- di Massimo Recalcati -
Quanto possiamo imparare dalla tormentata elezione a presidente della Repubblica di Mattarella?
Innanzitutto,
a distinguere lo statuto della parola da quello della chiacchiera che il nostro
tempo, invece, confonde colpevolmente. In questa confusione è certo che anche
la politica ha le sue profonde responsabilità. Non si tratta di una distinzione
banale. La filosofia e la psicoanalisi l’hanno ribadita anche sul piano
categoriale.
La
chiacchiera è senza peso, vuota, irresponsabile. Può mutare rapidamente
direzione e contenuto senza che questo sollevi alcun problema. Il suo abito è
aleatorio, la sua disposizione camaleontica, la sua volubilità senza
consistenza la offre a farsi strumento di raggiro. Per questo la chiacchiera
può essere tranquillamente priva di coerenza etica e logica.
La parola
implica invece l’esistenza di un peso. Non assomiglia ad un vento che segue una
direzione incerta, ma ad una lama che taglia e lascia il segno. Per questo
“dare la propria parola” implica l’esistenza di un patto che non si può
ignorare anche se non è stato scritto, se non si è inquadrato in un contratto.
Dare la propria parola significa sentirsi impegnati nel proprio essere al suo
rispetto. La parola in questo senso non è mai separata dalle sue conseguenze
poiché essa, diversamente dalla chiacchiera, porta con sé la responsabilità
della risposta. Non è questo che ci ha insegnato il “Si!” di Mattarella prima
di ogni altra cosa? La parola può avere ancora un peso, può ancora distinguersi
dalla chiacchiera, può rispondere responsabilmente ad una chiamata.
Quando
giustamente si descrive questa ultima imbarazzante pagina della nostra storia
repubblicana come un manifesto della crisi della politica, dobbiamo
innanzitutto ricondurre questa crisi alla crisi più profonda della parola. Ma
il tatticismo politico non esclude forse a priori l’esercizio etico della
parola? Il raggiungimento dei propri fini non piega la parola al suo uso più
strumentale?
La figura di
Mattarella è divenuta così popolare nel nostro Paese perché incarna il rigore
etico della parola contro i girotondi della chiacchiera ai quali la vita
politica si è spesso degradata. Basti osservare le mosse, prive di ogni
scrupolo istituzionale, che hanno preceduto il rinnovo del mandato al nostro
presidente. Il problema non è solo il disfacimento del centrodestra, che esce
decisamente sconfitto da queste elezioni, ma della politica in quanto tale. In
questa ultima legislatura, prima che si inaugurasse l’attuale governo di unità
nazionale resosi necessario dalla violenza della pandemia, si sono susseguiti
due governi retti da una sistematica disattesa della propria parola da parte
dei partiti che li hanno resi possibili.
In questo
contesto Mattarella è un simbolo culturale e civile al servizio del Paese e in
particolare delle nuove generazioni che sono orfane del valore della parola. È
questa la versione simbolica del padre di cui i nostri figli hanno bisogno:
testimoniare che la parola ha un peso, cioè ha delle conseguenze, che essa non
può venire disossata dalla chiacchiera irresponsabile. Non a caso il
comandamento biblico che afferma di onorare il padre porta con sé un
riferimento esplicito al peso.
La parola
ebraica kavòd che viene tradotta con “onore” ha come suo significato
originario proprio la parola “peso”. È quello che si dice quando riconosciamo
che una persona ha un “peso”. È la posizione che attualmente Mattarella
incarna. Egli ha dovuto contraddire la sua intenzione di non rinnovare il
proprio mandato non nel nome della vanità personale ma per onorare fino in
fondo la propria parola di servitore dello Stato.
In un tempo
in cui le istituzioni sono state denunciate come irreversibilmente corrotte
dalla retorica populista, dove gli intellettuali hanno sostenuto posizioni da
adolescenti irresponsabili in materia di pandemia e la politica si è rivelata
non solo incapace di governare il nostro Paese, ma anche di assolvere al
compito di indicare un successore condiviso alla sua presidenza, troviamo che
“almeno uno” si è rivelato in grado di arrestare l’inondazione irresponsabile
della chiacchiera restituendo il giusto peso alla parola. Si chiama
testimonianza: incarnare la propria parola nei propri atti. Il nostro tempo ne
ha estrema necessità come un malato di Covid ne ha dell’ossigeno.
da La Repubblica
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