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martedì 31 dicembre 2019
lunedì 30 dicembre 2019
LA FAMIGLIA LUOGO DELLA COMUNICAZIONE
Via i cellulari, riprendiamo il dialogo in famiglia: il compito che il Papa ci affida
Teste e sguardi
chinati, dita impegnate a chattare vorticosamente e un silenzio che “sembra di
essere a Messa”: il Papa all’Angelus di ieri, mentre la Chiesa celebrava la
festa della Sacra Famiglia di Nazareth, ha scattato una triste istantanea dei
pranzi e delle cene che genitori e figli consumano in casa, alienati dagli
smartphone, senza più condividere nulla, eccetto lo spazio del tavolo attorno
al quale siedono.
“I tre
componenti di questa famiglia si aiutano reciprocamente a scoprire il progetto
di Dio. Loro pregavano, lavoravano, comunicavano. E io mi domando: tu,
nella tua famiglia, sai comunicare o sei come quei ragazzi a tavola, ognuno con
il telefonino, mentre stanno chattando? In quella tavola sembra vi sia un
silenzio come se fossero a Messa … Ma non comunicano fra di loro. Dobbiamo
riprendere il dialogo in famiglia: padri, genitori, figli, nonni e fratelli
devono comunicare tra loro …”
La famiglia
invece oggi lungi dall’essere il luogo del convivio dove la parola e le risate
si alternano al cibo, risulta troppo spesso demolita dalla chiusura, dal
silenzio appunto, foriero tra l’altro di incomprensioni e conflitto, che l’uso
illimitato e sbagliato della tecnologia ha provocato. Ma a tutto questo c’è
rimedio, basta darsi dei limiti e delle regole, cercare nella tecnologia le
cose buone e virtuose, evitare il più possibile lo scollamento tra la vita on
line e quella off line, dice a Vatican News Bruno Mastroianni,
giornalista e social media manager.
R. - Direi che
quello della comunicazione è un tema centrale, anche perché nelle relazioni o
c’è comunicazione o le cose non funzionano; tra l’altro è interessante il
paragone che il Papa ha fatto con la Messa: perché se è vero che una persona a
Messa esteriormente sta in silenzio, interiormente invece ci deve essere
proprio quel dialogo con Dio che attraversa tutta la celebrazione. (Cosa che
davanti ad uno smartphone è difficile da alimentare!) Quindi anche in famiglia
è molto importante che si veda, si manifesti che ci si vuole bene proprio
perché si parla, perché si condivide...
C’è qualche
consiglio pratico che vuoi darci, in particolare ai giovani, ai quali il Papa
si rivolge per primi, per metter via il cellulare e ricominciare a comunicare?
R. - Intanto
ricorderei che non sono solo i giovani. Il Papa ha fatto un riferimento diretto
ai giovani che stanno sul telefonino e chattano; ricorderei che anche i meno
giovani, cioè i genitori, gli adulti, spesso hanno questo problema e non sono
di esempio. Il problema non è tanto il telefonino in sé, ma che significato
diamo al nostro essere connessi. È chiaro che se una persona si mette
online mentre è a cena, è come se non desse significato a quel momento preciso,
in cui invece si ha l’occasione di condividere qualcosa con gli altri. Direi
quindi che il primo consiglio – che poi è la base - è darsi dei limiti, cioè
mettere via il cellulare quando non è il caso di usarlo, ma poi ci vuole
l’altezza e la profondità, cioè cercare il senso che vogliamo dare ai nostri
momenti che viviamo con gli altri, perché mettersi solo dei limiti, dei divieti
– spegniamo il cellulare, mettiamolo via, quindi il semplice “off”, non basterà
per accendere le nostre relazioni.
Tra l’altro il
messaggio che il Papa ha voluto darci colpisce ancora di più, perché lui è
davvero un campione di comunicazione, di quella comunicazione che non ha niente
di virtuale, ma che si fa con i gesti, con gli abbracci, i sorrisi, le parole
per tutti … Quindi questa sollecitazione arriva da un esempio credibile. Tu
dicevi: i genitori devono dare l’esempio. Il Papa lo dà …
R. - Sì. Il Papa
ha un modo di comunicare secondo me molto interessante, che è quello di fare
spazio all’altro. Lo si vede proprio anche nella sua gestualità, nel suo modo
di stare con le persone, anche quando non parla, quando semplicemente sta nella
folla; si vede come Lui adotta proprio una prossemica in cui fa entrare l’altro
che gli dà qualcosa, fa entrare l’altro nel suo spazio. Credo che questo sia un
modello di comunicazione molto interessante, che si può riproporre in famiglia,
perché noi spesso abbiamo una visione muscolare della comunicazione: dobbiamo
dire qualcosa, fare qualcosa. Anche nei confronti dei giovani, i genitori
devono dire qualcosa ai figli. Invece la maggior parte delle volte, si tratta
di crear quello spazio per cui il figlio o l’atro in generale possa esserci,
possa dire qualcosa di sé, possa mostre qualcosa di sé. Lì, quello spazio,
diventa condivisione e comunicazione.
L’invadenza
degli smartphone nel mondo, nella vita reale, è però sotto gli occhi di tutti.
Divorano, fagocitano le relazioni sociali. Si può guarire da questa ‘patologia’
oppure la non comunicazione, quella che il Papa addita, l’isolamento la perdita
di interesse, sono un processo irreversibile?
R. -
Assolutamente non sono una condanna. Chiaramente gli interessi commerciali
delle piattaforme e delle grandi compagnie tecnologiche comportano il fatto di
attirare il più possibile la nostra attenzione e il nostro tempo su quelle
piattaforme. Da parte nostra, quello che dobbiamo fare è lavorare proprio sulla
comunicazione. Non è solo una dieta che dobbiamo fare, anche se poi la dieta è
importante, ma è anche incominciare a nutrirsi di cose buone e nutrienti, cioè
usare la connessione per dare significato alla propria vita, per costruire
qualcosa, per informarsi, per comunicare.
Potremmo dire
che la comunicazione vien comunicando, quindi si comincia magari in famiglia e
poi anche fuori, negli altri ambiti relazionali …
R. - A volte noi
dividiamo mentalmente off line – on line, come se off line fosse tutto apposto
e on line tutti problemi. In realtà noi siamo in continuità, come dice Luciano
Floridi, la “Onlife”: la nostra vita è una vita contemporaneamente connessa nel
digitale, ma anche nell’analogico, nel fisico, negli incontri che facciamo.
Dovremmo vivere il più possibile un’unità in equilibrio in cui siamo le stesse
persone on line e off line, cercando significati, provando a costruire
relazioni e non a distruggerle. Credo che questo ci potrà aiutare a scegliere
quando è il momento di guardare lo schermo e quando è il momento invece di
guardare in faccia l’altra persona. Questa sfida è grande, perché significa che
noi dobbiamo essere uomini all’altezza della connessione. Questo vuol dire non
soltanto aver paura degli usi negativi che stanno venendo fuori da alcuni
eccessi, ma incominciare a diventare protagonisti, in prima persona, prendere
l’iniziativa per provare a trovare forme di vita connessa non solo sostenibili
ma addirittura che contribuiscono al bene, che migliorano la vita delle
persone. è tutta una sfida ampia che abbiamo di fronte come genitori, come
figli, come insegnanti – ciascuno ha il suo posto-, ma credo che sia veramente
la sfida più importante: cosa vuol dire la vita buona connessa!
sabato 28 dicembre 2019
UNA FAMIGLIA SANTA
-
- Commento al Vangelo di domenica
29 Dicembre 2019
– a cura di Paolo Curtaz.
Letture: Siracide 3,
3-7.14-17; Salmo 127; Colossesi 3,12-21; Matteo 2,13-15.19-23
Capaci di
sognare
Che
poi già riuscire a superare indenni le feste di Natale merita un premio.
E
con grande fatica, mettendo insieme i pezzi, come dicevamo, facendo come Maria,
preparandoci con ostinazione e cocciutaggine per far argine al delirio
compulsivo delle feste, siamo riusciti, spero, ve lo auguro, a fare spazio nel
nostro cuore all’accoglienza del Signore che viene.
Poi
ecco che, puntuale, arriva la domenica dopo il Natale in cui qualche genio di
liturgista propone alla nostra mente, ormai già in fase iperattiva per
organizzare l’ultimo giorno dell’anno, di celebrare la festa della Santa
Famiglia.
Il
momento peggiore dell’anno, direi.
Sia
per i contenuti: difficile prendere quella famiglia a modello delle nostre
famiglie concrete.
Sia
per il tempismo: alcuni fra noi sono reduci da quelle penitenze che a volte
diventano i pranzi e le cene in cui ci si obbliga a radunarsi tentando di non
far emerge antichi dissapori e alla sola parola “famiglia” hanno una reazione
allergica.
Sia
per la scelta delle letture: ad un primo ascolto lasciano perplesse, irritano,
parlando di padri/padroni che comandano e di mariti che vanno obbediti…
Sia
per il contesto sociale in cui stiamo vivendo: entro il 2031, sentenzia
l’ISTAT, proseguendo l’attuale trend, in Italia non ci celebreranno
più matrimoni in chiesa.
Ma
dai, ma che storia è?
Solo
che poi, se vogliamo, possiamo prendere tutto molto più sul serio.
Ben
Sirach
Siracide
propone un panegirico molto schierato, difende a spada tratta il ruolo del
padre, il rispetto a lui dovuto, e della madre, del suo diritto ad indirizzare
i figli. E tutto odora di stantio, di muffa, e pensiamo a quanti, fra noi,
hanno conti in sospeso con i propri genitori, trascinano per decenni questioni
irrisolte, incomprensioni, autoritarismi.
E
quanti hanno dovuto fare i conti con i sensi di colpa instillati a dovere, alla
rabbia repressa, alle preferenze e alle ingiustizie subite a favore di qualche
fratello e sorella.
E
scatta una ripulsa, come se la Bibbia non facesse che benedire e confermare i
peggiori stereotipi del Dio/Patria/Famiglia, costi quel che costi, a
prescindere.
Solo
che poi uno arriva alla fine del brano.
E
capisce.
Parla
di padri che si smarriscono. Della vecchiaia che azzera, che fa perdere il
senno, che annienta.
E
di un atteggiamento che stiamo smarrendo: l’indulgenza.
Cioè
il passare sopra davanti all’immagine invecchiata e indebolita dei nostri
genitori.
Ora
siamo noi ad essere cresciuti. Siamo chiamati a vedere i nostri genitori al di
là e al di dentro della loro fragilità. Per ricondurre tutto all’essenziale, là
dove la compassione prevale.
Quel
maschilista di San Paolo
Ma
il peggio deve ancora venire.
Quando
si legge l’unico brano di san Paolo che i mariti sanno citare a memoria.
Mogli
state sottomesse ai vostri mariti.
E
di nuovo proviamo disagio, come se, nuovamente, gli stereotipi sessisti della
Chiesa si concentrassero in un’unica frase.
Idioti.
Era
normale, nel contesto culturale ebraico, ma anche greco e romano, che le mogli
fossero soggette ai maschi di casa. Si era sempre fatto così. E quando Paolo
ricorda questo dato non fa che parlare con la voce della società in cui è
cresciuto e nato.
Ma
lo Spirito gli forza la mano. E aggiunge una frase che stravolge tutto.
Voi
mariti amate le vostre mogli.
Come?
Prego?
Cosa
c’entra l’amore con le mogli?
L’amore
è per le cortigiane, per le avventure, le mogli sono per figliare ed educare la
prole.
In
tutte le culture in cui si trova a vivere san Paolo. L’amore era un lusso
riservato ai poeti. In Israele i genitori combinavano i matrimoni quando ancora
i futuri sposi erano bambini.
E
san Paolo spariglia tutto, senza saperlo.
Matrimonio/amore.
Nessuno ci aveva pensato.
Obbedire,
allora, ob-audire, ascoltare da adulti, da in piedi, è
l’atteggiamento necessario all’amore. Ascoltarsi mantenendo il proprio profilo,
nella convinzione di essere due sensibilità diverse che si sommano, non si
annullano. Ed è un obbedienza dell’uno verso l’altro, nella coppia, e di
entrambi verso il Cristo, il grande amante, il grande amato.
In
Egitto
Ma
il colpo di grazia arriva dalla cupa lettura del vangelo.
In
cui si parla di fuga, di infanticidi, di paura, di migranti clandestini.
Maria
e Giuseppe, migranti clandestini.
Che
devono fuggire in Egitto per non farsi trovare da Erode, lo sterminatore.
Qui
non si parla di liete famiglie devote. Di immagini stereotipate da famiglia
radunata attorno all’albero di Natale a tagliare il panettone.
Qui
si parla di sopravvivenza. Di lotta contro i mille ostacoli che ogni giorno
dobbiamo affrontare. E di come Dio abita questa quotidianità. Di come l’abbia
riempita. Di come l’abbia trasfigurata. Qui si parla di capacità di sognare.
Allora
perdono il liturgista e lo ringrazio.
Perché
ci obbliga a riflettere, scegliendo questa pagina.
La
vita è cammino, sopravvivenza, talora. Fuga, in certi momenti.
Ma
in questo percorso irrompe il sogno e, nel sogno, la presenza di Dio.
Maria
e Giuseppe orientano le loro scelte per proteggere la vita che è stata loro
affidata.
E
seguono i loro sogni, anche controcorrente.
Ecco cosa siamo chiamati a fare. Ecco cosa
significa diventare famiglia. Santa.
PAPA FRANCESCO E L'ANNO CHE VIENE
Perché il Capodanno non sia vuota euforia
Giuseppe Savagnone
Una
sfida
In uno
scenario mondiale che, alla vigilia del nuovo anno, vede prevalere ovunque
spinte difensive dettate dalla paura, un papa che il 17 dicembre scorso ha
compiuto 83 anni è ancora una volta capace di lanciare la sfida del futuro alla
sua Chiesa, aprendole nuovi scenari che la costringono a rimettersi in
discussione.
È questo
il senso del discorso tenuto da Francesco alla Curia romana, carica delle sue
contraddizioni e dei suoi veleni, nel quale, col pretesto di porgere gli auguri
natalizi, il pontefice ha presentato in realtà la sua visione rivoluzionaria –
e finora ben poco compresa – della realtà ecclesiale.
La vita
cristiana è un cammino
Alla
base di questa visione c’è la convinzione, espressa con incisiva chiarezza, dal
grande cardinale Henri Newmann, che «qui sulla terra vivere è cambiare».
Questo
dice il papa, è vero anche per il cristianesimo: «La vita cristiana, in realtà,
è un cammino, un pellegrinaggio. La storia biblica è tutta un cammino, segnato
da avvii e ripartenze; come per Abramo; come per quanti, duemila anni or sono
in Galilea, si misero in cammino per seguire Gesù (…). Da allora, la storia del
popolo di Dio – la storia della Chiesa – è segnata sempre da partenze,
spostamenti, cambiamenti».
Lo
scandalo del cambiamento
Troppe
volte ci si è stupiti e perfino indignati, in questi ultimi anni, che
l’insegnamento, ma prima ancora lo stile pratico, di Francesco fossero molto
diversi da quelli dei suoi predecessori.
Troppe
volte si sono denunciati i cambiamenti da lui introdotti, fin dalla sera della
sua elezione – il suo famoso «buonasera!», il suo sottolineare il proprio ruolo
di vescovo di Roma, il suo richiedere ai fedeli di benedirlo a loro volta, come
lui benediceva loro – quasi fossero dei tradimenti.
Il
continuo confronto col passato ha contrassegnato dal primo momento questo pontificato
anche in questioni più sostanziali, come quelle relative alla sfera morale,
specialmente sessuale. Si sono contrapposti a questo papa i suoi predecessori,
Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, additando quest’ultimo come il solo “vero”
garante dell’ortodossia ed evocando fantasiosi scenari cospiratori per
invalidare le sue dimissioni.
Si deve
alla saggezza di Ratzinger se questi deliranti appelli – che avrebbero potuto
determinare, se incoraggiati, un disastroso scisma – hanno avuto in questi anni la sola riposta
che meritavano, e cioè il silenzio più assoluto. Una conferma, se mai ce ne
fosse stato bisogno, della totale infondatezza della ricostruzione dei fatti da
cui muovevano.
Davanti
a un cambiamento epocale
A questo
coro, spesso sguaiato, di proteste e di accuse, papa Francesco risponde, nel
discorso alla Curia che abbiamo citato, invitando ad aprire gli occhi sulla
realtà. Se è vero che «quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca
di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca», la Chiesa non può non «lasciarsi
interrogare dalle sfide del tempo presente» e saper «leggere i segni dei tempi
con gli occhi della fede, affinché la direzione di questo cambiamento “risvegli
nuove e vecchie domande con le quali è giusto e necessario confrontarsi”».
La
fedeltà alla Tradizione
E questo
proprio per «fedeltà al depositum fidei e alla Tradizione», perché «la
tradizione non è statica, è dinamica», non è costituita solo dal passato –
sarebbe ridotta ad archeologia! –, ma è il processo incessante per cui esso
viene riletto e rivissuto, in modi nuovi, nel presente e proiettato, con la
forza dell’inventiva e della creatività, verso il futuro.
Questo
non significa svalutare la memoria di ciò che è stato, ma è il modo migliore di
garantire la continuità con esso: «Appellarsi alla memoria non vuol dire
ancorarsi all’autoconservazione, ma richiamare la vita e la vitalità di un
percorso in continuo sviluppo. La memoria non è statica, è dinamica. Implica
per sua natura movimento».
La legge
del vivente
Ciò che
è vivo resta tale solo in questo dinamismo, che esclude ogni staticità e ogni
pedissequa ripetitività.
Così è
per una pianta, che è identica a se stessa solo se cresce, nutrendosi degli
umori della terra e da piccolo seme diventa albero; così è per gli animali, che
adulti sembrano del tutto diversi da ciò che erano alla nascita, ma proprio in
questo sviluppo si sono veramente conservati e realizzati.
Così è
per la Chiesa, che non sarebbe stata fedele a se stessa se fosse rimasta quella
del tempo apostolico e meno che mai se si fosse bloccata e irrigidita in una
delle tante fasi del suo sviluppo secolare, ma la cui missione nel tendere
incessantemente alla pienezza dell’immagine di Cristo che porta in sé e che, di
epoca in epoca, si va completando.
Il tempo
e lo spazio
A
sostegno di questa prospettiva, papa Francesco ribadisce nel suo discorso alla
Curia una delle proprie tesi preferite, già espressa fin dall’inizio del su
pontificato nell’intervista a «Civiltà Cattolica»: «Noi dobbiamo avviare
processi e non occupare spazi: “Dio si manifesta in una rivelazione storica,
nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova
nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere
rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi”».
Una
mancata risposta
Colpisce
vedere quest’uomo di 83 anni insistere con tanta forza sulla tensione verso il
futuro, mentre ci sono giovani preti che rimpiangono l’abito talare e la messa
celebrata in latino… Certo, la Chiesa non può essere identificata solo con
quella parte di essa che ha resistito con ostinazione a questo appello al
cambiamento, bollandolo addirittura come eresia.
E
neppure con i tanti che hanno applaudito il papa, ma non hanno mosso un passo
per tradurne le indicazioni, ai loro rispettivi livelli – di vescovi, di preti,
di semplici laici –, in un effettivo percorso di rinnovamento. Ma è certo che
nel complesso essa è sembrata finora essere più spettatrice che protagonista
dello sforzo di Francesco per traghettare
il cristianesimo nel nuovo millennio, con tutti i problemi, le
difficoltà, le contraddizioni, di una così complessa transizione.
E il
motivo è semplice. Non si tratta qui soltanto di “fare” delle cose diverse
rispetto al passato. È in gioco un rinnovamento profondo del proprio modo di
vedere e di vivere il Vangelo. «Non si tratta ovviamente di cercare il
cambiamento per il cambiamento, oppure di seguire le mode (…). Per Newman il
cambiamento era conversione, cioè un interiore trasformazione».
Il vero
pericolo non è l’islam
Ma a
rendere ineludibile l’appello di Francesco, malgrado tutte le chiusure e le
resistenze, è la forza della realtà. Ad essa il papa, nel discorso sopracitato,
richiama energicamente non solo la Curia romana, ma tutti i cristiani:
«Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più!».
E spiega
«Non siamo più in un regime di cristianità, perché la fede – specialmente in
Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un
presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa,
emarginata e ridicolizzata». Il vero pericolo non è, come vorrebbero farci
credere i paladini della chiusura delle frontiere, l’invasione dell’islam
dall’esterno, ma lo svuotamento dei valori evangelici che si sta consumando
all’interno e di cui è una prova, fra l’altro,
proprio l’atmosfera di diffidenza e perfino di odio nei confronti di
coloro che secondo il Vangelo costituirebbero «il nostro prossimo».
Nuove
logiche per una nuova evangelizzazione
Perciò
non si può più, come in passato, «distinguere tra due versanti abbastanza
definiti: un mondo cristiano da una parte e un mondo ancora da evangelizzare
dall’altra». Il confine ormai passa dentro di noi, nel cuore stesso di coloro
che appartengono a Paesi di antica tradizione cattolica, dove il messaggio di
Cristo è a volte liquidato o frainteso.
Di
fronte a questo rivolgimento epocale, dice Francesco, «c’è bisogno di una nuova
evangelizzazione, o rievangelizzazione». E per realizzarla, «abbiamo bisogno di
altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi
di pensare e i nostri atteggiamenti».
Sotto
questo profilo, non siamo ben messi. Il pontefice cita il Cardinale Martini, le
cui parole, nell’ultima intervista a pochi giorni della sua morte, a suo
avviso, «devono farci interrogare». «La Chiesa», diceva Martini, «è rimasta
indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece
di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la
fiducia, il coraggio. (…) Solo l’amore vince la stanchezza».
Perché
il Capodanno non sia vuota euforia
E così
l’alternativa è quella di cui parlavamo all’inizio: tra la paura e il coraggio
del cambiamento. Un’alternativa che, in modo diverso, riguarda tutti, credenti
e non credenti. Perché anche questi ultimi hanno qualcosa da chiedere alla
Chiesa e possono sperare in un suo reale rinnovamento.
Siamo
alla vigilia del Capodanno. Ancora una volta in tutto il mondo risuoneranno,
nei locali, per le strade, nelle case, i festosi auguri di una vita nuova, in
po’ più felice. Ma è sufficiente guardarsi dentro per sospettare che dietro questa
euforia si nasconda una segreta disperazione. Perché non basta che il tempo
scorra, per cambiare. Un giovane papa di 83 anni ci sfida a sperare. Si rivolge
alla Curia romana, ma l’invito è rivolto a tutta la sua Chiesa, anzi, più
radicalmente, a tutti gli uomini del nostro tempo. Perché cerchino finalmente
nel profondo di se stessi la forza del
cambiamento.
www.tuttavia.eu
Leggi. DISCORSO ALLA CURIA
venerdì 27 dicembre 2019
ADESIONI 2020 - E' GIÀ' ORA DI RINNOVARE IL PROPRIO IMPEGNO PER ESSERE CON, PER ESSERE PER .....
ESSERE E FARE ASSOCIAZIONE,
UN VALORE DA COLTIVARE
AIMC - 1945-2020: da 75 anni testimoni di valori
AIMC - 1945-2020: da 75 anni testimoni di valori
Aderire all'AIMC
per testimoniare concretamente il proprio impegno cristiano, professionale, associativo.
PAPA FRANCESCO ALL'AIMC: " ....Cari fratelli e sorelle, voglio aggiungere una parola sul valore di essere e fare associazione. E’ un valore da non dare per scontato, ma da coltivare sempre...
Vi esorto a rinnovare la volontà di essere e fare associazione nella memoria dei principi ispiratori, nella lettura dei segni dei tempi e con lo sguardo aperto all'orizzonte sociale e culturale.
L’essere associazione è un valore ed è una responsabilità, che in questo momento è affidata a voi. Con l’aiuto di Dio e dei pastori della Chiesa, siete chiamati a far fruttare questo talento posto nelle vostre mani.
Vi ringrazio e benedico di cuore voi, tutta l’associazione e il vostro lavoro".
Leggi: NOTES DICEMBRE 2019
giovedì 26 dicembre 2019
SCRIVERE E PARLARE BENE IN ITALIANO. UNA GRAMMATICA UMORISTICA
Per ripassare l’italiano divertendosi
Tutti, prima o poi, abbiamo avuto dei dubbi circa le regole della nostra bella lingua.
Un libro di Francesco Mercadante ci aiuta a risolverli
di Daniela Vellutino*
Sé stesso o se stesso? Perché caporedattori è un
plurale diverso da capistazione se entrambi i nomi sono composti dalla parola
testa “capo-”? Avere dubbi su come si scrive o si pronuncia correttamente una
parola, non essere sicuri sulla formazione del plurale dei nomi e degli
aggettivi, esitare sulle concordanze, sulla punteggiatura e
sull'ortografia può capitare a tutti. Capita a chi parla e scrive per
professione come a chi usa la lingua italiana solo per social
izzazione. Ci
sarà sempre una circostanza in cui ci troveremo davanti a una persona con la
quale parlare d'affari, d'amore o di qualsiasi altra cosa e ci verranno dubbi
sulle parole giuste o sull'accordo sintattico o sull'uso del congiuntivo nelle
frasi dipendenti.
Verba volant, penseremo rassicurandoci. A
volte è così, fortunatamente. Non volano via, però, i messaggi vocali di
Whatsapp, i discorsi trasmessi e registrati in podcast sul web che fa
convergere i media o il parlato trascritto durante le intercettazioni
telefoniche. Quando poi davanti a noi c'è un foglio e in mano una penna, in
assenza di un correttore ortografico, scripta manent. Sono questi i
momenti in cui si capisce che la padronanza della lingua italiana è davvero una
competenza fondamentale e non scontata solo perché abbiamo frequentato la
scuola per tredici anni o ci siamo laureati sostando così nei banchi per
diciotto anni o anche più.
Allora, che fare? Riprendere i libri di grammatica delle scuole
superiori dimenticati chissà dove se non buttati via dopo l'uso scolastico
obbligatorio o venduti come fa Pinocchio nella favola?
Meglio ripassare le regole di grammatica leggendo
un libro spassoso come la Grammatica umoristica di Francesco
Mercadante, edito da Margana edizioni. Una divertente guida tascabile per
riflettere sugli usi corretti della lingua italiana. Un libro da leggere in
treno o in bus pensando proprio al fatto che la nostra lingua è in movimento
e le sue regole di grammatica devono essere conosciute per essere applicate
correttamente; tenendo conto, però, che la lingua subisce ristandardizzazioni
per la sua variabilità.
Grammatica umoristica perché Francesco Mercadante ha raccolto esempi di strafalcioni
di ministri, manager e blogger per spiegare gli usi corretti della lingua
italiana. Svarioni esposti insieme ad aneddoti, miti, citazioni
letterarie e pop, frasi scritte sui muri, fotografie di Giò Vacirca. Il tutto
narrato con un registro ironico aulico, repleto di aggettivi e avverbi spesso
anteposti, che proprio per questo fa ricordare la ricchezza espressiva del
nostro patrimonio linguistico.
Tratti linguistici questi che potrebbero mostrare
anche l'emergere di una nuova varietà di lingua che sta prendendo forma,
che ho denominato Italiano NazionalPOPolare perché è un uso della lingua
nazionale che mescola al lessico comune, termini in inglese, parole e
espressioni dei dialetti d'origine e della Popular culture (POP), la cultura di
massa trasmessa dai media. Francesco Mercadante riporta tanti esempi che
mostrano, divertendoci, il difficile rapporto tra noi italiani e la nostra
lingua madre. Un rapporto complicato, analizzato in numerosi studi di
linguistica che, però, poco fanno notizia e descritto a chiare lettere dai
numeri dei rapporti internazionali e nazionali che, invece, fanno notizia
proprio perché fotografano l'Italia che si distacca dai Paesi più
avanzati.
Hanno fatto notizia gli ultimi
dati Ocse–Pisa sulla comprensione di un testo da parte degli studenti
italiani quindicenni che non riescono a identificare il messaggio principale di
un testo di media lunghezza. Così come gli analoghi risultati delle prove
INVALSI, condotte quest'anno fra gli alunni di terza media, che rilevano che
solo il 65% ha superato il livello minimo richiesto almeno il livello 3 di
comprensione testuale. Vale a dire che «l'allievo/a individua una o più informazioni
fornite esplicitamente in una porzione ampia di testo, distinguendole da
altre non pertinenti. Ricostruisce il significato di una parte o
dell'intero testo ricavando informazioni implicite da elementi testuali (ad
esempio punteggiatura o congiunzioni) anche mediante conoscenze ed esperienze
personali. Coglie la struttura del testo (ad esempio titoli, capoversi,
ripartizioni interne) e la funzione degli elementi che la costituiscono.
Conosce e usa parole ed espressioni comuni, anche non legate a
situazioni abituali. Conosce e utilizza le forme e le strutture di base
della grammatica e la relativa terminologia».
Se questi test fossero somministrati ad un ampio
campione di popolazione italiana adulta ne verrebbe fuori un quadro ben più
sconfortante. Analfabetismo di ritorno, analfabetismo funzionale rappresentano
fenomeni in ascesa, segno tangibile di un deficit culturale che contribuisce
non poco ad attestare il ritardo di sviluppo del nostro Paese al pari delle
cifre dei deficit economico e demografico.
Forse anche per contribuire ad arginare questo deficit che Francesco Mercadante ha voluto dedicare un po' del suo tempo a registrare e analizzare gli strafalcioni distaccandosi dalle sue quotidiane analisi dei testi del mondo economico e finanziario.
Forse anche per contribuire ad arginare questo deficit che Francesco Mercadante ha voluto dedicare un po' del suo tempo a registrare e analizzare gli strafalcioni distaccandosi dalle sue quotidiane analisi dei testi del mondo economico e finanziario.
* Professoressa di Italiano Istituzionale, Comunicazione
Pubblica e Linguaggi Istituzionali, presso l'Università degli Studi di Salerno
IL SOLE 24 ORE
APPREZZARE PIUTTOSTO CHE CRITICARE. L'ARTE DELL'INCORAGGIAMENTO
- APPREZZARE E VALORIZZARE PER CRESCERE E FAR CRESCERE MEGLIO -
Se decidiamo di cambiare noi stessi - o di aiutare altri a migliorare- dobbiamo scegliere un approccio, una strada da seguire. Quello che suggeriamo noi è basato sui punti di forza: ciascuno di noi ha dei punti di forza, a volte senza saperlo. Se scegliamo di cambiare utilizzando un approccio basato sui punti di forza, il nostro primo obiettivo (1) sarà quello di scovare questi “talenti nascosti”, mentre il secondo (2) sarà quello di lavorare attivamente su di essi.
Perché proponiamo un approccio basato sui punti di
forza invece di correggere le debolezze? Esiste un simpatico esperimento
scientifico al riguardo. Nel 1925 (molto tempo prima che si sviluppassero le
moderne scuole di pensiero psicologiche e che la didattica venisse affrontata
da pedagogisti e filosofi con l’attenzione scientifica che riceve oggi) la
ricercatrice Elizabeth Hurlock condusse uno studio su un gruppo di studenti. Lo
studio aveva l’obiettivo di spingere questi studenti a migliorare il proprio
rendimento scolastico e le performance nei test.
Alcuni tra questi studenti ricevettero degli
incoraggiamenti positivi e furono invitati ad impegnarsi per fare sempre
meglio, a partire dai propri punti di forza; altri, invece, ricevettero delle
critiche riguardo agli errori che avevano commesso nei primi test. Nel 1925 criticare
aspramente gli errori degli studenti era la prassi nella maggior parte delle
scuole americane e del mondo.
Dallo studio emersero i dati seguenti: tra gli
studenti i cui errori erano stati criticati, il 19% migliorò il proprio
rendimento nel corso dei test successivi. Un risultato lievemente positivo.
Tra gli studenti che erano stati incoraggiati a far
meglio e a lavorare sulle proprie potenzialità, il numero di coloro che
riuscirono a migliorare il proprio rendimento fu del 71%! Un risultato
sorprendente.
Questo esperimento non è un punto isolato: numerose
ricerche – anche negli ultimi anni – hanno confermato che gli approcci
basati sui punti di forza sono molto più efficaci di quelli che hanno come obiettivo
la correzione dei punti di debolezza.
Ma qual è il segreto di questa scelta? Partire dai
punti di forza permette di mettersi alla prova rispettando il senso di autoefficacia e l’autostima: così facendo,
agiremo con una forte motivazione di base. Non dobbiamo mai dimenticare che nei
processi di apprendimento le emozioni e l’intelligenza emotiva giocano
un ruolo fondamentale.
Abbiamo
evidenziato l’importanza di lavorare sui punti di forza invece
di focalizzarsi sulle debolezze. Tuttavia, qualcuno potrebbe ancora obiettare:
perché cambiare? Perché affidarsi all'incertezza e all'imprevisto? La risposta
è semplice: il cambiamento è uno degli
strumenti migliori per lavorare sui propri punti di forza.
Com'è
possibile? Lo chiariamo utilizzando una teoria scientifica, quella della casualità pianificata (formulata nel 1999 dagli psicologi
Krumboltz, Mitchell e Levin).
Questa teoria è stata utilizzata con successo in molte grandi aziende americane, generando una piccola rivoluzione nel mondo del counselling professionale e dello sviluppo della carriera. Secondo la teoria della casualità pianificata, l’esplorazione genera eventi casuali che potrebbero rendere migliore la vita degli individui e le loro competenze; questi eventi casuali potrebbero inoltre rendere capaci gli individui di afferrare opportunità altrimenti precluse. Questa teoria è fondamentale per la crescita personale; infatti, ci dice, in parole povere, che dal cambiamento potrebbe nascere qualcosa di buono (che non potremmo ottenere altrimenti) e che tutti noi possiamo farci “esploratori”, ovvero ricercatori del cambiamento. Si tratta di una formulazione scientifica di quella che viene definita “serendipità“.
Questa teoria è stata utilizzata con successo in molte grandi aziende americane, generando una piccola rivoluzione nel mondo del counselling professionale e dello sviluppo della carriera. Secondo la teoria della casualità pianificata, l’esplorazione genera eventi casuali che potrebbero rendere migliore la vita degli individui e le loro competenze; questi eventi casuali potrebbero inoltre rendere capaci gli individui di afferrare opportunità altrimenti precluse. Questa teoria è fondamentale per la crescita personale; infatti, ci dice, in parole povere, che dal cambiamento potrebbe nascere qualcosa di buono (che non potremmo ottenere altrimenti) e che tutti noi possiamo farci “esploratori”, ovvero ricercatori del cambiamento. Si tratta di una formulazione scientifica di quella che viene definita “serendipità“.
Quando
parliamo di sviluppare i punti di forza, ci riferiamo ad una serie di competenze
utili per la vita personale e professionale. Questi punti di forza sono stati
definiti in modi diversi nelle diverse epoche dell’uomo: gli antichi greci le
chiamavano aretè, i cristiani virtù, alcune teorie psicologiche le
hanno poi definite competenze, prima che gli psicologi positivi rispolverassero
l’antica concezione di virtù.
Il problema delle virtù/competenze è che non sempre abbiamo a disposizione un percorso lineare per svilupparle; questo è dovuto al fatto che le nostre scuole non “insegnano” l'agire virtuoso direttamente e neppure la società lo fa. Le virtù sono fondamentali per vivere in modo felice e rispettoso, eppure vengono tenute ai margini della società.
Il problema delle virtù/competenze è che non sempre abbiamo a disposizione un percorso lineare per svilupparle; questo è dovuto al fatto che le nostre scuole non “insegnano” l'agire virtuoso direttamente e neppure la società lo fa. Le virtù sono fondamentali per vivere in modo felice e rispettoso, eppure vengono tenute ai margini della società.
La
verità è che tutti noi, a livello intuitivo, comprendiamo l’importanza delle
virtù, eppure le diamo per scontate. Di solito, rimangono al livello dei “buoni
propositi”.
Se
vogliamo far sì che le nostre virtù escano da quel limbo mentale e divengano
atto, il cambiamento è la strada più semplice ed efficace.
·
Hurlock, E. B. (1925). An Evaluation of Certain
Incentives Used in School Work. Journal
of Educational Psychology, 16(3), 145-159
·
Laudadio A., Mancuso S.,
Manuale di psicologia positiva, Franco Angeli, 2015
Luigina Mortari, Le virtù a scuola, Cortina, 2014
C Colasanti, Franta, L'arte dell'incoraggiamento, Cortina, 1991
Da Portale bambini
mercoledì 25 dicembre 2019
NATALE. IL VERO VOLTO DELL'UMANO
La vera felicità – ci insegna il presepe – sta nello spogliarsi di pretese di autosufficienza, nella grandezza di chi sa inginocchiarsi davanti al Mistero e rialzarsi con uno sguardo più attento a capire la realtà e a spendersi con generosità per renderla migliore per tutti.
di GUALTIERO
BASSETTI*
Natale.
Davanti al mistero di questa notte santa, avverto tutta la responsabilità di
rivolgermi a voi con una parola che possa raggiungervi personalmente e – se
possibile – accompagnarvi per un tratto del vostro cammino. Un cammino spesso
non facile. Ho davanti agli occhi le stanchezze e le disillusioni, le
incertezze e l’ansietà di tanta gente, provata dalla preoccupazione per il
venir meno di un modello di lavoro e di sviluppo e, a un livello ancor più
profondo, per la difficoltà a riconoscersi con una propria identità,
nell’appartenenza a una famiglia e a una comunità. Ne sono segno la caduta
delle nascite, l’invecchiamento demografico del Paese, e la stessa emigrazione
di tanti giovani verso l’estero. In un simile contesto, forse anche la voce della
Chiesa troppe volte si è fatta flebile, nella fatica a interpretare questa
stagione alla luce dell’esperienza e della speranza cristiana.
«Siamo
un popolo di stressati, perché non abbiamo un traguardo, una
prospettiva – riconosceva qualche giorno fa Giuseppe De Rita, a
margine della presentazione del Rapporto del Censis –. Ci manca il
futuro e per questo il presente diventa faticoso, fastidioso». Alla
mancanza di prospettive, si aggiunge spesso l’incapacità di un
rapporto di fiducia con gli altri. A ben vedere, si tratta di due
facce della stessa medaglia, che dice di uno sfilacciamento personale
e sociale: lo sguardo miope sulla realtà rende ciascuno attento e
sensibile solamente a quelle che sono avvertite come le proprie
urgenze personali, che diventano così il principale – se non
l’unico – criterio di valutazione e di scelta. In realtà, come
osserva Sergio Belardinelli, sappiamo che «la forza di una cultura sta invece
nella capacità di relazionarsi continuamente con ciò che è 'altro', senza
perdere la consapevolezza della propria identità; nella capacità di tendersi il
più possibile verso l’altro, senza spezzare i legami che si hanno con se
stessi, con la propria storia e la propria tradizione».
Identità, cultura,
relazioni, appartenenza. Per non fermarci alla retorica e dare contenuto e
orizzonte a queste parole, torniamo a Betlemme, riprendiamo i sentieri che
conducono alla Natività. Al nostro cuore inquieto, il Bambino Gesù offre come
risposta la sua persona, la relazione con Lui, da cui nasce il volto umano di
ciò che siamo, la possibilità di vivere l’esistenza quotidiana in modo nuovo.
Davanti all’umiltà del presepe cadono violenza e inganno, odi e calunnie; si
avverte la ricchezza di conoscersi meglio per arrivare a guardarsi in modo
diverso e tendere a formare comunità. La storia del Natale di Gesù ci insegna a
conservare, anche nei momenti più difficili, la fiducia e il coraggio. Fiducia
e coraggio con cui guardare la storia dalla parte di chi la soffre davvero; a
farlo – come suggeriva papa Francesco nell’omelia natalizia di un paio d’anni
fa – con gli occhi di Maria e di Giuseppe: «Il Figlio di Dio dovette nascere in
una stalla perché i suoi non avevano spazio per Lui.
In
mezzo all’oscurità di una città che non ha spazio né posto per il forestiero
che viene da lontano, in mezzo all’oscurità di una città in pieno movimento e
che in questo caso sembrerebbe volersi costruire voltando le spalle agli altri,
proprio lì si accende la scintilla rivoluzionaria della tenerezza di Dio».
Pensiamoci.
Le chiusure e le contrapposizioni, oltre che sterili, finiscono per togliere
l’aria a tutti. Il subbuglio del mondo non è una tragedia, ma qualche cosa che
mormora dentro, che cerca di richiamare la nostra attenzione, la reclama. Non
disertiamo le responsabilità che la vita ci ha affidato; torniamo a fare con
passione e competenza la nostra parte, sapendo che ricostruire un tessuto
identitario e comunitario non è opera che s’improvvisa.
La vera
felicità – ci insegna il presepe – sta nello spogliarsi di pretese di
autosufficienza, nella grandezza di chi sa inginocchiarsi davanti al Mistero e
rialzarsi con uno sguardo più attento a capire la realtà e a spendersi con
generosità per renderla migliore per tutti. Buon Natale a ciascuno di voi.
*Gualtiero Bassetti
Cardinale
Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Conferenza episcopale
lunedì 23 dicembre 2019
E' NATALE. ANDIAMO A BETLEMME! AUGURI A VOI TUTTI !
«Andiamo dunque fino a
Betlemme» (Lc 2,15): così dissero e fecero i pastori.
Pure noi,
Signore, vogliamo venire a Betlemme.
Voglio arrivare a Betlemme, Signore,
perché è lì che mi attendi. E accorgermi che Tu, deposto in una mangiatoia,
sei il pane della mia vita.
Ho bisogno della fragranza tenera del
tuo amore per essere, a mia volta, pane spezzato per il mondo.
Prendimi sulle
tue spalle, buon Pastore: da Te amato, potrò anch’io amare e prendere per mano
i fratelli.
Allora sarà Natale, quando potrò dirti: “Signore, tu sai tutto, tu
sai che io ti amo” (cfr Gv 21,17).
Papa Francesco
"Andiamo fino a Betlem, come i pastori. L'importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso.
Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi dell'onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l'amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.
Mettiamoci in cammino, senza paura. Il Natale di quest'anno ci farà trovare Gesù e, con lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell'essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell'impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.
Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte, e illuminato di stelle.
E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza"
+ Tonino Bello.
AUGURIAMO A VOI TUTTI E FAMILIARI
UN SANTO NATALE!
sabato 21 dicembre 2019
GIUSEPPE, IL GIUSTO -
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 1, 18-24
Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.
Commento al Vangelo
p. Paolo Curtaz
Sono due le
annunciazioni presenti nei Vangeli: una a Maria e l’altra a Giuseppe.
Dio parla ad una
coppia, non ad un singolo.
Ma lo fa
rispettando le diverse sensibilità, al maschile e al femminile. Perché
l’esperienza di fede sempre parte dalla concretezza delle nostre esperienze e
dei nostri percorsi.
L’angelo è lo
stesso, ma il modo, il linguaggio e le modalità che usa sono diverse.
Dio sempre ci viene
incontro.
E rispetta la
nostra straordinaria singolarità.
Parla col
linguaggio che sappiamo intendere.
Si fa breccia fra i
nostri pensieri, i nostri affanni, le nostre paure.
Come quando non
chiudiamo occhio perché è successo qualcosa che ci ha destabilizzato.
E tutta la nostra
vita viene ribaltata da un evento imprevisto. O come quando di colpo ci
troviamo davanti ad evidenze che smascherano una persona di cui ci siamo
fidati, che abbiamo amata.
Non ditelo a
Giuseppe.