domenica 13 novembre 2022

EDUCARE ALLA REALTA'

EDUCARE ALLA REALTA’ 

PER VIVERE 

LA FRATERNITA’ UNIVERSALE

Intervento di Mons. Pagazzi all'Assemblea Generale dell'Unione Mondiale degli Insegnanti Cattolici

- Mons. Giovanni Cesare Pagazzi *

A nome del Cardinale Prefetto José Tolentino de Mendonça e mio personale rivolgo un caloroso saluto ai presenti e all’intera Unione Mondiale degli Insegnanti Cattolici. La nuova identità del Dicastero, che ora assomma la precedente Congregazione dell’Educazione Cattolica e il Pontificio Consiglio per la Cultura, rende ancora più significativo e urgente il vostro contributo, e più sentita la nostra gratitudine. Infatti, la vostra presenza nelle scuole e università è quella del lievito evangelico che fermenta l’intera pasta sociale, cucinando “il pane del senso” che ogni uomo e donna deve gustare per vivere. La cultura è il pane quotidiano del senso; scuola e università ne sono la farina. Certo, non l’unico ingrediente, ma necessario.

Il Dicastero esprime la propria gratitudine soprattutto ai membri del Comitato Esecutivo dell’UMEC, che ora terminano il loro mandato: il professor Guy Bourdeaud’hui, il professor John Lydon, il professor Giovanni Perrone. Un cordiale saluto e ringraziamento anche all’assistente ecclesiastico Sua Eccellenza Reverendissima Mons. Vincent Dollman. Al contempo, il Dicastero incoraggia coloro che nei prossimi giorni saranno eletti membri del Comitato Esecutivo e riceveranno dai loro predecessori un’eredità generosa. La vostra missione è di accompagnare docenti e dirigenti scolastici e universitari del mondo intero, affinché, ispirati dal Vangelo, promuovano lo sviluppo integrale della persona umana. Il Dicastero è pronto a sostenervi, così come è ben lieto di imparare dalla vostra associazione che vanta ormai più di settant’anni di vita.

Proprio a motivo del vostro impegno a favore dello sviluppo integrale della persona, vorrei proporre uno spunto, scorgendo la portata educativa di uno dei quattro principi, indicati da Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Si tratta del terzo principio: «la realtà è più importante dell’idea» (EG 231-233). Nel documento pontificio, i quattro principi sono una specie di costellazione che dovrebbe orientare lo stile del cristiano, del pastore e la loro indole fondamentalmente missionaria. Ritengo che tali principi contribuiscano a formare una mens giusta, un portamento e un comportamento desiderosi di giustizia, unico terreno dove germina la pace, nel mondo e tra le misteriose dimensioni dell’intera singola persona. Considero tali criteri decisivi dal punto di vista educativo, sia dal versante contenutistico sia da quello strategico.

«La realtà è più importante dell’idea». Il termine “realtà” deriva dal latino res, cioè “cosa”, a sua volta proveniente da una radice indoeuropea che significa “bene”. È interessante notare che il primo modo di nominare le cose le riconosce come buone. Successivamente, il latino ha preferito la parola “causa”, da cui deriva, appunto, l’italiano “cosa”, il francese “chose”, lo spagnolo “cosa”. Il termine “causa” indica la causa giudiziaria, cioè il processo che si conclude con un giudizio, riconoscendo le ragioni delle parti in causa. Chiamare gli oggetti “causa”, significa ammettere che ogni cosa ci chiama come testimoni, affinché, appunto, testimoniamo la bontà delle cose. Qual è il loro bene che domanda di essere testimoniato? Innanzitutto, esse si presentano “alla mano”, disponibili, utili, fedeli; tant’è che ci stupiamo quando una cosa non funziona, poiché normalmente funziona. Il senso della fedeltà è sorto in noi grazie alla fedeltà delle cose. Le cose incoraggiano l’azione, sollecitano l’iniziativa, l’operosità della decisione: una penna e un foglio invitano a scrivere; una sedia a sedersi; una montagna ad ammirarla o salirla. Le cose contrastano la forza di gravità depressiva e scoraggiante del non senso che depotenzia l’iniziativa della libertà, impedendole di prendere posizione nel mondo. Grazie alla loro disponibilità servizievole, le cose alimentano la speranza, senza la quale si resta demotivati, cioè senza motivazione, incapaci di muoversi. Le cose sono un grande “Sì!” che accende l’anima e il corpo, invertendo l’inerzia del nichilismo del pensiero e dell’azione. Ma nello stesso istante in cui le cose pronunciano il loro fiat a favore dell’uomo e della donna, esse emettono anche un “No!” severo. Certo, le cose sono alla mano, ma sono anche urtanti, spigolose, troppo pesanti, o troppo leggere, troppo piccole o troppo grandi, troppo dure, o troppo fragili, sfuggenti, pericolose. Sono serve obbedienti delle mani, ma – a loro volta – esigono obbedienza dalle mani. Il marmo obbediva alle mani di Michelangelo, ma le mani dell’artista dovevano obbedire alla pietra, altrimenti questa si sarebbe rotta sotto lo scalpello, divenendo inutilizzabile. Se applico alla penna la forza che imprimerei per spostare un mobile, rompo la penna; se applico al tavolo la forza utilizzata per scrivere, non lo sposterei di un millimetro. Le cose sono resistenti e si oppongono alle pretese delle mani, esigendo di essere “maneggiate con cura”. Insomma, le cose si manifestano, nello stesso istante, disponibilità e indisponibilità. Non sono a disposizione come le mani pretenderebbero. Ciò causa un senso di distanziamento, di mancanza, di lutto. Il lutto è il sentimento causato dall’indisponibilità di quanto riteniamo vitale per noi; è la disintegrazione dell’illusione (ecco l’idea che è inferiore alla realtà!) di completezza narcisistica che, in un modo o in un altro, freme in ciascuno. A motivo di questa dolorosa opera di smantellamento dell’illusione, il lutto è spesso considerato come una situazione patologica da superare al più presto. Due sono le strategie a cui generalmente si ricorre: riempire immediatamente, con altre cose, il vuoto provocato dall’indisponibilità; oppure – al contrario – delusi dalla mancata disponibilità delle cose, rifugiarsi nel disgusto verso tutto e tutti, evitare qualsiasi altro contatto, per proteggersi da un ulteriore fallimento. Ecco, la semplice, feriale esperienza con le cose, espressione quotidiana della nostra relazione con la realtà, ci insegna (esiste un originario magistero delle cose!) la grammatica elementare e il vocabolario originale di ogni relazione umana. Le cose contengono una densità umana grandiosa e contribuiscono all’umanità dell’uomo. Non per nulla nelle lingue sassoni s’instaura l’interessante parentela lessicale tra “cosa”, “pensare” e “ringraziare”. Per esempio, in tedesco: “Ding”, “Denken”, “Danken” e nell’inglese “Thing”, “to think”, “to thank”. Nulla più del legame tra persone promuove, dona speranza, invita alla decisione. Non esiste “Sì!” più incoraggiante. Ed è il medesimo legame interpersonale a imporre il “No!” più severo e l’esperienza più dolorosa del lutto. Eppure, è proprio il primigenio contatto con le cose, avuto fin dai primi mesi di vita, ad accendere in noi il senso del “Sì!” e il senso del “No!”, necessari per vivere i legami umani. Senza la discreta compagnia delle cose, delle res, della realtà, noi non saremmo chi siamo e non ci troveremmo legati a nessuno. Dimmi come tratti le cose e ti dico la qualità dei tuoi legami con le persone.

Creandoci, Dio ci ha immaginato e voluto sempre in contatto con le cose. È impossibile che questo dato sia insignificante. Conosceremmo davvero l’uomo e la donna a prescindere dal loro indissolubile rapporto con le cose? Educheremmo davvero senza considerare il magistero delle cose? Non per nulla nel “Credo” - rifacendoci al Vangelo di Giovanni, ad alcune Lettere di san Paolo, alla Lettera agli Ebrei e all’Apocalisse – noi professiamo riguardo al Padre che egli ha creato le “cose visibili e invisibili”; e riguardo al Figlio confessiamo: “per mezzo di lui tutte le cose sono state create”. Riconosceremmo davvero il Dio cristiano a prescindere dalla sua relazione con le cose?

Le parti del corpo umano effettivamente e simbolicamente più vicine alle cose sono le mani. Le mani sono le parenti più strette delle cose e delle azioni che compiamo attraverso di esse. In tedesco, “azione” è “Handlung”, “maneggiare”; in inglese, uno dei modi per dire “dare”, “porgere” (una cosa) è “to hand”. Grazie al loro contatto con le cose, le mani imparano i “Sì!” e i “No!” della realtà. Sulla scia di Aristotele, San Tommaso d’Aquino afferma che «l’anima è come la mano», quasi che le mani stesse – grazie al contatto con le cose – favoriscano l’accensione e le attività dell’anima. Kant, addirittura, definisce le mani come «il cervello esterno dell’uomo». Queste affermazioni lasciano intendere che la qualità del rapporto tra mani e cose tocca l’intimità spirituale dell’uomo. Il fatto è custodito dalle lingue neolatine. Per esempio, in italiano il verbo tipico delle mani, “prendere”, è alla base delle azioni più spirituali come “ap-prendere”, “com-prendere”, “intra-prendere”, lasciarsi “sor-prendere”. Sicché a seconda di come si “prende”, si “apprende”, “comprende”, “intraprende”. È significativo che i Vangeli, per rivelare il mistero di Cristo, ricorrano spesso alla sua gestualità manuale e al modo con cui egli ha preso le cose. Faccio riferimento solo a due episodi della vita del Signore: la moltiplicazione dei pani (Mc 6.34-44) e l’istituzione dell’Eucaristia durante l’Ultima Cena (Mc 14,22-25). In entrambi i testi ricorre la stessa sequenza gestuale: Gesù «prese» il pane, «rese grazie», «lo spezzò», e lo «diede». È facile essere attratti dalla drammaticità del terzo gesto - «spezzare» - e dalla generosità del quarto - «dare» -, dimenticando che poggiano sul primo: «prendere». Tutto comincia con il contatto delle mani di Gesù col pane che diverrà il suo Corpo. Ebbene, il verbo greco indicato per dire «prendere» è lambanō che significa sia “prendere” sia “ricevere”, come il “to get” inglese. Insomma, utilizzare quel verbo per esprimere il gesto delle mani di Gesù verso quella cosa che è il pane (gesto di fatto sintetico di tutto il suo stile e la sua identità) significa affermare che Gesù “prende” come se “ricevesse”. Le sue mani sono tanto attive nella presa quanto passive nella ricezione di un regalo. Ecco perché il secondo verbo della lista eucaristica è «rese grazie», poiché considerava un dono quanto aveva preso il pane, il suo corpo, la sua stessa vita di Figlio, poiché “figlio” è colui che, innanzitutto, riceve, e non esisterebbe se non avesse ricevuto. Guardate dove siamo arrivati, partendo dal gesto feriale e comune che lega le mani alle cose, l’uomo alla realtà. Dalle cose si può arrivare al portamento e comportamento umano e intuire qualcosa del mistero di Cristo, fino all’Eucaristia.

Riprendiamo il principio di Evangelii Gaudium: «La realtà è più importante dell’idea». Dicevo che ha una grande portata educativa sia dal punto di vista contenutistico sia da quello strategico. Quello contenutistico l’abbiamo appena indicato: perfino l’espressione apparentemente più banale dell’attenzione alla realtà – come il rapporto mani e cose – contribuisce all’umanità dell’uomo, decostruendo ogni idea irreale di sé, sia essa depressiva o euforica. Forse sarebbe importante cogliere nell’educazione anche il luogo e il tempo della riabilitazione (una specie di fisioterapia) al contatto con le cose, al loro severo magistero che accende l’anima. Così facendo, si favorirebbe una cultura della riparazione delle cose e non della loro immediata sostituzione. Ciò potrebbe renderci più disponibili anche a riparare le relazioni e non a sostituirle subito, quando non funzionano.

Ma il principio di Evangelii Gaudium è importante anche strategicamente, poiché parte da un’esperienza comune. Ritengo che l’attenzione al comune - a quanto accomuna ogni essere umano, cristiano e non, credente e non, di ogni cultura ed età, di ogni status – sia uno dei semi più promettenti del magistero di Papa Francesco. Lo si è visto esplicitato soprattutto nelle encicliche Laudato si’, riferita appunto alla casa comune, e Fratelli tutti, un formidabile richiamo alla comune origine che affratella tutta l’umanità. Il contatto con le cose accomuna tutti. Ciò significa che tutti hanno a disposizione il loro magistero, i loro “Sì!” e i loro “No!”. Tutti hanno la possibilità di accedere alla loro grammatica elementare e al loro vocabolario essenziale. Partire dalle esperienze comuni è una straordinaria strategia educativa e un’altissima forma di testimonianza cristiana. Tale modo di procedere non comporta una diluizione del cristianesimo, un accomodamento del Vangelo, ma l’esatto contrario. Infatti, tale atteggiamento nasce dalla fede nella effettiva dimensione rivelativa della Creazione in Cristo: se Dio, in Cristo, creando l’uomo e la donna, li ha immaginati capaci di muoversi, affamati e assetati, sessuati, generativi, desideranti, sensibili, affettuosi, contrassegnati anche dal sonno e dal risveglio, liberi, intelligenti, segnati dalla nascita, crescita, dal lavoro, dalla morte, avrà pur voluto comunicarci qualcosa di lui! Esattamente come un’opera d’arte parla dell’artista che l’ha immaginata e realizzata. Non per nulla, Cristo, rivelando il mistero del Padre ha parlato di realtà comuni a tutti: il sole, la pioggia, il lavoro, la casa, la fame, la sete, la malattia, il sonno, le cose, le mani, il rapporto uomo tra uomo e donna e tra genitori e figli…

Un’ultima cosa, a proposito delle cose: ogni cosa è come la testimone di una comunità di uomini e donne che hanno lavorato a nostro favore. Ad esempio: dietro il vestito che portiamo sta chi ha estratto dalla terra i metalli per realizzare gli attrezzi agricoli, chi ha progettato le macchine agricole, chi le ha realizzate, chi le ha vendute, chi con quelle macchine ha coltivato il cotone, chi lo ha filato, tinto tessuto, chi ha disegnato la camicia che indossiamo, chi l’ha realizzata, chi l’ha trasportata (chi ha costruito le strade per il trasporto) e chi l’ha venduta (… chi ha progettato e costruito il negozio dove l’abbiamo comprata). Insomma, al nostro vestito hanno lavorato migliaia di persone… a nostro vantaggio. Le cose ci ricordano che non avremmo nemmeno il più piccolo dettaglio della nostra vita senza una comunità, un’associazione di uomini che ci sostiene. L’Unione Mondiale degli Insegnanti Cattolici è un’associazione, una comunità a servizio della grande missione educativa della Chiesa. Non spaventatevi delle fatiche, delle stanchezze, degli insuccessi come singoli e come associazione. Se il minatore, il meccanico, il contadino, il sarto, il venditore avessero fatto prevalere la stanchezza e la delusione, non avremmo la camicia che oggi indossiamo.

Carissimi, ci sta davanti una sfida così difficile, così entusiasmante; perciò, ricorrendo alle parole della Lettera agli Ebrei, corriamo la corsa che ci sta davanti, coinvolgendo tutti gli uomini e le donne di buona volontà.

* Segretario del Dicastero per la Cultura e l’Educazione

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