mercoledì 23 novembre 2022

COOP27 . COM'E' ANDATA?

 Il Loss and Damage approvato 

a Sharm el-Sheik

 

 - di Mauro BOSSI

 

What goes on in Pakistan won’t stay in Pakistan (quanto accade in Pakistan non resterà in Pakistan): questa scritta campeggiava a Sharm el-Sheik sul padiglione della delegazione pakistana, che ha portato alla COP27 il suo bilancio di 1700 morti, quasi 8 milioni di profughi, danni economici oltre i 30 miliardi di dollari, causati dalle inondazioni dello scorso giugno. Un monito chiaro: ciò che è accaduto in Pakistan è destinato a ripetersi anche altrove, perché i cambiamenti climatici non sono un’eventualità futura ma una crisi presente. Ma significa anche: quello che subiscono le comunità più vulnerabili, non può restare confinato alla periferia del mondo; la comunità internazionale deve assumere la responsabilità di una situazione che è stata provocata dai Paesi industrializzati e dalle loro élite economiche e che ora viene pagata soprattutto dalle fasce più povere dei Paesi in via di sviluppo.

Mia Mottley, premier delle Barbados, uno degli Stati insulari che rischiano di essere inghiottiti dall’innalzamento del livello dei mari, ha aperto la Conferenza portando il punto di vista del Sud globale e mettendo al centro della discussione la questione del Loss and damage, cioè il risarcimento dei danni e delle perdite ai Paesi vittime dei cambiamenti climatici, basato sul principio “chi inquina paga”. È il tema che ha dominato fino alla fine questa COP, conclusa domenica mattina con 36 ore di ritardo sull’agenda e con un documento finale che segna un punto di svolta nella storia dei negoziati climatici, pur lasciando aperti molti interrogativi.

Sud contro Nord?

I Paesi del G77, che rappresentano il Sud globale e ormai assommano a 134 membri, pari a due terzi dei partecipanti alla Conferenza, nel corso degli ultimi anni hanno rafforzato l’azione coordinata per portare avanti la richiesta di risarcimenti. A Sharm el-Sheik si sono presentati con una istanza precisa: creare un fondo per i risarcimenti che sia operativo per il 2024. Tra di essi, troviamo la Cina, nella posizione ambigua di uno Stato che è il primo emettitore di gas serra al mondo, aspira ad essere una potenza economica e militare e, al tempo stesso, rivendica un ruolo di guida dei Paesi più poveri. Ma anche il Brasile, il cui neopresidente Lula ha ricevuto un’accoglienza trionfale alla COP e ha promesso un cambiamento di rotta dopo l’epoca Bolsonaro; il Governo brasiliano ha chiesto di ospitare la COP30 nel 2025 e non maschera l’ambizione di assumere un ruolo di leadership tra i Paesi del Sud globale.

Alle richieste di risarcimento, il G7 ha dapprima risposto proponendo uno “scudo globale” assicurativo contro i rischi climatici e mettendo sul piatto un fondo di 210 milioni di dollari a questo scopo. Si tratta di un fondo destinato a stanziare le polizze assicurative, non direttamente il risarcimento dei danni, che verrebbe compensato dalle compagnie assicurative qualora si verificassero. Il progetto, a guida tedesca, è coordinato con il gruppo dei V20 (i 20 Paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici) e ha sollevato, insieme ad alcuni riscontri positivi, anche dubbi e sospetti da parte dei Paesi in via di sviluppo e delle organizzazioni, che temevano che questo fosse un diversivo per affondare di nuovo, come già accaduto a Glasgow, la questione Loss and damage e ritenevano che lo strumento fosse comunque inadeguato a fronte dell’entità dei danni, anche perché non coprirebbe quelli di lungo periodo, come la desertificazione e l’innalzamento del livello del mare. Il paradosso sta nel fatto che, come ha affermato Alok Sharma, presidente della COP26, ci sono ormai settori economici impossibili da assicurare, perché i rischi sono diventati quasi delle certezze.

A questo riguardo la posizione degli Stati Uniti è netta: nel suo discorso alla COP, Joe Biden ha confermato l’impegno della sua amministrazione a dimezzare le emissioni entro il 2030 e ha illustrato le misure ambientali contenute nell’Inflation Reduction Act; ha annunciato gli accordi con Egitto e Angola per la transizione energetica e l’aumento dei contributi per l’adattamento; ma ha anche dichiarato che gli Stati Uniti non accettano il principio “chi inquina paga” e non sosterranno la creazione di strumenti finanziari per risarcire i danni e le perdite.

Anche l’Unione Europea ha avviato le trattative glissando sui risarcimenti e puntando sulla cooperazione, infatti a Bali aveva appena siglato un progetto di partnership pubblico-privato per finanziare la transizione energetica dell’Indonesia, quarto Paese al mondo per popolazione e ottavo per emissioni. Ma tra gli europei le posizioni erano sfumate: Austria e Irlanda si presentavano con una posizione favorevole ai risarcimenti, mentre la Germania cavalcava lo “scudo assicurativo” e la Francia premeva sulla Banca mondiale e sul Fondo monetario internazionale per la ricerca di nuove soluzioni finanziarie. Il Governo italiano ha mantenuto un profilo discreto, affidandosi al lavoro della delegazione coordinata da Alessandro Modiano, nominato dal Governo Draghi. Sul ruolo italiano alla COP, giudicato modesto da diversi commentatori, gravano diversi fattori: il recente insediamento del Governo, espressione di una maggioranza politica che si è presentata alle elezioni senza una vera agenda ambientale, e l’inesperienza, in materia di clima e di negoziati internazionali, del nuovo ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin.

Ad alimentare il sospetto verso Europa e Stati Uniti da parte del Sud globale, gravano almeno due fattori: l’inefficienza con la quale sono stati finora erogati i fondi per l’adattamento dei Paesi in via di sviluppo e il fatto che si tratti principalmente di prestiti che potrebbero aggravare il debito estero di questi ultimi. Questo clima di sfiducia ha rallentato i negoziati, facendo temere, in più di un momento, che la Conferenza potesse chiudersi senza un’intesa.

Ricostruire la fiducia spezzata

La svolta è arrivata giovedì sera, quando l’Unione Europea ha accettato la creazione di un fondo per i ristori ai Paesi vulnerabili, ponendo due condizioni: un impegno più deciso per l’uscita dai combustibili fossili e l’estensione del plateau dei donatori per i risarcimenti; l’obiettivo è che a contribuire al fondo sia anche la Cina, che non può continuare a pretendere di venire considerata come un Paese in via di sviluppo, secondo la classificazione risalente agli accordi di Rio del 1992, ma anche Russia, Arabia Saudita, Corea del Sud. Stabilire chi pagherà, quanto, e chi riceverà i risarcimenti, sarà il compito di una commissione ad hoc, che lavorerà nei prossimi due anni.

Invece, è mancato il consenso per la progressiva riduzione (phase-down) dalle fonti fossili, una strategia inevitabile per sperare di mantenere vivo l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale a +1,5°, come stabilito dall’Accordo di Parigi. È questo il punto che ha suscitato più delusione da parte di quanti, in prima linea l’Unione Europea, scommettevano invece sull’incremento delle ambizioni e del processo di uscita dalle fonti fossili.

Secondo il Segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres, l’istituzione di un fondo di risarcimento «è un segnale politico necessario per ricostruire la fiducia spezzata». In queste parole, al netto degli obiettivi parzialmente raggiunti, possiamo trovare una chiave di lettura di questa Conferenza e dei suoi esiti. Le COP sono un luogo di diplomazia, nel quale si riverberano i conflitti, gli interessi, le alleanze e le speranze di cambiamento del nostro mondo. Siamo in un pianeta ferito da rapporti economici e geopolitici violenti, dei quali la crisi climatica è un epifenomeno. Le COP fanno parte di un processo di riconciliazione globale: per questo sono importanti, perché sono uno strumento inclusivo, che ha dato voce ai piccoli Stati insulari e alle vittime delle alluvioni, ai climatologi preoccupati per lo scioglimento dei ghiacciai e alle organizzazioni della società civile che partecipano, monitorano i risultati, fanno da cassa di risonanza perché i cambiamenti climatici restino all’attenzione di tutti. Il Loss and damage, la cui attuazione resta ancora da verificare, è una pietra posta nella ricostruzione di un dialogo tra le nazioni. Pertanto, ci riguarda tutti, indipendentemente dal Paese in cui viviamo e da quanto i cambiamenti climatici impattano sulla nostra vita. Riguarda il tipo di mondo che vogliamo costruire e nel quale vivremo domani.

 

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