martedì 1 agosto 2023

DI CHI SONO PROSSIMO ?

 



 

-         di José Luis Narvaja

 

Il termine «misericordia»

In preparazione al Giubileo é opportuno meditare sul significato della parola «misericordia». Quando cerchiamo di farci un’idea di quello che significa questo vocabolo, probabilmente pensiamo subito alle «opere di misericordia», come, per esempio, dare da mangiare all’affamato, dare da bere all’assetato, vestire chi è nudo, e così via. Dal testo del capitolo 25 di Matteo, in cui il Signore parla del giudizio finale, ricaviamo una lista di opere su cui verremo interpellati l’ultimo giorno.

 Eppure, a ben guardare, noi continuiamo a ignorare che cosa significhi «misericordia». Sì, sappiamo che la misericordia ci spinge a compiere alcune opere, e che quelle opere saranno decisive nel momento del giudizio, visto che ci verrà chiesto se le abbiamo compiute. Ma il profeta Isaia chiama quelle opere «digiuno», vale a dire il sacrificio che Dio vuole: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà» (Is 58,6-8).

A questo punto potremmo pensare che la misericordia equivalga al sacrificio, ma il profeta dice: «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Os 6,6); e Gesù, nel Vangelo di Matteo, ripete questa espressione due volte (Mt 9,13; 12,7). I due termini non vengono messi in contrapposizione, ma nemmeno vengono identificati. E tuttavia, sia per Matteo sia per Isaia, quelle opere sono il frutto di un modo di essere che ci avvicina a Dio. Per Matteo, chi compie queste opere merita di «ricevere in eredità il regno» di Dio (Mt 25,34); per Isaia, così facendo, la persona mortifica con il digiuno delle cattive intenzioni i suoi desideri di potere e di dominio, mettendosi dalla parte di Dio, e per questo Dio non l’abbandona.

 Così abbiamo fatto un passo avanti: sappiamo che la misericordia ci porta a compiere certe opere e ci avvicina a Dio; ma non abbiamo ancora trovato una risposta chiara alla nostra domanda su che cosa sia, in sé, la misericordia.

 Nel Vangelo, ci sono due parole che, in spagnolo come pure in italiano, traduciamo con il termine «misericordia»: una fa riferimento all’amore e alla bontà (eleos), l’altra rimanda alle viscere (splanchna), a ciò che abbiamo di più intimo. Nella lingua spagnola c’è un’espressione che, riassumendo questi concetti in due sole parole, ci parla di un amore che nasce dal più intimo di noi stessi, perché è nelle viscere: amor entrañable, un sentimento di «amore viscerale», che va oltre la bontà e l’altruismo.

 Le parabole della misericordia nel capitolo 15 di Luca

È Gesù a insegnarci la misericordia. E lo fa attraverso delle parabole, il modo d’insegnare che egli riserva alla descrizione del regno di suo Padre («Il regno dei cieli è simile a…»). Ma le parabole, comparazioni o storie sapienziali, destinate a insegnarci qualcosa sulle realtà del Regno, molte volte ci confondono (cfr Lc 8,10). Perché il Regno «è simile a…», ma soltanto in alcuni aspetti, mentre in altri non è simile, anzi a volte è molto differente. Perciò è necessario prestare grande attenzione.

 Infatti, le parabole sono come le icone, piccole finestre che ci permettono di affacciarci sul mistero. Non possiamo vedere tutto, ma soltanto una parte, mentre il resto rimane nascosto. Le parabole rivelano e al tempo stesso nascondono; perciò dobbiamo stare attenti a ciò che esse affermano e a ciò che suggeriscono. Non ci capiti quello che dice Gesù nel Vangelo: «Agli altri [parlo] solo con parabole, affinché vedendo non vedano e ascoltando non comprendano» (Lc 8,10).

 Così, le parabole che vogliono insegnarci la misericordia ci parlano di un buon pastore che va in cerca della pecora smarrita «lasciando le novantanove nel deserto» (Lc 15,1-7); di una donna che accende una lampada e spazza la casa finché non trova la moneta che aveva perduto (Lc 15,8-10); e di un padre che attende e accoglie il figlio che aveva tradito la sua fiducia (Lc 15,11-32).

 

Le tre parabole hanno aspetti comuni. In primo luogo, il fatto che si è perduto qualcosa: una pecora, una moneta, un figlio. Questi non sono elementi unici: Gesù chiarisce bene che il pastore ha cento pecore, la donna ha dieci monete e il padre ha due figli. In secondo luogo, il pastore, la donna e il padre non si rassegnano ad aver perduto ciò che avevano e amavano: lo cercano, lo aspettano, lo accolgono. In terzo luogo, il ritrovamento di ciò che si era perduto è causa di gioia. Ma soltanto nel caso del padre si usa uno dei termini che il Vangelo riserva alla misericordia (esplanchnisthē) e che potremmo tradurre con «si commosse fino alle viscere» (Lc 15,20).

 Queste tre parabole ci parlano della misericordia dallo stesso punto di vista: Dio è misericordioso verso di noi. Noi eravamo perduti e Dio ci ha cercati ed è tornato a cercarci e continuerà a farlo. Infatti, per lui avere cento pecore non è la stessa cosa che averne novantanove, o avere dieci monete invece che nove, o avere due figli anziché uno. Per lui il gregge è composto di tutte e cento le pecore; il suo tesoro è composto da tutte e dieci le monete; la sua famiglia è fatta di due figli, non di uno solo. E niente lo convincerà che siano lo stesso cento e novantanove, dieci e nove, due e uno. Per chi vuole che nessuno si perda (cfr 2 Pt 3,9), uno fa la differenza tra la gioia e il dolore.

 La parabola del buon Samaritano

Sebbene queste tre parabole ci parlino del regno di Dio, di quello che Dio sente e di quello che Dio fa nella sua misericordia per costruire il suo Regno, tuttavia vogliamo prendere in considerazione un’altra parabola. Leggiamo dunque la parabola del buon Samaritano, che descrive il sentimento di chi è cercato, di chi è smarrito come la pecora, come la moneta e come il figlio. E Dio lo cerca in modo speciale. Ma la storia è complessa e può metterci in confusione, come di fatto ci ha confuso tante volte.

 Anzitutto prestiamo attenzione al contesto. Gesù racconta questa parabola per rispondere a un maestro della legge che gli aveva domandato: «Chi è il mio prossimo?». Chiarire questo è importante, perché noi di solito leggiamo o ricordiamo la parabola come una regola su come dobbiamo comportarci verso il nostro prossimo. Vedremo che non è così e, quando la leggeremo con attenzione, ci meraviglieremo, perché ciò che Gesù insegna in questa parabola è molto diverso dal modo in cui noi la interpretiamo abitualmente.

 Le parole di Gesù sono note, ma rileggiamole: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”» (Lc 10,30-35).

 Innanzitutto, dobbiamo notare che in questa parabola non è molto chiaro con chi il lettore debba identificarsi. Nelle tre parabole del capitolo 15 di Luca questo è più facile. Gesù ci identifica con la pecora, con la moneta e con il figlio, sebbene non neghi che il lettore possa identificarsi anche con le novantanove pecore che non si sono smarrite, con le nove monete che non si sono perdute, con il figlio maggiore che non ha mai abbandonato suo padre.

 Nella parabola del buon Samaritano il lettore può identificarsi con il ferito, al quale Gesù — il buon Samaritano — viene a risanare le piaghe (in effetti, è questa l’interpretazione che troviamo nei Padri della Chiesa), ma può identificarsi anche con il samaritano; e noi, da buoni samaritani quali vogliamo essere, possiamo lasciarci istrui­re sul modo di comportarci verso chi è bisognoso. Ma non è così semplice.

 In secondo luogo, notiamo che la parabola parla di un incontro con uno sconosciuto, e quindi non c’è una relazione affettiva come quella che esiste tra il pastore, la donna e il padre rispetto a ciò che hanno perduto. Non è detto nemmeno che l’incontro abbia prodotto grande gioia, visto che incontrarsi per caso non è il frutto di una ricerca che dilata il tempo e accresce il desiderio. Il samaritano e il giudeo sono nemici tradizionali, si incontrano appunto per caso. E tuttavia il samaritano si preoccupa di curare il giudeo, il «suo nemico».

 Il Vangelo dice che, dopo aver raccontato la storia, Gesù ripropone la domanda al maestro della legge, ma lo fa in modo diverso. La domanda del maestro della legge è stata: «Chi è mio prossimo?», e ora Gesù gli chiede: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». In questo modo Gesù ci fa cambiare le nostre idee sul prossimo e sulla misericordia. Noi siamo abituati a pensare che il prossimo sia colui che ha subìto la rapina ed è rimasto ferito, il bisognoso è chi chiede il nostro aiuto. Ma la domanda di Gesù fa capire che non è così.

 

In effetti, egli chiede: «Chi ha dimostrato di essere prossimo del ferito?». Gesù non sta ponendo qui una domanda su chi fa qualcosa, ma su chi è. Non parla affatto di fare qualcosa per il prossimo, bensì di essere. Questo non vuol dire che all’essere prossimo non segua un comportarsi da prossimo; in altre parole, non si nega quello che abbiamo visto all’inizio, cioè che la misericordia ci spinge a compiere certe opere.

 La risposta del maestro della legge è in sintonia con la domanda di Gesù: «Chi ha avuto compassione di lui» ha dimostrato di esserne il prossimo. Qui il maestro della legge non pone l’accento su ciò che fa chi ha avuto compassione dell’uomo ferito, ma su ciò che sente.

 Quindi, se prestiamo attenzione alla parabola, dobbiamo cambiare le nostre idee su ciò che significa «prossimo» e su che cosa spinga alla prossimità. Gesù non parla di «fare qualcosa per il prossimo», ma di «essere prossimo» e di «comportarci da prossimo»; in altre parole, qui non dà indicazioni sulla maniera di prenderci cura di chi è bisognoso e povero, ma su un modo di essere e di sentire del nostro cuore.

 Contro il nostro modo abituale di comprendere la parabola, «prossimo» è, in questo caso, il samaritano. Il fariseo e il levita che sono passati oltre e non si sono avvicinati a chi è stato ferito e derubato non si sono fatti prossimi (e questa parola già ci parla di prossimità, di vicinanza). Risulta chiaro che il prossimo non è semplicemente il «bisognoso», perché, se così fosse, non appena superata la necessità, esso scomparirebbe. Se prossimo fosse sinonimo di bisognoso, come andrebbe considerato chi non ha bisogno di aiuto? Meriterebbe un trattamento diverso? Prossimo è piuttosto colui che lascia che le sue viscere amorose si commuovano; prossimo è chi riconosce in un altro volto — sia esso o no bisognoso — la possibilità di far crescere il suo amore. Nel caso della parabola, l’uomo ferito e malmenato è l’occasione (kairos) che al samaritano viene offerta per commuoversi e riconoscersi prossimo, cioè mosso dal suo sentimento di misericordia.

 Questo è il motore della prossimità: i sentimenti di chi com-patisce l’altro. E l’altro non deve soddisfare nessun requisito: non è necessariamente un bisognoso, non ha bisogno di essere romanticamente degno della nostra compassione. La cosa più probabile è che nella nostra vita ci imbattiamo in molti volti che non sono «degni» di compassione. E nel caso della parabola si trattava di un nemico reale del samaritano, nemico del suo popolo e della sua razza.

 Abbiamo detto che al samaritano viene offerto un momento opportuno, un kairos, secondo il linguaggio del Vangelo. L’incontro con l’uomo ferito e derubato è l’occasione di cui la grazia si serve per raggiungere il samaritano e toccargli il cuore. La grazia non è offerta soltanto al ferito, ma Dio offre un momento di grazia anche al samaritano. Dio cerca il samaritano come cercava la pecora, la moneta, il figlio perduto. Per farlo, si serve del ferito malmenato, per risvegliare la memoria attraverso quel sentimento di compassione.

 «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso»

Così comprendiamo perché il Signore ci invita a essere misericordiosi, e non in un modo qualsiasi, ma nello stesso modo in cui lo è Dio: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). E la misericordia del Signore è caratterizzata dal fatto che egli è benevolo con gli ingrati e con i malvagi (Lc 6,35), e che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5,45).

 Se cambia la nostra idea su chi sia il prossimo, cambia anche l’idea che abbiamo della misericordia. Perché a far avvicinare il samaritano all’uomo ferito è quel sentimento del cuore che si commuove. E qui è importante rilevare che questo sentimento viene espresso con uno dei termini che significano misericordia: «Vide e ne ebbe compassione [esplanchnisthē]» (Lc 10,33). Questo termine, in greco, ha nella sua radice la parola «viscere». Si tratta di un sentimento viscerale che spinge il samaritano ad avvicinarsi al giudeo. Ma al tempo stesso, quando Gesù domanda al maestro della legge chi si sia comportato da prossimo, questi gli risponde: «Chi ha avuto compassione [eleos] di lui» (Lc 10,37), con l’altro termine che abbiamo tradotto con «misericordia».

 Qui tocchiamo il nucleo dell’insegnamento di Gesù, perché proprio questi sono i due termini che lo stesso Luca usa per esprimere il sentimento che ha spinto Dio Padre a inviare il Figlio al mondo; l’evangelista dice: «Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio [dia splanchna eleous], ci visiterà un sole che sorge dall’alto» (Lc 1,78).

 Nell’Incarnazione, è Dio a farsi prossimo per buoni e cattivi, per giusti e ingiusti, per puri e peccatori. Questo sentimento è proprio di Dio, e Gesù ce lo descrive e insegna affinché lo viviamo anche noi. È l’amore viscerale di Dio Padre, che aspetta e accoglie chi lo ha abbandonato; è l’amore viscerale di Dio Figlio, che come il buon pastore esce a cercare colui che era perduto; è l’amore viscerale dello Spirito, che «avvicina» quanti erano lontani (cfr Ef 2,13): lontani per la distanza fisica, ma soprattutto per la distanza affettiva (samaritani e giudei erano nemici), per la distanza morale (il samaritano era un impuro) e per la distanza intellettuale (quella dell’autogiustificazione, che aveva indotto il sacerdote e il levita a non «avvicinarsi», a non farsi prossimi).

 Ma torniamo alla parabola del samaritano e osserviamola in un contesto più ampio.

 La conversazione di Gesù con il maestro della legge, che lo indurrà a raccontare la parabola, si è sviluppata attraverso una serie di domande che gli sono state poste dall’interlocutore (Lc 10,25.29): «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (v. 25). Gesù gli risponde con un’altra domanda: «Che cosa sta scritto nella legge di Mosè?» (v. 26). E il maestro risponde: «Amerai il Signore tuo Dio sopra ogni cosa […] e il tuo prossimo come te stesso».

 Subito dopo, per giustificare il proprio intervento, il maestro domanda ancora: «E chi è mio prossimo?». È questo il momento in cui Gesù gli risponde raccontandogli la parabola, per fargli cambiare l’idea di prossimo e per fargli cambiare l’idea di misericordia (cfr Lc 10,30-37).

 «Ama il prossimo», chi ti è vicino. E perché devi amare il prossimo anche se non è tuo fratello, anche se non è tuo amico, anche se è proprio chi ce l’ha con te ed è contro di te? Devi amare il prossimo, perché Dio ha avuto compassione di te e si è fatto prossimo per salvarti, quando tu ne eri indegno (cfr Ef 2,12), e ha assunto la carne per salvare la tua carne e la carne di tutti. Perché Dio ha assunto la carne di ogni uomo: ecco perché devi amare la sua carne in ogni uomo come carne di chi ti si è fatto prossimo. Perciò l’espressione «ama il prossimo come te stesso» contiene un significato cristologico ed ecclesiologico.

 Se Dio si è fatto prossimo per salvarci assumendo la nostra carne (Gv 1,14), e la Chiesa è carne del corpo di Cristo (Col 1,18), io non posso essere prossimo amando il Dio che non vedo e non il fratello che vedo (1 Gv 4,20). Perché chi mi sta vicino è proprio il Cristo, buon Samaritano, che ha dato la sua vita per me. È in questo modo che Dio «mi» cerca. Vuole farmi condividere con lui quei sentimenti (Fil 2,5) che conducono alla vicinanza, alla prossimità. Colui che è «ricco di misericordia» (Ef 2,4) vuole riempirmi dei suoi sentimenti di «misericordia», affinché io sia come lui o, per meglio dire, affinché mi possa riempire di lui.

 Perché il Regno dei cieli, in definitiva, è ciò che Paolo insegna ai filippesi: Cristo «trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3,21), ed è ciò che dice ai corinzi: alla fine il Figlio ci donerà il Padre «perché Dio sia tutto in tutti» (1 Cor 15,28). Per questo Cristo è venuto a cercarci e si è fatto prossimo, per educarci allo spirito del Regno, a questo sentimento di amore viscerale e di misericordia, affinché si compia quanto ci ha insegnato: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).

 La Civiltà Cattolica

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