Quello dei femminicidi è uno dei pochi fenomeni su cui l’opinione pubblica
del nostro Paese si trova a convergere in una unanime condanna. Non sempre, però,
a questa compattezza nel denunciarne la gravità si accompagna uno sforzo
adeguato per comprenderne le ragioni. Ci si ferma, per lo più,
all’indignazione, alle denunce generiche, ai buoni propositi, col serio rischio
di cadere in una sterile retorica. Forse non guasterebbe un pizzico in più di
riflessione, che porterebbe inevitabilmente a porsi qualche domanda.
Un paradosso: uguaglianza e violenza
Perché certo è paradossale che la violenza contro le donne sia cresciuta
proprio in una fase storica in cui finalmente è stata loro riconosciuta (almeno
in linea di principio: la pratica è un’altra cosa) la parità in moltissimi
settori della vita sociale. Come mai in questo tempo, che vede riconosciuta
(ripeto: almeno formalmente) l’uguaglianza tra di due sessi, quello che più ha
fruito di questo riconoscimento (finalmente!) si trova ad essere oggetto di
violenza?
Un tentativo di risposta potrebbe venire dalle analisi di uno dei maggiori
studiosi contemporanei dell’origine e del significato della violenza, il noto
antropologo René Girard, il quale, nelle sue opere, ha sostenuto che la
violenza non nasce malgrado l’uguaglianza, ma proprio a causa di essa.
Per Girard la reciproca aggressività tra gli esseri umani si scatena per un
gioco mimetico, per un istinto di imitazione che spinge ciascuno a desiderare
ciò che gli altri desiderano. La violenza, nella sua forma selvaggia,
incontrollata, nasce dalla perdita delle differenze che dovrebbero,
distinguendoli, orientare i soggetti verso obiettivi diversi e consentire loro
di rapportarsi armoniosamente.
«Non sono le differenze», nota lo studioso, «ma la loro perdita a provocare
la rivalità pazza, la lotta a oltranza tra gli uomini di una stessa famiglia o
di una stessa società». Sono gli uguali a cozzare l’uno contro l’altro:
«Due desideri che convergono sullo stesso oggetto si fanno scambievolmente
ostacolo.
Qualsiasi mimesis che verta sul desiderio va automaticamente a sfociare nel
conflitto». Per Girard emblematico di questa violenza mimetica è il caso del
fratricidio: Caino e Abele, Romolo e Remo…
In questo scontro, i contendenti non si caratterizzano più per la loro
identità, ma proprio perché la perdita di essa li mette tragicamente in
condizione di non potersi più differenziare: «La crisi getta gli uomini in un
perpetuo affrontarsi che li priva di ogni carattere distintivo, di ogni
‘identità’».
È la tragica esperienza della massificazione che, all’insegna delle mode
dominanti, appiattisce i singoli e li omologa. Girard evoca, a questo
proposito, «la metafora del diluvio che liquefà ogni cosa, trasformando in
poltiglia il mondo solido».
Vi è qualcosa di questa analisi che sembra appropriato al problema del
femminicidio. Anche in passato le donne venivano uccise, ma ciò che
caratterizza i femminicidi come fenomeno sociale contemporaneo è il fatto che
essi nascono spesso dalla giusta pretesa delle donne di godere degli stessi
diritti e della stessa libertà degli uomini. Di far valere, insomma, la loro
tanto proclamata uguaglianza. È questo che i loro partner non accettano,
reagendo con la violenza.
Una violenza che, infatti, a bene vedere, non nasce – come nelle uccisioni
di donne del passato – dalla prepotenza del maschio, ma dalla sua disperazione
nello scoprire la propria debolezza di fronte all’emergere della libertà di un
soggetto che non riesce più a controllare. Una disperazione che a volte sfocia,
come nel caso dell’assassino di Elisa Mulas, nel suicidio.
Autorealizzazione e omologazione
Non c’è dunque soluzione a questa inquietante corrispondenza tra crescita
nell’uguaglianza e violenza sulle donne? Prima di accettare una simile
conclusione sarebbe il caso di chiedersi se davvero l’uguaglianza debba
tradursi – come nella interpretazione datane da Girard – in una perdita delle
differenze.
È possibile una uguaglianza che non sia omologazione, che si realizzi cioè
non malgrado le diversità, ma proprio attraverso di esse? Forse sì, ma a
patto di superare alcuni luoghi comuni che oggi contribuiscono a questo
appiattimento e, d conseguenza, danno luogo alla conflittualità selvaggia tra
gli individui.
Uno è sicuramente quello per cui, nella crisi generale dei valori e dei
fini tradizionali, la sola molla delle nostre scelte è rimasta la ricerca
dell’autorealizzazione. Se oggi si chiede a un giovane perché vuole fare
una professione, per esempio quella del medico, nella stragrande maggioranza
dei casi la risposta sarà che vuole realizzarsi.
E in questo, sicuramente, vi è qualcosa di valido, che l’idea di missione,
dominante nel passato, rischiava di lascare in ombra. Ma vi è anche la caduta
in un eccesso opposto, che nasconde, a sua volta, un aspetto decisivo.
Perché la medicina non è nata affinché i medici si realizzino, ma per
curare i malati. Come del resto qualunque altra professione, essa implica che
la realizzazione dichi la pratica sia la conseguenza del perseguimento del fine
proprio di quello specifico lavoro. La missione non è tutto, ma non può essere
liquidata, come oggi avviene.
Qualcosa del genere vale per il rapporto di coppia. Se due persone si
sposano o intraprendono una convivenza stabile solo perché ognuno dei due cerca
in questo di realizzarsi, e non per costituire una famiglia – qualcosa di più,
insomma, della somma dei rispettivi interessi – il risultato inevitabile sarà
la precarietà di una relazione che durerà solo finché uno dei due non avrà
l’impressione che si può realizzare meglio con una persona diversa dal suo
attuale partner.
Lo slogan «stiamo insieme finché stiamo bene insieme» implica che non ci
sia – che non sia mai nata – una comunità vera, a cui sacrificare qualcosa dei
propri interessi particolari. La crisi attuale di tanti matrimoni, come
l’instabilità di tante convivenze, è legata a questa premessa.
Nel mito dell’autorealizzazione, assolutizzata e resa indipendente dai suoi
contenuti concreti, vengono inghiottite, come in un buco nero, le differenze di
fini che distinguono la realizzazione di una persona da quella di un’altra. Se
tutti vogliono solo realizzarsi, non ci sono più capacità e compiti specifici
che caratterizzino la realizzazione di uno rispetto a quella dell’altro.
Questo vale anche per l’uomo e la donna. Alcune note studiose femministe
(Butler, Haraway) insistono sulla necessità per le donne di rinunziare alla
prospettiva della maternità. Naturalmente, in nome dell’autorealizzazione.
In questa lotta per la stessa cosa – la vuota realizzazione di sé – si
traduce efficacemente anche la logica della società neocapitalista, che
distingue le presone non per quello che sono, nella loro inconfondibile e
preziosa identità, ma per il loro maggiore o minore successo.
L’uguaglianza, come in «Squid game», sta nell’avere lo stesso punto di
partenza per questa corsa alla sopravvivenza, anche a costo della vita degli
altri.
In questo grande gioco gli uomini scoprono nelle donne delle concorrenti. E
sperimentano il capovolgimento dei ruoli, perché, adottando il loro stesso
stile, esse spesso sono in grado di raggiungere risultati migliori.
Abituato da sempre a un predominio di genere, che prescindeva dalle qualità
personali dei singoli e si fondava aprioristicamente sulla sua identità
biologica, il maschio si trova spiazzato dall’ascesa vertiginosa di donne
sempre più capaci di rimettere in discussione il suo primato sia nel campo
degli studi e del lavoro, che in quello della vita sessuale ed affettiva.
Questo spiega perché l’uguaglianza – “questa” uguaglianza, che annulla le
differenze perché sostituisce alle persone e ai loro desideri una corsa
selvaggia all’autorealizzazione – produca i femminicidi. Il maschio, sgomento e
infuriato, reagisce con la violenza. Verso l’altra e, alla fine, verso se
stesso.
Uomini e donne si possono salvare solo
insieme
Ci vogliono le leggi, ci vogliono sistemi più efficaci di tutela delle
donne, ma nessuna risposta giuridica o di pubblica sicurezza può sostituire
quella che dovrebbe essere rappresentata da una rivoluzione culturale, capace
di restituire all’autorealizzazione i suoi contenuti e, con essi le differenze
tra le persone.
Solo la ricoperta di un’uguaglianza nella diversità potrà garantire agli
uomini il recupero della loro identità maschile, in una logica che non sia
quella del potere e del dominio – come spesso è stato in passato – e, alle
donne, un’emancipazione che non le liberi solo da una mortificante
subordinazione, ma anche dai parametri culturali devianti mutuati proprio dal
mondo maschile.
Per salvare le donne dalla violenza bisogna aiutare gli uomini a ritrovare
se stessi in una prospettiva nuova, dove autorealizzazione e missione si
compenetrino. E per salvare gli uomini bisogna aiutare le donne a vivere la
loro giusta emancipazione a tutti i livelli – affettivo, professionale,
politico – puntando sulla loro identità, prima che sul successo.
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