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martedì 31 ottobre 2017

LA RICCHEZZA NON CONDIVISA NON SAZIA, MA DISTRUGGE

Riflessione biblica 

alla 48a Settimana Sociale 

dei Cattolici Italiani

“Ho osservato anche che ogni lavoro e ogni industria degli uomini non sono che invidia dell'uno verso l'altro. Anche questo è vanità, un correre dietro al vento. L’idiota incrocia le sue braccia e divora la sua carne. Meglio riempire un palmo di calma che due manciate di affanno e compagnia di vento” (Qohelet 4, 4-6). Qohelet continua la critica della sua società e alle sue vanità.
Vede ‘sotto il sole’ uomini che si affannano nella concorrenza, in una competizione che per Qohelet non è l’anima dello sviluppo ma solo il risultato dell’invidia sociale. Ha visto uomini superarsi in un gioco dove tutti perdono, ‘gare posizionali’ senza traguardo. Lo ha visto nel suo mondo, e noi lo vediamo ancora di più nel nostro. E quindi torna forte il suo giudizio: hebel, vanità, fumo, rincorsa sciocca di vento. Al lato opposto di questa frenesia, Qohelet vede chi rinuncia alla gara, incrociando le braccia nell’inattività.
Neanche questa è sapienza. È stolto almeno quanto la competizione invidiosa della prima scena. E poi ci indica una via saggia: lasciare libera una mano perché il suo palmo possa essere riempito dalla calma, dal riposo, dalla ‘consolazione’. Le due mani dell’uomo non devono essere impegnate nella stessa attività: se è stolto colui che le lascia entrambe inerti è altrettanto folle chi le occupa col solo lavoro frenetico.
Il frutto del lavoro e dell’industria può essere goduto solo se lasciamo uno spazio libero di non-lavoro, se un palmo è vuoto e può accogliere il frutto conquistato dall’altro. È folle chi non lavora mai, più folle chi lavora sempre. La nostra civiltà si è costruita attorno alla condanna dell’ozio, e ha dato vita ad una cultura della vita buona fondata sul lavoro, istituendo un legame fondamentale tra dignità umana, democrazia e lavoro. Le braccia inattive perché non si vuole o non si può lavorare nell’età del lavoro, non sono braccia generatrici di benessere né di gioia.
Nella corsa che la civiltà occidentale ha iniziato da alcuni decenni, però, ci siamo dimenticati la seconda follia-vanità del saggio Qohelet: la vita è fumo e fame di vento anche per il troppo lavoro. Il lavoro è buono solo nei suoi giusti ‘tempi’. In quella cultura antica era ancora molto viva l’esperienza dell’Egitto e di Babilonia, quando gli ebrei diventati schiavi lavoravano sempre, con entrambe le mani. Soltanto gli schiavi e coloro ridotti in schiavitù dall’invidia e dall’avidità si affannano sempre e solo per il lavoro.
È difficile dire se oggi soffre di più il disoccupato che incrocia innocente le braccia o il manager superpagato che trascorre il Natale in ufficio perché il lavoro poco alla volta gli ha mangiato, come tutti gli idoli, anima e amici. Sofferenze diverse, entrambi molto gravi, ma la seconda non la vediamo come follia e vanitas, e la incentiviamo. È il rapporto tra l’uno e il due che è al centro di questa capitolo di Qohelet: “E tornai a considerare quest'altra vanità sotto il sole. C’è chi è solo [è uno, non due], non ha nessuno, né figlio né fratello. C'è chi per arricchirsi depreda anche fratelli e parenti, e distrugge i legami familiari, parentali e amicali. Eppure senza fine si affatica, né il suo occhio è mai sazio di ricchezza: «Ma per chi è il mio penare, per chi mi privo di felicità?».
Fumo anche questo, misera sorte” (4,7-8). Siamo di fronte ad una pagina stupenda, un vero e proprio distillato di antropologia. Qohelet ci svela un rapporto profondo, radicale e tremendo tra solitudine e lavoro. Ci presenta un uomo solo, che lavora troppo, sempre (‘senza fine si affatica’), e la molta ricchezza che guadagna non lo sazia mai. Sta nella non sazietà la chiave di questo verso: la ricchezza che non può essere condivisa non sazia, non appaga il nostro cuore.

Alimenta soltanto la fame di vento, e produce il grande auto-inganno che la ricchezza in sé o l’aumento del patrimonio potranno domani saziare l’indigenza di oggi. E la giostra continua a girare, sempre più a vuoto. D’un tratto .......


domenica 29 ottobre 2017

RIPENSARE L'EUROPA . Il discorso di Papa Francesco alla COMECE

        “Qual è la nostra responsabilità in un tempo in cui il volto dell’Europa è sempre più connotato da una pluralità di culture e di religioni, mentre per molti il cristianesimo è percepito come un elemento del passato, lontano ed estraneo?”.
             Parte da questa domanda la riflessione del Papa proposta ai partecipanti al convegno organizzato dalla COMECE, i vescovi dei paesi dell’ Unione Europea, che si svolge in Vaticano.
Il Papa ha partecipato alla cerimonia di chiusura di due giorni di conferenza e laboratori di circa 350 partecipanti di 28 delegazioni. Politici e clero si sono incontrati per “ Ripensare l’ Europa”.
Francesco riparte da San Benedetto che  fa “appello alla natura comune di ogni essere umano, che, qualunque sia la sua condizione, brama certamente la vita e desidera giorni felici”.
Perché per “Benedetto non ci sono ruoli, ci sono persone. Non aggettivi ma sostantivi.  È proprio questo uno dei valori fondamentali che il cristianesimo ha portato: il senso della persona, costituita a immagine di Dio”.
                Ecco il contributo dei cristiani all’ Europa: persone e non cifre. E così il Papa sottolinea come “purtroppo, si nota come spesso qualunque dibattito si riduca facilmente ad una discussione di cifre”, invece, dice il Papa “riconoscere che l’altro è anzitutto una persona, significa valorizzare ciò che mi unisce a lui. L’essere persone ci lega agli altri, ci fa essere comunità. Dunque il secondo contributo che i cristiani possono apportare al futuro dell’Europa è la riscoperta del senso di appartenenza ad una comunità”.
              Perché la libertà non è solitudine e  “i cristiani riconoscono che la loro identità è innanzitutto relazionale” e “dinanzi all’altro, ciascuno scopre i suoi pregi e i difetti; i suoi punti di forza e le sue debolezze: in altre parole scopre il suo volto, comprende la sua identità”.
            Ecco allora il ruolo della famiglia, “come prima comunità”: “In essa, la diversità è esaltata e nello stesso tempo è ricompresa nell’unità. La famiglia è l’unione armonica delle differenze tra l’uomo e la donna, che è tanto più vera e profonda quanto più è generativa, capace di aprirsi alla vita e agli altri”.
         Per il Papa allora i mattoni dell’ Europa sono dialogo, inclusione, solidarietà, sviluppo e pace. Un luogo di dialogo come una grande agorà “cuore nevralgico della politica” luogo dove il ruolo della religione è “positivo e costruttivo”. E Purtroppo, dice il Papa “un certo pregiudizio laicista, ancora in auge, non è in grado di percepire il valore positivo per la società del ruolo pubblico e oggettivo della religione, preferendo relegarla ad una sfera meramente privata e sentimentale. Si instaura così pure il predominio di un certo pensiero unico, assai diffuso nei consessi internazionali, che vede nell’affermazione di un’identità religiosa un pericolo per sé e per la propria egemonia, finendo così per favorire un’artefatta contrapposizione fra il diritto alla libertà religiosa e altri diritti fondamentali".
             Un dialogo che si sostituisca alle urla delle rivendicazioni per evitare che trovano terreno fertile  “le formazioni estremiste e populiste che fanno della protesta il cuore del loro messaggio politico, senza tuttavia offrire l’alternativa di un costruttivo progetto politico”.  E il politico cristiano deve avere un’adeguata formazione, dice il Papa: “la politica non è “l’arte dell’improvvisazione””.
             Europa come comunità inclusiva che non significa appiattire o negare le differenze, e parla della questione migratorie per le quali ogni stato “deve tener conto tanto della necessità di avere un cuore aperto, quanto della possibilità di integrare pienamente coloro che giungono nel paese a livello sociale, economico e politico. Non si può pensare che il fenomeno migratorio sia un processo indiscriminato e senza regole, ma non si possono nemmeno ergere muri di indifferenza o di paura. Da parte loro, gli stessi migranti non devono tralasciare l’onere grave di conoscere, rispettare e anche assimilare la cultura e le tradizioni della nazione che li accoglie”.
             Ne deriva una necessaria solidarietà  un riscoprire “il senso di essere un’unica comunità che si sostiene e si aiuta – e non un insieme di piccoli gruppi d’interesse – perderebbe non solo una delle sfide più importanti della sua storia, ma anche una delle più grandi opportunità per il suo avvenire”.
           Ma per il Papa “L’Europa vive una sorta di deficit di memoria” e allora “Tornare ad essere comunità solidale significa riscoprire il valore del proprio passato, per arricchire il proprio presente e consegnare ai posteri un futuro di speranza”.
           C’è poi lo sviluppo, e ci sono esempi “eloquenti di imprenditori cristiani che hanno compreso come il successo delle loro iniziative dipendeva anzitutto dalla possibilità di offrire opportunità di impiego e condizioni degne di occupazione”. Ma oggi, ripete il Papa “sarebbe opportuno anche riscoprire la necessità di una concretezza del lavoro, soprattutto per i giovani”, ma ricorda anche che “molte professioni oggi ritenute di second’ordine sono fondamentali. Lo sono dal punto di vista sociale, ma soprattutto lo sono per la soddisfazione che i lavoratori ricevono dal poter essere utili per sé e per gli altri attraverso il loro impegno quotidiano”.
           Si arriva così alla pace, una pace promessa che esige creatività. “L’Unione Europea - dice il Papa - manterrà fede alla suo impegno di pace nella misura in cui non perderà la speranza e saprà rinnovarsi per rispondere alle necessità e alle attese dei propri cittadini”.

           Il Papa conclude la sua riflessione ritornando a San Benedetto “egli non si curò di occupare gli spazi di un mondo smarrito e confuso. Sorretto dalla fede, egli guardò oltre e da una piccola spelonca di Subiaco diede vita ad una movimento contagioso e inarrestabile che ridisegnò il volto dell’Europa”.
Angela Ambrosetti in ACISTAMPA


sabato 28 ottobre 2017

PRENDERSI CURA DELL'UMANO IN TUTTE LE SUE DIMENSIONI - La Settimana Sociale dei Cattolici


   
     “L’Italia è un Paese invecchiato, e invecchiato male”. E’ l’analisi del sociologo Mauro Magatti, segretario del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali, che nella terza giornata della Settimana sociale ha affermato che in materia di lavoro l’Italia “si trova di fronte a un bivio: o cadere ancora di più nella spirale dello sfruttamento e delle disuguaglianze che sono il risultato di una società digitalizzata che pretende di controllare le attività di , o di andare verso un nuovo modello di sviluppo che metta al centro la creatività umana”. 
       Per realizzare questo obiettivo, secondo Magatti, bisogna “navigare tra la Scilla di una società senza lavoro e la Cariddi di una società dove tutto è lavoro”. “Nel nuovo mare della tecnica, si ripropone la questione della terra”, la tesi del sociologo, secondo il quale in materia di lavoro “questo è il tempo della semina, dell’audacia, dell’impegno di chi sa crederci senza vedere ancora i frutti”. “Nulla contro il consumo, ma l’ordine dei fatti va invertito”, la proposta: “Prima bisogna produrre valore e poi consumare”; il che significa “lavorare tutti insieme per creare un valore comune, che metta insieme economia e società, materialità e spiritualità, immanenza o trascendenza”.​
      “Il lavoro deve tornare al centro del modello di sviluppo”, ha detto poi il sociologo rilanciando la proposta formulata in apertura dal card. Bassetti di “un grande patto per il lavoro”, che secondo Magatti deve essere “prima di tutto un patto intergenerazionale, se si vuole invertire il declino dell’Italia”. Oggi, infatti, “chi ha il patrimonio – i vecchi – non vuole investirlo perché vuole proteggersi, chi invece – i giovani – vuole investirlo non può farlo per il grande debito che è stato accumulato sulle loro spalle”. E’ urgente, quindi, “una nuova stagione qualitativa di sviluppo, che consenta alle nuove generazioni di creare le condizioni di possibilità di protezione degli anziani”. “Solo la qualità del lavoro fa anche la quantità del lavoro”; ha affermato Magatti a proposito del pilastro del “lavoro degno”: “l’indicazione della direzione non basta, perché i giovani ce la facciano bisogna fare uno sforzo straordinario per trasformare in un’occasione l’allungamento della vita media”. 
     Per far tornare il lavoro al centro del modello di sviluppo, secondo Magatti occorre “Prendersi cura  dell’umano in tutte le sue dimensioni”, partendo dalla consapevolezza che “una formazione integrale non è mai solo un affare privato”; “creare un ecosistema favorevole a chi il lavoro lo crea”, detassando il lavoro, facendo arrivare le risorse a chi lo crea e non a chi specula; “creare nuovo valore”, cioè “mettersi insieme per produrre nuovi tipi di beni, non solo individuali e privati”.  ​

www.agensir.it


UN CUORE CHE AMA SI DILATA PER AMARE GLI ALTRI

Il vangelo della domenica
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
  
Qual è, nella Legge, il grande comandamento? Lo sapevano tutti qual era: secondo i rabbini d'Israele era il terzo, quello che prescrive di santificare il Sabato, perché anche Dio lo aveva osservato («e il settimo giorno si riposò», Genesi 2,2). La risposta di Gesù, come al solito, spiazza e va oltre: non cita nessuna delle dieci parole, colloca invece al cuore del suo Vangelo la stessa cosa che sta nel cuore della vita: tu amerai, che è desiderio, attesa, profezia di felicità per ognuno.

Le leggi che reggono il mondo dello spirito e quelle che reggono la realtà vivente sono le stesse. Per questo: «quando si riesce ad esprimere adeguatamente e con bellezza il Vangelo, sicuramente quel messaggio risponderà alle domande più profonde dei cuori» (Evangelii gaudium, 265). Nulla vi è di autenticamente umano che non trovi eco nel cuore di Dio. Amerai, dice Gesù, usando un verbo al futuro, come una azione mai conclusa. Amare non è un dovere, ma una necessità per vivere.

Cosa devo fare, domani, per essere ancora vivo? Tu amerai. Cosa farò anno dopo anno? Tu amerai. E l'umanità, il suo destino, la sua storia? Solo questo: l'uomo amerà. Ed è detto tutto. Qui gettiamo uno sguardo sulla fede ultima di Gesù: lui crede nell'amore, si fida dell'amore, fonda il mondo su di esso. Amerai Dio con tutto il cuore. Non significa ama Dio esclusivamente e nessun altro, ma amalo senza mezze misure.
E vedrai che resta del cuore, anzi cresce e si dilata, per amare il marito, il figlio, la moglie, l'amico, il povero. Dio non è geloso, non ruba il cuore, lo dilata. Ama con tutta la mente. L'amore è intelligente: se ami, capisci di più e prima, vai più a fondo e più lontano. Amo molto quel proverbio inglese che dice «clarity, charity»: chiarezza, carità. La chiarezza si raggiunge percorrendo la via dell'amore (J. Tolentino).

Gli avevano domandato il comandamento grande e lui invece ne elenca due. La vera novità non consiste nell'avere aggiunto l'amore del prossimo, era un precetto ben noto della legge antica, ma nel fatto che le due parole insieme, Dio e prossimo, fanno una sola parola, un unico comandamento. Dice infatti: il secondo è simile al primo. Amerai l'uomo è simile ad amerai Dio. Il prossimo è simile a Dio, il fratello ha volto e voce e cuore simili a Dio. Il suo grido è da ascoltare come fosse parola di Dio, il suo volto come una pagina del libro sacro.

Amerai il tuo prossimo come ami te stesso. Ed è quasi un terzo comandamento sempre dimenticato: ama te stesso, amati come un prodigio della mano di Dio, scintilla divina. Se non ami te stesso, non sarai capace di amare nessuno, saprai solo prendere e accumulare, fuggire o violare, senza gioia né intelligenza né stupore.


(Letture: Esodo 22,20-26; Salmo 17; 1 Tessalonicesi 1,5-10; Matteo 22,34-40)
  
Ermes Ronchi
 
(tratto da www.avvenire.it)


TORNARE A CASA DA SCUOLA: DA SOLI O ACCOMPAGNATI?

                                                                                                                             
                   di Chiara Saraceno


La pretesa che i ragazzini delle medie debbano essere consegnati ai genitori o comunque a un adulto da questi delegato e non possano tornare a casa da soli è un insulto al buon senso, prima che un ulteriore vincolo posto all’organizzazione quotidiana delle famiglie, in primis delle madri. Potrebbe sembrare una pretesa da buon tempo antico, se non fosse che una volta i bambini erano lasciati molto più autonomi e più precocemente, nell’andare e tornare da scuola, ma anche nell’andare ai giardini o a trovare i nonni nelle vicinanze, o a comperare il pane o il latte. Ed i più grandicelli potevano, e dovevano, accompagnare i fratelli più piccoli, senza aspettare di essere maggiorenni, come invece succede oggi.

Di antico, in questa pretesa, c’è l’ovvia aspettativa che nelle famiglie ci sia sempre un adulto — per lo più la mamma — che non ha impegni di lavoro, ma anche di cura di altri familiari, che gli impediscano di trovarsi fuori scuola a metà giornata e di accompagnare i figli non ancora quattordicenni dovunque. Il tutto in un contesto in cui le scuole a tempo pieno sono in via di riduzione anche alle elementari e pressoché inesistenti alle medie. Se si dovesse dunque seguire l’interpretazione che dà la Corte di Cassazione alla norma sull’incapacità degli studenti fino ai quattordici anni, non solo i ragazzini con lo zaino in spalla e lo smartphone in mano ma anche i bambini che cominciano i primi anni di studio non potrebbero più andare a prendere il latte da soli. Perché, se malauguratamente succedesse un incidente, scattarebbe una denuncia per abbandono di minore.

A differenza di quanto ha dichiarato la ministra Valeria Fedeli, i ragazzi non potrebbero imparare a diventare autonomi neppure nel pomeriggio. L’eccesso di protezione, la difficoltà ad accettare i rischi dell’autonomia (ovviamente avendo educato alla stessa), unita alla tendenza allo scarico di responsabilità quando qualche cosa va storta, sono fenomeni ahimè tutti contemporanei e molto accentuati nel nostro Paese.

Le città europee sono piene di ragazzini che vanno a scuola da soli, prendono il tram, vanno in palestra senza essere accompagnati. I loro genitori, i loro insegnanti, le loro collettività non sono più irresponsabili della nostra, solo più fiduciosi nella propria capacità di insegnare a diventare responsabili. Forse sono anche meno disponibili allo scaricabarile. Perché, se un genitore pretende che la scuola riconosca l’autonomia dei ragazzi e l’impossibilità dei genitori stessi di essere continuamente presenti quando i figli si muovono, ma poi è pronto a denunciare l’istituto se qualche cosa succede nel tragitto verso casa, è inevitabile che la scuola si protegga. E imponga, appunto, la presenza della madre o del padre, o comunque di un adulto.

La norma che definisce i ragazzi sotto i quattordici anni legalmente incapaci è stata probabilmente pensata dal punto di vista della loro — cioè dei ragazzini — responsabilità penale, non per tenerli costantemente sotto una campana di vetro. Se invece l’interpretazione giusta è quest’ultima, come sembra di capire dalla sentenza della Corte di Cassazione, la norma va cambiata, come da tempo è chiesto dai presidi, ma non solo. E gli adulti dovranno prendersi la responsabilità, ciascuno nel proprio campo e ruolo, di insegnare ai ragazzi ad essere responsabili, a gestire appropriatamente l’autonomia conquistata.

La repubblica – 27 ottobre 2017



HALLOWEEN, FESTA DEI DIAVOLI O DEI SANTI?

Alla ricerca delle origini di una festa
che è divenuta ambigua e fuorviante,
strumentalizzata a fini commerciali.

Perché non riscoprirne  le origini?


di Giovanna Jacob*

Da alcuni decenni la festa americana di Halloween è sbarcata in Europa, seducendo i più giovani. Alcuni anni fa, la propaganda anti-Halloween è sbarcata in Europa, allarmando molti. Questi ultimi non sanno che gli autori della propaganda cui loro credono ciecamente sono tutti nemici giurati della Chiesa di Roma. In realtà la festa di Halloween è una festa cattolica inventata da immigrati cattolici (irlandesi e francesi) in una nazione puritana. Non potendo sopportare che la festa più popolare degli Usa avesse origini “papiste”, i discendenti dei puritani ne hanno sempre parlato malissimo. Nel XIX secolo misero in giro la voce che la festa di Halloween discendesse da una festa celtica legata al culto dei morti. Nel XX misero in giro la voce che durante quella festa celtica si facessero sacrifici umani al dio della morte. In realtà la festa di Halloween non ha nessun legame, né diretto né indiretto, col paganesimo antico. La festa da cui discende l’attuale festa di Halloween nacque in Irlanda fra VIII e IX secolo dopo Cristo. Halloween significa letteralmente “festa della vigilia di Ognissanti”.
Tuttora sopravvivono in varie parti d’Europa feste di origine medievale in onore dei santi e dei morti che somigliano in maniera sorprendente alla celebre festa americana. Dunque Halloween non oscura in nessun modo le nostre tradizioni ma piuttosto può illuminarle.
Nel Medioevo non solo c’erano più feste legate al calendario liturgico ma ciascuna di esse era preceduta da una festa della vigilia. Di queste feste, oggi sopravvivono solo la festa della vigilia di Natale, il martedì grasso (festa della vigilia del mercoledì delle ceneri) e pure, a pensarci bene, la festa, tipicamente romana, della Befana. Non sfugga infatti che, secondo quanto i genitori raccontano ai bambini prima di metterli a dormire, la Befana passerebbe in ogni casa a portare calze piene di regalini e dolciumi nella notte della vigilia dell’Epifania: “La Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte”. A pensarci bene, l’iconografia della Befana ha molte analogie con l’iconografia classica della strega delle favole, che è penetrata a fondo nella festa di Halloween. Ha pure la scopa, classico accessorio da strega. Considerato l’aspetto stregonesco, rischiamo davvero che si comincino a lanciare anatemi contro la simpatica vecchina. Probabilmente già cominciano a sospettare che nell’alto Medioevo ogni anno il 6 gennaio le genti pagane della campagna romana avrebbero fatto sacrifici umani ad una sanguinaria divinità femminile …
Ma andiamo avanti. Poiché tutte le cruente leggende pseudo-storiche contro Halloween, che erano state messe in giro fino a quel momento, non erano bastate a convincere il popolo americano a mettere al bando l’odiosa festa “papista”, una trentina di anni fa gli anti-papisti americani alzarono il tiro: misero in giro la voce che nella notte di Halloween tutti gli occultisti, le streghe e i satanisti del mondo facessero cose orribili. In realtà, prima di una trentina anni fa solo alcuni occultisti, fra cui il celebre Alistair Crowley, avevano dato una qualche importanza alla data del 31 ottobre. La notizia, storicamente infondata, secondo cui i celti avrebbero avuto l’abitudine di fare sacrifici umani nella notte che segnava il passaggio dall’estate all’inverno non poteva non colpire la loro fantasia, alquanto malata. Ma appunto, solo a partire dagli anni Ottanta streghe e satanisti si sono appropriati di Halloween.
Poiché correva voce che Halloween fosse “la notte delle streghe”, le sedicenti streghe dell’associazione Wicca si sentirono chiamate in causa: “Ma allora è la nostra festa: festeggiamola!”
E poiché correva voce che ad Halloween loro stessi facessero cose raccapriccianti, i satanisti pensarono che fosse una buona idea farle veramente. Così una trentina d’anni fa hanno cominciato a festeggiare il capodanno satanico ogni 31 ottobre. Se un giorno questa gente decidesse di celebrare i suoi riti durante la notte del 24 dicembre (e non è detto che qualcuno di loro già non lo faccia), il Natale non smetterebbe di essere la più importante festa cristiana. Perché invece se i satanisti decidono di compiere i loro riti durante la festa cattolica di Halloween i cattolici gliela regalano con tante grazie?
Dunque, la festa americana di Halloween discende direttamente dalla omonima festa irlandese nata nell’alto Medioevo. Se la festa di Ognissanti era dedicata ai santi del paradiso ..... 

venerdì 27 ottobre 2017

EDUCARE AL RISPETTO. Al via un piano nazionale

Scuola, Fedeli:
 "Al via il Piano nazionale
 per l'educazione al rispetto"

Dieci azioni per contrastare disuguaglianze e discriminazioni

Un Piano nazionale per promuovere nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione al rispetto, per contrastare ogni forma di violenza e discriminazione e favorire il superamento di pregiudizi e disuguaglianze, secondo i principi espressi dall'articolo 3 della Costituzione italiana.


Lo ha presentato oggi a Roma la Ministra dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Valeria Fedeli, nella cornice del Teatro Eliseo, alla presenza di Elena Centemero, Presidente della Commissione Equality and Non Discrimination del Consiglio d'Europa, Gabriele Toccafondi,  Sottosegretario all'Istruzione, Luca Pancalli, Presidente del Comitato Italiano Paralimpico, Ernesto Caffo, Presidente di Telefono Azzurro, rappresentati di studentesse e studenti e delle famiglie. Ha condotto il dibattito la giornalista Mirta Merlino, che ha di recente lanciato una campagna dal titolo #odiolodio per sensibilizzare sul problema della violenza verbale e dell'offesa gratuita sui social network. La campagna rientrerà fra le collaborazioni lanciate oggi alla presentazione del Piano.

"Il lancio di questo Piano ci rende orgogliosi ed è particolarmente importante - ha spiegato Fedeli - perché il rispetto delle differenze è decisivo per contrastare violenze, discriminazioni e comportamenti aggressivi di ogni genere. Perché il rispetto include un modo di sentire e un modo di comportarsi e relazionarsi fondamentali per realizzare l'art. 3 della Costituzione, cui tutto il Piano si ispira. Perché la scuola deve, può e vuole essere un fattore di uguaglianza, protagonista attiva di quel compito - "rimuovere gli ostacoli" - che la Repubblica assegna a se stessa. Ascolto, dialogo, condivisione: il rispetto significa tutto questo, significa fortificare la democrazia, migliorare la qualità di ogni esperienza di vita, contribuire a far crescere condizioni di benessere per tutte e tutti" .......



PAPA FRANCESCO INCONTRA L'AIMC

Sua Santità Papa Francesco riceverà i partecipanti al Congresso Nazionale AIMC la mattina di giovedì 5 gennaio, al termine dei lavori congressuali.
Nel ringraziare il Santo Padre per il grande dono che ci concederà, preghiamo coloro che desiderano partecipare al Congresso e all'udienza pontificia  di inviare la scheda di iscrizione, con cortese sollecitudine, per ovvie esigenze organizzative.

Per scaricare il modulo di prenotazione:



giovedì 26 ottobre 2017

DIRIGENTI, DOCENTI E AUMENTI SALARIALI. EVITARE LO SCONTRO

  
     Ecco quello che volevamo (e dobbiamo) scongiurare: lo scontro. Se dirigenti scolastici e insegnanti non stanno dalla stessa parte è la fine della scuola come comunità educante. Nell’AIMC è così: i dirigenti scolastici sostengono il sacrosanto diritto degli insegnanti ad avere un aumento di stipendio degno di un Paese che mette realmente la scuola al centro della sua agenda. E i docenti, dal canto loro, non contestano il giusto aumento di stipendio che viene finalmente stabilito per i dirigenti, ma contano sul loro supporto nella battaglia per vedere realizzato il diritto dei docenti al riconoscimento anche economico della loro funzione.
                                                                                       Giuseppe Desideri, presidente nazionale AIMC

domenica 22 ottobre 2017

UN INDISSOLUBILE LEGAME TRA LAVORO E DIGNITA'

A Cagliari 

la Settimana Sociale

dei Cattolici Italiani                                             di Bruno Forte



Si terrà a Cagliari nei prossimi giorni (26- 29 ottobre 2017) la 48ª Settimana Sociale dei cattolici Italiani, sul tema “Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale”. Denuncia (“Il lavoro che non vogliamo”), buone pratiche (“per curare la ferita del lavoro”), ascolto (“lavoro degno e futuro”) e proposte (“prospettive”), saranno i motivi dominanti delle quattro giornate di dibattito, riflessione e preghiera, animate dai delegati di tutte le diocesi italiane e arricchite dalla partecipazione di esperti e protagonisti della vita sociale e politica del Paese, fra cui il Presidente del Parlamento Europeo, On. Antonio Tajani, e l’On. Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio dei Ministri. Radicata nella tradizione del cattolicesimo sociale, la Settimana che sta per aprirsi si ispira al magistero di Papa Francesco, da cui ha assunto il titolo, che riprende una frase dell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium (24 Novembre 2013): “Nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita” (n. 192). 
Già nel testo preparatorio (l’“Instrumentum laboris”) il “lavoro” è presentato come “un’esperienza umana fondamentale che coinvolge integralmente la persona e la comunità. Esso dice prima di tutto quanto amore c’è nel mondo: si lavora per vivere con dignità, per dar vita a una famiglia e far crescere i figli, per contribuire allo sviluppo della propria comunità. Il lavoro umano è un’esperienza dove coesistono realizzazione di sé e fatica, contratto e dono, individualità e collettività, ferialità e festa. Esso richiede passione, creatività, vitalità, energia, senso di responsabilità, perché nelle imprese, nelle botteghe, negli studi professionali, negli uffici pubblici, la differenza, alla fine, la fanno le persone” (n. 1).
Lo stesso testo cita una testimonianza significativa di Primo Levi, tratta dalla memoria della sua terribile esperienza nel lager: “Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del «lavoro ben fatto» è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i nazisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale”.
 Sarà questo il centro focale della riflessione che la Settimana vuole stimolare: il rapporto fra lavoro e dignità della persona. Si tratta di una relazione così stretta e necessaria che la mancanza di lavoro produce alla lunga un’inevitabile ferita alla dignità personale, mentre nel lavoro la persona esprime se stessa, affermando la sua più profonda identità e costruendo legami vitali, necessari alla vita dell’individuo e alla realizzazione del bene comune.
Da questa rilevanza che per tutti ha il lavoro conseguono alcune sfide che toccano da vicino l’attualità politica e sociale del nostro Paese: fra di esse quelle del lavoro giovanile e della disoccupazione, della salubrità delle condizioni in cui si lavora e della sostenibilità sociale e ambientale di esse. “Negare ad un giovane di partecipare a questo grande progetto comune ...



giovedì 19 ottobre 2017

RETE SCUOLE ASSOCIATE ALL'UNESCO

Le istituzioni scolastiche interessate ad associarsi alla Rete UNESCO dovranno compilare la richiesta (completo della relativa scheda di candidatura) e trasmetterlo entro il 30 dicembre 2017 ai seguenti indirizzi e-mail: unesco.scuole@esteri.it; antonellacassisi@tiscali.it;  antonella.cassisi@esteri.it; rita.renda@istruzione.it.
Le istruzioni, compreso il modulo per la richiesta di adesione da parte delle scuole, sono state diramate con nota del 31/07/2017, prot. n. 9451.
Possono fare richiesta di associazione le scuole italiane di ogni ordine e grado, statali e paritarie.
L’adesione è volta ad integrare gli insegnamenti curriculari con attività orientate allo sviluppo sostenibile, alla tutela dei diritti umani e della diversità, alla valorizzazione del patrimonio culturale, dell'educazione alla pace.
Gli Istituti ammessi alla Rete dovranno integrare le proprie attività curricolari con programmi e progetti educativi a vocazione internazionale, orientati sulle principali tematiche UNESCO, che  potranno anche essere incluse anche nei percorsi di alternanza scuola-lavoro, e/o e nei progetti PON 2014-2020.
Tra le tematiche di riferimento rientrano:
- la realizzazione dell’Agenda 2030, per lo sviluppo sostenibile, dei cui obiettivi si consiglia un attento esame;
- la tutela dei diritti umani e della diversità culturale;
- la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale e linguistico, materiale ed immateriale;
- l'educazione al turismo culturale;
- l'educazione interculturale;

- lo sviluppo e la promozione dell'educazione alla Pace e alla Cittadinanza.

Da CERIPNEWS

mercoledì 18 ottobre 2017

CULTURA DELLA MEDIAZIONE IN CLASSE


“Dallo scontro all’incontro: mediando si impara!”
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         Le istituzioni scolastiche rappresentano sempre di più un luogo di relazioni complesse in cui sorgono quotidianamente conflitti di diversa entità. Spesso i ragazzi si trovano coinvolti in episodi di bullismo, violenza, comportamenti lesivi della dignità personale. Talvolta questi episodi sfociano in atti aventi rilevanza penale, più spesso si tratta di episodi meno gravi, ma che comunque meritano attenzione e considerazione da parte degli adulti. Il conflitto tra pari rappresenta qualcosa di difficile da affrontare e qualcosa che spesso viene negato, soprattutto perché non si hanno gli strumenti che permettono di riconoscerlo, di esprimerlo e gestirlo in un’ottica evolutiva dei rapporti. Inoltre i conflitti, oggi, hanno come attori e spettatori tutti coloro che sono connessi in rete e che un tempo trovavano il loro unico setting in aula, nell’atrio della scuola, nel cortile di casa. 
        I conflitti che non trovano spazio di espressione o che non vengono riconosciuti come tali, a causa del timore di esprimere sentimenti negativi, quali la rabbia, la paura, la solitudine, portano ad una lacerazione dei rapporti tra le persone, ad una violenza diffusa nelle relazioni o, in taluni casi, ad un “ritirarsi” in sé o nel proprio gruppo. Proprio per tali ragioni acquisiscono rilevanza gli spazi entro cui poter esprimere i propri vissuti, discutere e comprendere meglio quello che accade dentro e fuori la scuola. 
     Saper comunicare efficacemente, saper vivere il conflitto come risorsa, costituisce un valore aggiunto nelle relazioni tra pari e nei rapporti intergenerazionali ed è un obiettivo imprescindibile da realizzare per chi vive nella complessa società attuale. Il progetto nasce, pertanto, dalla necessità di divulgare la cultura della mediazione. In particolare, si propone di promuovere strumenti per la gestione positiva dei conflitti nei diversi ambiti della vita degli adolescenti. 
      Appare di fondamentale importanza, infatti, divulgare tale cultura soprattutto nell’istituzione scuola ove i bambini e i ragazzi sviluppano le loro capacità relazionali e sperimentano la socialità. Attraverso la diffusione della cultura della mediazione, inoltre, è possibile prevenire, contenere e gestire il propagarsi degli effetti negativi dei conflitti, trasformandoli in risorse per la relazione grazie alla mediazione. Il progetto intende focalizzarsi sull’ascolto e il riconoscimento dell’Altro da sé, attraverso temi quali la diversità, i processi empatici e le emozioni del conflitto, la giustizia riparativa a scuola, l’appartenenza. La narrazione e l’ascolto saranno protagonisti attivi in un percorso di sensibilizzazione al mondo della mediazione.
    È on line il bando per partecipare alla seconda edizione di “Dallo scontro all’incontro: mediando si impara!”, il progetto promosso dall’Autorità garante per l’infanzia e adolescenza con la sezione italiane dell’associazione Gemme (Groupement Européen des Magistrats pour la Mèdiation) e l’Istituto Don Calabria. Nei giorni scorsi a Roma la Garante per l’Infanzia, Filomena Albano, ha presentato i risultati della prima edizione del progetto – durata quasi un anno - che ha coinvolto oltre mille ragazzi tra gli 11 e i 14 anni.

    Le attività si sono focalizzate sull’ascolto e il riconoscimento dell’altro e ha affrontato temi quali la diversità, il sentirsi invisibili, l’appartenenza, l’empatia, le emozioni, l’importanza delle relazioni.

        Per aderire al bando :  BANDO CULTURA MEDIAZIONE



martedì 17 ottobre 2017

INTRODURRE NEL LINGUAGGIO DELLA COOPERAZIONE LA CATEGORIA DELL'AMORE

PAPA FRANCESCO 
ALLA FAO
        
  " .......  mi pongo – e vi pongo – questa domanda: è troppo pensare di introdurre nel linguaggio della cooperazione internazionale la categoria dell’amore, declinata come gratuità, parità nel trattare, solidarietà, cultura del dono, fraternità, misericordia? In effetti, queste parole esprimono il contenuto pratico del termine “umanitario”, tanto in uso nell’attività internazionale. Amare i fratelli e farlo per primi, senza attendere di essere corrisposto: è questo un principio evangelico che trova riscontro in tante culture e religioni e diventa principio di umanità nel linguaggio delle relazioni internazionali. E’ auspicabile che la diplomazia e le Istituzioni multilaterali alimentino e organizzino questa capacità di amare, perché è la via maestra che garantisce non solo la sicurezza alimentare, ma la sicurezza umana nella sua globalità. Non possiamo operare solo se lo fanno gli altri, né limitarci ad avere pietà, perché la pietà si ferma agli aiuti di emergenza, mentre l’amore ispira la giustizia ed è essenziale per realizzare un giusto ordine sociale tra realtà diverse che vogliono correre il rischio dell’incontro reciproco. Amare vuol dire contribuire affinché ogni Paese aumenti la produzione e giunga all’autosufficienza alimentare. Amare si traduce nel pensare nuovi modelli di sviluppo e di consumo, e nell’adottare politiche che non aggravino la situazione delle popolazioni meno avanzate o la loro dipendenza esterna. Amare significa non continuare a dividere la famiglia umana tra chi ha il superfluo e chi manca del necessario.
        L’impegno della diplomazia ci ha dimostrato, anche in eventi recenti, che fermare il ricorso alle armi di distruzione di massa è possibile. Tutti siamo consapevoli della capacità di distruzione di tali strumenti. Ma siamo altrettanto consapevoli degli effetti della povertà e dell’esclusione? Come fermare persone disposte a rischiare tutto, intere generazioni che possono scomparire perché mancano del pane quotidiano, o sono vittime di violenza o di mutamenti climatici? Si dirigono dove vedono una luce o percepiscono una speranza di vita. Non potranno essere fermate da barriere fisiche, economiche, legislative, ideologiche: solo una coerente applicazione del principio di umanità potrà farlo. E invece diminuisce l’aiuto pubblico allo sviluppo e le Istituzioni multilaterali vengono limitate nella loro attività, mentre si ricorre ad accordi bilaterali che subordinano la cooperazione al rispetto di agende e di alleanze particolari o, più semplicemente, ad una tranquillità momentanea. Al contrario, la gestione della mobilità umana richiede un’azione intergovernativa coordinata e sistematica, condotta secondo le norme internazionali esistenti e permeata da amore e intelligenza. Il suo obiettivo è un incontro di popoli che arricchisca tutti e generi unione e dialogo, e non esclusione e vulnerabilità.
          Qui permettetemi di collegarmi al dibattito sulla vulnerabilità che a livello internazionale divide quando si parla dei migranti. Vulnerabile è colui che è in condizione di inferiorità e non può difendersi, non ha mezzi, vive cioè una esclusione. E questo perché è costretto dalla violenza, da situazioni naturali o peggio ancora dall’indifferenza, dall’intolleranza e persino dall’odio. Di fronte a questa condizione è giusto identificare le cause per agire con la necessaria competenza. Ma non è accettabile, che per evitare di impegnarsi, ci si trinceri dietro a sofismi linguistici che non fanno onore alla diplomazia ma la riducono, da “arte del possibile”, a un esercizio sterile per giustificare egoismi e inattività.
          E’ auspicabile che di tutto questo si tenga conto nell’elaborazione del Pacto mundial para una migración segura, regular y ordenada, in corso in questo momento in seno alle Nazioni Unite.
        4. Prestiamo ascolto al grido di tanti nostri fratelli emarginati ed esclusi: “Ho fame, sono forestiero, nudo, malato, rinchiuso in un campo profughi”. È una domanda di giustizia, non una supplica o un appello di emergenza. È necessario un ampio e sincero dialogo a tutti i livelli perché emergano le soluzioni migliori e maturi una nuova relazione tra i diversi attori dello scenario internazionale, fatta di responsabilità reciproca, di solidarietà e di comunione.
         Il giogo della miseria generato dagli spostamenti spesso tragici dei migranti, può essere rimosso mediante una prevenzione fatta di progetti di sviluppo che creino lavoro e capacità di riposta alle crisi climatiche e ambientali. La prevenzione costa molto meno degli effetti provocati dal degrado dei terreni o dall’inquinamento delle acque, effetti che colpiscono le zone nevralgiche del pianeta dove la povertà è la sola legge, le malattie sono in crescita e la speranza di vita diminuisce.
       Sono tante e lodevoli le iniziative messe in atto. Tuttavia, non bastano; è necessario e urgente continuare ad attivare sforzi e finanziare programmi per fronteggiare in maniera ancora più efficace e promettente la fame e la miseria strutturale. Ma se l’obiettivo è favorire un’agricoltura che produca in funzione delle effettive esigenze di un Paese, allora non è lecito sottrarre le terre coltivabili alla popolazione, lasciando che il land grabbing (acaparamiento de tierras) continui a fare i suoi profitti, magari con la complicità di chi è chiamato a fare l’interesse del popolo. Occorre allontanare le tentazioni di operare a vantaggio di gruppi ristretti della popolazione, come pure di utilizzare gli apporti esterni in modo inadeguato, favorendo la corruzione, o in assenza di legalità........ "

 

domenica 15 ottobre 2017

LA "PATRIA" EUROPEA NELL'ERA DELLE APPARTENENZE FLUIDE

 
IL DIBATTITO SU CITTADINANZA E IDENTITA'

di BRUNO FORTE

           Una riflessione più che mai opportuna alla luce degli eventi che hanno animato il recente dibattito politico-culturale in Italia e non solo è quella sull’idea di “patria”: tanto la polemica sullo “jus soli”, quanto il dibattito sull’indipendenza della Catalogna, che ha suscitato passioni e messo in campo ragioni contrapposte, si rapportano a questo concetto, che è alla base dei nazionalismi che hanno pervaso il Novecento, non di rado con conseguenze drammatiche di tensioni e di violenze. È in nome di un’idea di patria fortemente identitaria e alternativa ad altre appartenenze nazionali che viene non di rado motivato il rifiuto del diritto ad essere cittadini del Paese in cui si nasce a chi – pur avendo genitori che non sono cittadini di esso – è destinato a crescervi, a ricevere l’educazione di tutti gli altri bambini, ragazzi e giovani suoi compagni di strada, per contribuire con le proprie forze e capacità al futuro di tutti. Si calcola che lo “jus soli” possa riguardare circa ottocentomila persone, numero tutt’altro che indifferente se si considera la drammatica denatalità di cui soffre l’Italia. 
           La domanda che si profila è se si possano ritenere determinanti per essere cittadini di una collettività nazionale esclusivamente il passato dei genitori, le radici culturali lontane e più o meno presenti e rilevanti nello sviluppo educativo della persona e l’insieme dei costumi e delle appartenenze sociali e religiose, in cui si svolgerà la sua vita relazionale immediata. 
          I profondi cambiamenti storici degli ultimi decenni, la crescita della globalizzazione e la dialettica sempre più viva fra localismo e universalismo inducono a rispondere di no a questa domanda: le identità sono oggi molto più liquide di un tempo e la loro costruzione e il loro sviluppo sono determinati da un complesso di fattori così vario e articolato, che non si sbaglierebbe a dire che tutti stiamo diventando sempre più cittadini ..........


venerdì 13 ottobre 2017

IN CAMMINO VERSO IL CONGRESSO NAZIONALE



... in cammino verso il Congresso Nazionale
dell'Associazione ....
per costruire insieme il domani ....









3-5 gennaio 2018 

a Roma  

il Congresso Nazionale

 dell’AIMC










Prenotati per tempo!                 www.aimc.it

Scarica la 

INVITATI A NOZZE - Il Vangelo di domenica


       Un re che chiama Il Dio che Gesù è venuto a rivelare è un re che invita a nozze. 
Non costringe, non obbliga, non intima. Propone. E non propone solo di andare a lavorare per cambiare il mondo, no. 
Propone di partecipare ad una bella festa, ad un banchetto elegante, ad una cena che lungamente abbiamo sognato. Così è Dio. 
Non quello piccino della nostra testa, quello severo delle nostre paure, quello intransigente delle nostre ristrette visioni inutilmente moralistiche. 
Un Dio che fa festa. Un Dio che ama la compagnia, che la cerca, che mi invita. Invita me, perché non è egoista come sappiamo essere noi, non narcisista e diffidente. 
Dio è uno spettacolo di luce e di vita e mi chiede, mi propone nell’assoluta libertà, di partecipare alla sua vita ma anche di condividere la sua gioia. 
E i servi vanno, invitano, insistono. Noi servi, noi discepoli che già abbiamo conosciuto l’immensa bellezza di Dio. 
Come sono belli sui monti piedi di chi parla di Dio! Solo che. Ahia Grandioso, direte voi. In teoria. In pratica Dio si riceve un solenne e condiviso: no, grazie. 
Abbiamo delle cose da fare. Vero, certo. Cose urgenti, necessarie, importanti. Ma sempre e solo delle cose. Materia, impegno, lavoro, sudore. 
Cose. Che riempiono ogni spazio, che occupano la mente, che spengono l’anima e il desiderio. Peggio: che la uccidono. Non sono malvagi coloro che rifiutano......