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lunedì 30 dicembre 2019

LA FAMIGLIA LUOGO DELLA COMUNICAZIONE

Via i cellulari, riprendiamo il dialogo in famiglia: il compito che il Papa ci affida

Teste e sguardi chinati, dita impegnate a chattare vorticosamente e un silenzio che “sembra di essere a Messa”: il Papa all’Angelus di ieri, mentre la Chiesa celebrava la festa della Sacra Famiglia di Nazareth, ha scattato una triste istantanea dei pranzi e delle cene che genitori e figli consumano in casa, alienati dagli smartphone, senza più condividere nulla, eccetto lo spazio del tavolo attorno al quale siedono.  
“I tre componenti di questa famiglia si aiutano reciprocamente a scoprire il progetto di Dio. Loro pregavano, lavoravano, comunicavano. E io mi domando: tu, nella tua famiglia, sai comunicare o sei come quei ragazzi a tavola, ognuno con il telefonino, mentre stanno chattando? In quella tavola sembra vi sia un silenzio come se fossero a Messa … Ma non comunicano fra di loro. Dobbiamo riprendere il dialogo in famiglia: padri, genitori, figli, nonni e fratelli devono comunicare tra loro …”
La famiglia invece oggi lungi dall’essere il luogo del convivio dove la parola e le risate si alternano al cibo, risulta troppo spesso demolita dalla chiusura, dal silenzio appunto, foriero tra l’altro di incomprensioni e conflitto, che l’uso illimitato e sbagliato della tecnologia ha provocato. Ma a tutto questo c’è rimedio, basta darsi dei limiti e delle regole, cercare nella tecnologia le cose buone e virtuose, evitare il più possibile lo scollamento tra la vita on line e quella off line, dice a Vatican News Bruno Mastroianni, giornalista e social media manager.
R. - Direi che quello della comunicazione è un tema centrale, anche perché nelle relazioni o c’è comunicazione o le cose non funzionano; tra l’altro è interessante il paragone che il Papa ha fatto con la Messa: perché se è vero che una persona a Messa esteriormente sta in silenzio, interiormente invece ci deve essere proprio quel dialogo con Dio che attraversa tutta la celebrazione. (Cosa che davanti ad uno smartphone è difficile da alimentare!) Quindi anche in famiglia è molto importante che si veda, si manifesti che ci si vuole bene proprio perché si parla, perché si condivide...
C’è qualche consiglio pratico che vuoi darci, in particolare ai giovani, ai quali il Papa si rivolge per primi, per metter via il cellulare e ricominciare a comunicare?
R. - Intanto ricorderei che non sono solo i giovani. Il Papa ha fatto un riferimento diretto ai giovani che stanno sul telefonino e chattano; ricorderei che anche i meno giovani, cioè i genitori, gli adulti, spesso hanno questo problema e non sono di esempio. Il problema non è tanto il telefonino in sé, ma che significato diamo al nostro essere connessi. È chiaro che se  una persona si mette online mentre è a cena, è come se non desse significato a quel momento preciso, in cui invece si ha l’occasione di condividere qualcosa con gli altri. Direi quindi che il primo consiglio – che poi è la base - è darsi dei limiti, cioè mettere via il cellulare quando non è il caso di usarlo, ma poi ci vuole l’altezza e la profondità, cioè cercare il senso che vogliamo dare ai nostri momenti che viviamo con gli altri, perché mettersi solo dei limiti, dei divieti – spegniamo il cellulare, mettiamolo via, quindi il semplice “off”, non basterà per accendere le nostre relazioni.
Tra l’altro il messaggio che il Papa ha voluto darci colpisce ancora di più, perché lui è davvero un campione di comunicazione, di quella comunicazione che non ha niente di virtuale, ma che si fa con i gesti, con gli abbracci, i sorrisi, le parole per tutti … Quindi questa sollecitazione arriva da un esempio credibile. Tu dicevi: i genitori devono dare l’esempio. Il Papa lo dà …
R. - Sì. Il Papa ha un modo di comunicare secondo me molto interessante, che è quello di fare spazio all’altro. Lo si vede proprio anche nella sua gestualità, nel suo modo di stare con le persone, anche quando non parla, quando semplicemente sta nella folla; si vede come Lui adotta proprio una prossemica in cui fa entrare l’altro che gli dà qualcosa, fa entrare l’altro nel suo spazio. Credo che questo sia un modello di comunicazione molto interessante, che si può riproporre in famiglia, perché noi spesso abbiamo una visione muscolare della comunicazione: dobbiamo dire qualcosa, fare qualcosa. Anche nei confronti dei giovani, i genitori devono dire qualcosa ai figli. Invece la maggior parte delle volte, si tratta di crear quello spazio per cui il figlio o l’atro in generale possa esserci, possa dire qualcosa di sé, possa mostre qualcosa di sé. Lì, quello spazio, diventa condivisione e comunicazione.
L’invadenza degli smartphone nel mondo, nella vita reale, è però sotto gli occhi di tutti. Divorano, fagocitano le relazioni sociali. Si può guarire da questa ‘patologia’ oppure la non comunicazione, quella che il Papa addita, l’isolamento la perdita di interesse, sono un processo irreversibile?
R. - Assolutamente non sono una condanna. Chiaramente gli interessi commerciali delle piattaforme e delle grandi compagnie tecnologiche comportano il fatto di attirare il più possibile la nostra attenzione e il nostro tempo su quelle piattaforme. Da parte nostra, quello che dobbiamo fare è lavorare proprio sulla comunicazione. Non è solo una dieta che dobbiamo fare, anche se poi la dieta è importante, ma è anche incominciare a nutrirsi di cose buone e nutrienti, cioè usare la connessione per dare significato alla propria vita, per costruire qualcosa, per informarsi, per comunicare.
Potremmo dire che la comunicazione vien comunicando, quindi si comincia magari in famiglia e poi anche fuori, negli altri ambiti relazionali …
R. - A volte noi dividiamo mentalmente off line – on line, come se off line fosse tutto apposto e on line tutti problemi. In realtà noi siamo in continuità, come dice Luciano Floridi, la “Onlife”: la nostra vita è una vita contemporaneamente connessa nel digitale, ma anche nell’analogico, nel fisico, negli incontri che facciamo. Dovremmo vivere il più possibile un’unità in equilibrio in cui siamo le stesse persone on line e off line, cercando significati, provando a costruire relazioni e non a distruggerle. Credo che questo ci potrà aiutare a scegliere quando è il momento di guardare lo schermo e quando è il momento invece di guardare in faccia l’altra persona. Questa sfida è grande, perché significa che noi dobbiamo essere uomini all’altezza della connessione. Questo vuol dire non soltanto aver paura degli usi negativi che stanno venendo fuori da alcuni eccessi, ma incominciare a diventare protagonisti, in prima persona, prendere l’iniziativa per provare a trovare forme di vita connessa non solo sostenibili ma addirittura che contribuiscono al bene, che migliorano la vita delle persone. è tutta una sfida ampia che abbiamo di fronte come genitori, come figli, come insegnanti – ciascuno ha il suo posto-, ma credo che sia veramente la sfida più importante: cosa vuol dire la vita buona connessa!




sabato 28 dicembre 2019

UNA FAMIGLIA SANTA

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   - Commento al Vangelo di domenica 29 Dicembre 2019 
– a cura di Paolo Curtaz.

Letture: Siracide 3, 3-7.14-17; Salmo 127; Colossesi 3,12-21; Matteo 2,13-15.19-23

Capaci di sognare
Che poi già riuscire a superare indenni le feste di Natale merita un premio.
E con grande fatica, mettendo insieme i pezzi, come dicevamo, facendo come Maria, preparandoci con ostinazione e cocciutaggine per far argine al delirio compulsivo delle feste, siamo riusciti, spero, ve lo auguro, a fare spazio nel nostro cuore all’accoglienza del Signore che viene.
Poi ecco che, puntuale, arriva la domenica dopo il Natale in cui qualche genio di liturgista propone alla nostra mente, ormai già in fase iperattiva per organizzare l’ultimo giorno dell’anno, di celebrare la festa della Santa Famiglia.
Il momento peggiore dell’anno, direi.
Sia per i contenuti: difficile prendere quella famiglia a modello delle nostre famiglie concrete.
Sia per il tempismo: alcuni fra noi sono reduci da quelle penitenze che a volte diventano i pranzi e le cene in cui ci si obbliga a radunarsi tentando di non far emerge antichi dissapori e alla sola parola “famiglia” hanno una reazione allergica.
Sia per la scelta delle letture: ad un primo ascolto lasciano perplesse, irritano, parlando di padri/padroni che comandano e di mariti che vanno obbediti…
Sia per il contesto sociale in cui stiamo vivendo: entro il 2031, sentenzia l’ISTAT, proseguendo l’attuale trend, in Italia non ci celebreranno più matrimoni in chiesa.
Ma dai, ma che storia è?
Solo che poi, se vogliamo, possiamo prendere tutto molto più sul serio.
Ben Sirach
Siracide propone un panegirico molto schierato, difende a spada tratta il ruolo del padre, il rispetto a lui dovuto, e della madre, del suo diritto ad indirizzare i figli. E tutto odora di stantio, di muffa, e pensiamo a quanti, fra noi, hanno conti in sospeso con i propri genitori, trascinano per decenni questioni irrisolte, incomprensioni, autoritarismi.
E quanti hanno dovuto fare i conti con i sensi di colpa instillati a dovere, alla rabbia repressa, alle preferenze e alle ingiustizie subite a favore di qualche fratello e sorella.
E scatta una ripulsa, come se la Bibbia non facesse che benedire e confermare i peggiori stereotipi del Dio/Patria/Famiglia, costi quel che costi, a prescindere.
Solo che poi uno arriva alla fine del brano.
E capisce.
Parla di padri che si smarriscono. Della vecchiaia che azzera, che fa perdere il senno, che annienta.
E di un atteggiamento che stiamo smarrendo: l’indulgenza.
Cioè il passare sopra davanti all’immagine invecchiata e indebolita dei nostri genitori.
Ora siamo noi ad essere cresciuti. Siamo chiamati a vedere i nostri genitori al di là e al di dentro della loro fragilità. Per ricondurre tutto all’essenziale, là dove la compassione prevale.
Quel maschilista di San Paolo
Ma il peggio deve ancora venire.
Quando si legge l’unico brano di san Paolo che i mariti sanno citare a memoria.
Mogli state sottomesse ai vostri mariti.
E di nuovo proviamo disagio, come se, nuovamente, gli stereotipi sessisti della Chiesa si concentrassero in un’unica frase.
Idioti.
Era normale, nel contesto culturale ebraico, ma anche greco e romano, che le mogli fossero soggette ai maschi di casa. Si era sempre fatto così. E quando Paolo ricorda questo dato non fa che parlare con la voce della società in cui è cresciuto e nato.
Ma lo Spirito gli forza la mano. E aggiunge una frase che stravolge tutto.
Voi mariti amate le vostre mogli.
Come? Prego?
Cosa c’entra l’amore con le mogli?
L’amore è per le cortigiane, per le avventure, le mogli sono per figliare ed educare la prole.
In tutte le culture in cui si trova a vivere san Paolo. L’amore era un lusso riservato ai poeti. In Israele i genitori combinavano i matrimoni quando ancora i futuri sposi erano bambini.
E san Paolo spariglia tutto, senza saperlo.
Matrimonio/amore. Nessuno ci aveva pensato.
Obbedire, allora, ob-audire, ascoltare da adulti, da in piedi, è l’atteggiamento necessario all’amore. Ascoltarsi mantenendo il proprio profilo, nella convinzione di essere due sensibilità diverse che si sommano, non si annullano. Ed è un obbedienza dell’uno verso l’altro, nella coppia, e di entrambi verso il Cristo, il grande amante, il grande amato.
In Egitto
Ma il colpo di grazia arriva dalla cupa lettura del vangelo.
In cui si parla di fuga, di infanticidi, di paura, di migranti clandestini.
Maria e Giuseppe, migranti clandestini.
Che devono fuggire in Egitto per non farsi trovare da Erode, lo sterminatore.
Qui non si parla di liete famiglie devote. Di immagini stereotipate da famiglia radunata attorno all’albero di Natale a tagliare il panettone.
Qui si parla di sopravvivenza. Di lotta contro i mille ostacoli che ogni giorno dobbiamo affrontare. E di come Dio abita questa quotidianità. Di come l’abbia riempita. Di come l’abbia trasfigurata. Qui si parla di capacità di sognare.
Allora perdono il liturgista e lo ringrazio.
Perché ci obbliga a riflettere, scegliendo questa pagina.
La vita è cammino, sopravvivenza, talora. Fuga, in certi momenti.
Ma in questo percorso irrompe il sogno e, nel sogno, la presenza di Dio.
Maria e Giuseppe orientano le loro scelte per proteggere la vita che è stata loro affidata.
E seguono i loro sogni, anche controcorrente.
 Ecco cosa siamo chiamati a fare. Ecco cosa significa diventare famiglia. Santa.




PAPA FRANCESCO E L'ANNO CHE VIENE

Perché il Capodanno non sia vuota euforia

Giuseppe Savagnone

Una sfida
In uno scenario mondiale che, alla vigilia del nuovo anno, vede prevalere ovunque spinte difensive dettate dalla paura, un papa che il 17 dicembre scorso ha compiuto 83 anni è ancora una volta capace di lanciare la sfida del futuro alla sua Chiesa, aprendole nuovi scenari che la costringono a rimettersi in discussione.
È questo il senso del discorso tenuto da Francesco alla Curia romana, carica delle sue contraddizioni e dei suoi veleni, nel quale, col pretesto di porgere gli auguri natalizi, il pontefice ha presentato in realtà la sua visione rivoluzionaria – e finora ben poco compresa – della realtà ecclesiale.
La vita cristiana è un cammino
Alla base di questa visione c’è la convinzione, espressa con incisiva chiarezza, dal grande cardinale Henri Newmann, che «qui sulla terra vivere è cambiare».
Questo dice il papa, è vero anche per il cristianesimo: «La vita cristiana, in realtà, è un cammino, un pellegrinaggio. La storia biblica è tutta un cammino, segnato da avvii e ripartenze; come per Abramo; come per quanti, duemila anni or sono in Galilea, si misero in cammino per seguire Gesù (…). Da allora, la storia del popolo di Dio – la storia della Chiesa – è segnata sempre da partenze, spostamenti, cambiamenti».
Lo scandalo del cambiamento
Troppe volte ci si è stupiti e perfino indignati, in questi ultimi anni, che l’insegnamento, ma prima ancora lo stile pratico, di Francesco fossero molto diversi da quelli dei suoi predecessori.
Troppe volte si sono denunciati i cambiamenti da lui introdotti, fin dalla sera della sua elezione – il suo famoso «buonasera!», il suo sottolineare il proprio ruolo di vescovo di Roma, il suo richiedere ai fedeli di benedirlo a loro volta, come lui benediceva loro – quasi fossero dei tradimenti.
Il continuo confronto col passato ha contrassegnato dal primo momento questo pontificato anche in questioni più sostanziali, come quelle relative alla sfera morale, specialmente sessuale. Si sono contrapposti a questo papa i suoi predecessori, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, additando quest’ultimo come il solo “vero” garante dell’ortodossia ed evocando fantasiosi scenari cospiratori per invalidare le sue dimissioni.
Si deve alla saggezza di Ratzinger se questi deliranti appelli – che avrebbero potuto determinare, se incoraggiati, un disastroso scisma –  hanno avuto in questi anni la sola riposta che meritavano, e cioè il silenzio più assoluto. Una conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, della totale infondatezza della ricostruzione dei fatti da cui muovevano.
Davanti a un cambiamento epocale
A questo coro, spesso sguaiato, di proteste e di accuse, papa Francesco risponde, nel discorso alla Curia che abbiamo citato, invitando ad aprire gli occhi sulla realtà. Se è vero che «quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca», la Chiesa non può non «lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente» e saper «leggere i segni dei tempi con gli occhi della fede, affinché la direzione di questo cambiamento “risvegli nuove e vecchie domande con le quali è giusto e necessario confrontarsi”».
La fedeltà alla Tradizione
E questo proprio per «fedeltà al depositum fidei e alla Tradizione», perché «la tradizione non è statica, è dinamica», non è costituita solo dal passato – sarebbe ridotta ad archeologia! –, ma è il processo incessante per cui esso viene riletto e rivissuto, in modi nuovi, nel presente e proiettato, con la forza dell’inventiva e della creatività, verso il futuro.
Questo non significa svalutare la memoria di ciò che è stato, ma è il modo migliore di garantire la continuità con esso: «Appellarsi alla memoria non vuol dire ancorarsi all’autoconservazione, ma richiamare la vita e la vitalità di un percorso in continuo sviluppo. La memoria non è statica, è dinamica. Implica per sua natura movimento».
La legge del vivente
Ciò che è vivo resta tale solo in questo dinamismo, che esclude ogni staticità e ogni pedissequa ripetitività.
Così è per una pianta, che è identica a se stessa solo se cresce, nutrendosi degli umori della terra e da piccolo seme diventa albero; così è per gli animali, che adulti sembrano del tutto diversi da ciò che erano alla nascita, ma proprio in questo sviluppo si sono veramente conservati e realizzati.
Così è per la Chiesa, che non sarebbe stata fedele a se stessa se fosse rimasta quella del tempo apostolico e meno che mai se si fosse bloccata e irrigidita in una delle tante fasi del suo sviluppo secolare, ma la cui missione nel tendere incessantemente alla pienezza dell’immagine di Cristo che porta in sé e che, di epoca in epoca, si va completando.
Il tempo e lo spazio
A sostegno di questa prospettiva, papa Francesco ribadisce nel suo discorso alla Curia una delle proprie tesi preferite, già espressa fin dall’inizio del su pontificato nell’intervista a «Civiltà Cattolica»: «Noi dobbiamo avviare processi e non occupare spazi: “Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi”».
Una mancata risposta
Colpisce vedere quest’uomo di 83 anni insistere con tanta forza sulla tensione verso il futuro, mentre ci sono giovani preti che rimpiangono l’abito talare e la messa celebrata in latino… Certo, la Chiesa non può essere identificata solo con quella parte di essa che ha resistito con ostinazione a questo appello al cambiamento, bollandolo addirittura come eresia.
E neppure con i tanti che hanno applaudito il papa, ma non hanno mosso un passo per tradurne le indicazioni, ai loro rispettivi livelli – di vescovi, di preti, di semplici laici –, in un effettivo percorso di rinnovamento. Ma è certo che nel complesso essa è sembrata finora essere più spettatrice che protagonista dello sforzo di Francesco per traghettare  il cristianesimo nel nuovo millennio, con tutti i problemi, le difficoltà, le contraddizioni, di una così complessa transizione.
E il motivo è semplice. Non si tratta qui soltanto di “fare” delle cose diverse rispetto al passato. È in gioco un rinnovamento profondo del proprio modo di vedere e di vivere il Vangelo. «Non si tratta ovviamente di cercare il cambiamento per il cambiamento, oppure di seguire le mode (…). Per Newman il cambiamento era conversione, cioè un interiore trasformazione».
Il vero pericolo non è l’islam
Ma a rendere ineludibile l’appello di Francesco, malgrado tutte le chiusure e le resistenze, è la forza della realtà. Ad essa il papa, nel discorso sopracitato, richiama energicamente non solo la Curia romana, ma tutti i cristiani: «Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più!».
E spiega «Non siamo più in un regime di cristianità, perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Il vero pericolo non è, come vorrebbero farci credere i paladini della chiusura delle frontiere, l’invasione dell’islam dall’esterno, ma lo svuotamento dei valori evangelici che si sta consumando all’interno e di cui è una prova, fra l’altro,  proprio l’atmosfera di diffidenza e perfino di odio nei confronti di coloro che secondo il Vangelo costituirebbero «il nostro prossimo».
Nuove logiche per una nuova evangelizzazione
Perciò non si può più, come in passato, «distinguere tra due versanti abbastanza definiti: un mondo cristiano da una parte e un mondo ancora da evangelizzare dall’altra». Il confine ormai passa dentro di noi, nel cuore stesso di coloro che appartengono a Paesi di antica tradizione cattolica, dove il messaggio di Cristo è a volte liquidato o frainteso.
Di fronte a questo rivolgimento epocale, dice Francesco, «c’è bisogno di una nuova evangelizzazione, o rievangelizzazione». E per realizzarla, «abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti».
Sotto questo profilo, non siamo ben messi. Il pontefice cita il Cardinale Martini, le cui parole, nell’ultima intervista a pochi giorni della sua morte, a suo avviso, «devono farci interrogare». «La Chiesa», diceva Martini, «è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. (…) Solo l’amore vince la stanchezza».
Perché il Capodanno non sia vuota euforia
E così l’alternativa è quella di cui parlavamo all’inizio: tra la paura e il coraggio del cambiamento. Un’alternativa che, in modo diverso, riguarda tutti, credenti e non credenti. Perché anche questi ultimi hanno qualcosa da chiedere alla Chiesa e possono sperare in un suo reale rinnovamento.
Siamo alla vigilia del Capodanno. Ancora una volta in tutto il mondo risuoneranno, nei locali, per le strade, nelle case, i festosi auguri di una vita nuova, in po’ più felice. Ma è sufficiente guardarsi dentro per sospettare che dietro questa euforia si nasconda una segreta disperazione. Perché non basta che il tempo scorra, per cambiare. Un giovane papa di 83 anni ci sfida a sperare. Si rivolge alla Curia romana, ma l’invito è rivolto a tutta la sua Chiesa, anzi, più radicalmente, a tutti gli uomini del nostro tempo. Perché cerchino finalmente nel profondo di se stessi  la forza del cambiamento.

www.tuttavia.eu




venerdì 27 dicembre 2019

ADESIONI 2020 - E' GIÀ' ORA DI RINNOVARE IL PROPRIO IMPEGNO PER ESSERE CON, PER ESSERE PER .....

ESSERE E FARE ASSOCIAZIONE,
 UN VALORE DA COLTIVARE
AIMC - 1945-2020: da 75 anni testimoni di valori

Aderire all'AIMC
 per testimoniare concretamente il proprio impegno cristiano, professionale, associativo.

PAPA FRANCESCO ALL'AIMC: " ....Cari fratelli e sorelle, voglio aggiungere una parola sul valore di essere e fare associazione. E’ un valore da non dare per scontato, ma da coltivare sempre...
Vi esorto a rinnovare la volontà di essere e fare associazione nella memoria dei principi ispiratori, nella lettura dei segni dei tempi e con lo sguardo aperto all'orizzonte sociale e culturale. 
L’essere associazione è un valore ed è una responsabilità, che in questo momento è affidata a voi. Con l’aiuto di Dio e dei pastori della Chiesa, siete chiamati a far fruttare questo talento posto nelle vostre mani.
 Vi ringrazio  e benedico di cuore voi, tutta l’associazione e il vostro lavoro".



giovedì 26 dicembre 2019

SCRIVERE E PARLARE BENE IN ITALIANO. UNA GRAMMATICA UMORISTICA

Per ripassare l’italiano divertendosi

Tutti, prima o poi, abbiamo avuto dei dubbi circa le regole della nostra bella lingua. 

Un libro di Francesco Mercadante ci aiuta a risolverli


di Daniela Vellutino*

Sé stesso o se stesso? Perché caporedattori è un plurale diverso da capistazione se entrambi i nomi sono composti dalla parola testa “capo-”? Avere dubbi su come si scrive o si pronuncia correttamente una parola, non essere sicuri sulla formazione del plurale dei nomi e degli aggettivi, esitare sulle concordanze, sulla punteggiatura e sull'ortografia può capitare a tutti. Capita a chi parla e scrive per professione come a chi usa la lingua italiana solo per social
izzazione. Ci sarà sempre una circostanza in cui ci troveremo davanti a una persona con la quale parlare d'affari, d'amore o di qualsiasi altra cosa e ci verranno dubbi sulle parole giuste o sull'accordo sintattico o sull'uso del congiuntivo nelle frasi dipendenti.
Verba volant, penseremo rassicurandoci. A volte è così, fortunatamente. Non volano via, però, i messaggi vocali di Whatsapp, i discorsi trasmessi e registrati in podcast sul web che fa convergere i media o il parlato trascritto durante le intercettazioni telefoniche. Quando poi davanti a noi c'è un foglio e in mano una penna, in assenza di un correttore ortografico, scripta manent. Sono questi i momenti in cui si capisce che la padronanza della lingua italiana è davvero una competenza fondamentale e non scontata solo perché abbiamo frequentato la scuola per tredici anni o ci siamo laureati sostando così nei banchi per diciotto anni o anche più.
Allora, che fare? Riprendere i libri di grammatica delle scuole superiori dimenticati chissà dove se non buttati via dopo l'uso scolastico obbligatorio o venduti come fa Pinocchio nella favola?
Meglio ripassare le regole di grammatica leggendo un libro spassoso come la Grammatica umoristica di Francesco Mercadante, edito da Margana edizioni. Una divertente guida tascabile per riflettere sugli usi corretti della lingua italiana. Un libro da leggere in treno o in bus pensando proprio al fatto che la nostra lingua è in movimento e le sue regole di grammatica devono essere conosciute per essere applicate correttamente; tenendo conto, però, che la lingua subisce ristandardizzazioni per la sua variabilità.
Grammatica umoristica perché Francesco Mercadante ha raccolto esempi di strafalcioni di ministri, manager e blogger per spiegare gli usi corretti della lingua italiana. Svarioni esposti insieme ad aneddoti, miti, citazioni letterarie e pop, frasi scritte sui muri, fotografie di Giò Vacirca. Il tutto narrato con un registro ironico aulico, repleto di aggettivi e avverbi spesso anteposti, che proprio per questo fa ricordare la ricchezza espressiva del nostro patrimonio linguistico.
Tratti linguistici questi che potrebbero mostrare anche l'emergere di una nuova varietà di lingua che sta prendendo forma, che ho denominato Italiano NazionalPOPolare perché è un uso della lingua nazionale che mescola al lessico comune, termini in inglese, parole e espressioni dei dialetti d'origine e della Popular culture (POP), la cultura di massa trasmessa dai media. Francesco Mercadante riporta tanti esempi che mostrano, divertendoci, il difficile rapporto tra noi italiani e la nostra lingua madre. Un rapporto complicato, analizzato in numerosi studi di linguistica che, però, poco fanno notizia e descritto a chiare lettere dai numeri dei rapporti internazionali e nazionali che, invece, fanno notizia proprio perché fotografano l'Italia che si distacca dai Paesi più avanzati.
Hanno fatto notizia gli ultimi dati Ocse–Pisa sulla comprensione di un testo da parte degli studenti italiani quindicenni che non riescono a identificare il messaggio principale di un testo di media lunghezza. Così come gli analoghi risultati delle prove INVALSI, condotte quest'anno fra gli alunni di terza media, che rilevano che solo il 65% ha superato il livello minimo richiesto almeno il livello 3 di comprensione testuale. Vale a dire che «l'allievo/a individua una o più informazioni fornite esplicitamente in una porzione ampia di testo, distinguendole da altre non pertinenti. Ricostruisce il significato di una parte o dell'intero testo ricavando informazioni implicite da elementi testuali (ad esempio punteggiatura o congiunzioni) anche mediante conoscenze ed esperienze personali. Coglie la struttura del testo (ad esempio titoli, capoversi, ripartizioni interne) e la funzione degli elementi che la costituiscono. Conosce e usa parole ed espressioni comuni, anche non legate a situazioni abituali. Conosce e utilizza le forme e le strutture di base della grammatica e la relativa terminologia».
Se questi test fossero somministrati ad un ampio campione di popolazione italiana adulta ne verrebbe fuori un quadro ben più sconfortante. Analfabetismo di ritorno, analfabetismo funzionale rappresentano fenomeni in ascesa, segno tangibile di un deficit culturale che contribuisce non poco ad attestare il ritardo di sviluppo del nostro Paese al pari delle cifre dei deficit economico e demografico.
Forse anche per contribuire ad arginare questo deficit che Francesco Mercadante ha voluto dedicare un po' del suo tempo a registrare e analizzare gli strafalcioni distaccandosi dalle sue quotidiane analisi dei testi del mondo economico e finanziario.
  
* Professoressa di Italiano Istituzionale, Comunicazione Pubblica e Linguaggi Istituzionali, presso l'Università degli Studi di Salerno

IL SOLE 24 ORE





APPREZZARE PIUTTOSTO CHE CRITICARE. L'ARTE DELL'INCORAGGIAMENTO

-  APPREZZARE E VALORIZZARE PER CRESCERE E FAR CRESCERE MEGLIO  -

Se decidiamo di cambiare noi stessi - o di aiutare altri a migliorare- dobbiamo scegliere un approccio, una strada da seguire. Quello che suggeriamo noi è basato sui punti di forza: ciascuno di noi ha dei punti di forza, a volte senza saperlo. Se scegliamo di cambiare utilizzando un approccio basato sui punti di forza, il nostro primo obiettivo (1) sarà quello di scovare questi “talenti nascosti”, mentre il secondo (2) sarà quello di lavorare attivamente su di essi.
Perché proponiamo un approccio basato sui punti di forza invece di correggere le debolezze? Esiste un simpatico esperimento scientifico al riguardo. Nel 1925 (molto tempo prima che si sviluppassero le moderne scuole di pensiero psicologiche e che la didattica venisse affrontata da pedagogisti e filosofi con l’attenzione scientifica che riceve oggi) la ricercatrice Elizabeth Hurlock condusse uno studio su un gruppo di studenti. Lo studio aveva l’obiettivo di spingere questi studenti a migliorare il proprio rendimento scolastico e le performance nei test.
Alcuni tra questi studenti ricevettero degli incoraggiamenti positivi e furono invitati ad impegnarsi per fare sempre meglio, a partire dai propri punti di forza; altri, invece, ricevettero delle critiche riguardo agli errori che avevano commesso nei primi test. Nel 1925 criticare aspramente gli errori degli studenti era la prassi nella maggior parte delle scuole americane e del mondo.
Dallo studio emersero i dati seguenti: tra gli studenti i cui errori erano stati criticati, il 19% migliorò il proprio rendimento nel corso dei test successivi. Un risultato lievemente positivo.
Tra gli studenti che erano stati incoraggiati a far meglio e a lavorare sulle proprie potenzialità, il numero di coloro che riuscirono a migliorare il proprio rendimento fu del 71%! Un risultato sorprendente.
Questo esperimento non è un punto isolato: numerose ricerche – anche negli ultimi anni – hanno confermato che gli approcci basati sui punti di forza sono molto più efficaci di quelli che hanno come obiettivo la correzione dei punti di debolezza.
Ma qual è il segreto di questa scelta? Partire dai punti di forza permette di mettersi alla prova rispettando il senso di autoefficacia e l’autostima: così facendo, agiremo con una forte motivazione di base. Non dobbiamo mai dimenticare che nei processi di apprendimento le emozioni e l’intelligenza emotiva giocano un ruolo fondamentale.
Abbiamo evidenziato l’importanza di lavorare sui punti di forza invece di focalizzarsi sulle debolezze. Tuttavia, qualcuno potrebbe ancora obiettare: perché cambiare? Perché affidarsi all'incertezza e all'imprevisto? La risposta è semplice: il cambiamento è uno degli strumenti migliori per lavorare sui propri punti di forza.
Com'è possibile? Lo chiariamo utilizzando una teoria scientifica, quella della casualità pianificata (formulata nel 1999 dagli psicologi Krumboltz, Mitchell e Levin).
Questa teoria è stata utilizzata con successo in molte grandi aziende americane, generando una piccola rivoluzione nel mondo del counselling professionale e dello sviluppo della carriera. Secondo la teoria della casualità pianificata, l’esplorazione genera eventi casuali che potrebbero rendere migliore la vita degli individui e le loro competenze; questi eventi casuali potrebbero inoltre rendere capaci gli individui di afferrare opportunità altrimenti precluse. Questa teoria è fondamentale per la crescita personale; infatti, ci dice, in parole povere, che dal cambiamento potrebbe nascere qualcosa di buono (che non potremmo ottenere altrimenti) e che tutti noi possiamo farci “esploratori”, ovvero ricercatori del cambiamento. Si tratta di una formulazione scientifica di quella che viene definita “serendipità“.
Quando parliamo di sviluppare i punti di forza, ci riferiamo ad una serie di competenze utili per la vita personale e professionale. Questi punti di forza sono stati definiti in modi diversi nelle diverse epoche dell’uomo: gli antichi greci le chiamavano aretè, i cristiani virtù, alcune teorie psicologiche le hanno poi definite competenze, prima che gli psicologi positivi rispolverassero l’antica concezione di virtù.
Il problema delle virtù/competenze è che non sempre abbiamo a disposizione un percorso lineare per svilupparle; questo è dovuto al fatto che le nostre scuole non “insegnano” l'agire virtuoso direttamente e neppure la società lo fa. Le virtù sono fondamentali per vivere in modo felice e rispettoso, eppure vengono tenute ai margini della società.
La verità è che tutti noi, a livello intuitivo, comprendiamo l’importanza delle virtù, eppure le diamo per scontate. Di solito, rimangono al livello dei “buoni propositi”.
Se vogliamo far sì che le nostre virtù escano da quel limbo mentale e divengano atto, il cambiamento è la strada più semplice ed efficace.

·        Hurlock, E. B. (1925). An Evaluation of Certain Incentives Used in School Work. Journal of Educational Psychology, 16(3), 145-159
·        Laudadio A., Mancuso S., Manuale di psicologia positiva, Franco Angeli, 2015   
           Luigina Mortari, Le virtù a scuola, Cortina, 2014
C        Colasanti, Franta, L'arte dell'incoraggiamento, Cortina, 1991


Da Portale bambini

mercoledì 25 dicembre 2019

NATALE. IL VERO VOLTO DELL'UMANO

 La vera felicità – ci insegna il presepe – sta nello spogliarsi di pretese di autosufficienza, nella grandezza di chi sa inginocchiarsi davanti al Mistero e rialzarsi con uno sguardo più attento a capire la realtà e a spendersi con generosità per renderla migliore per tutti.

di GUALTIERO BASSETTI*

   Natale. Davanti al mistero di questa notte santa, avverto tutta la responsabilità di rivolgermi a voi con una parola che possa raggiungervi personalmente e – se possibile – accompagnarvi per un tratto del vostro cammino. Un cammino spesso non facile. Ho davanti agli occhi le stanchezze e le disillusioni, le incertezze e l’ansietà di tanta gente, provata dalla preoccupazione per il venir meno di un modello di lavoro e di sviluppo e, a un livello ancor più profondo, per la difficoltà a riconoscersi con una propria identità, nell’appartenenza a una famiglia e a una comunità. Ne sono segno la caduta delle nascite, l’invecchiamento demografico del Paese, e la stessa emigrazione di tanti giovani verso l’estero. In un simile contesto, forse anche la voce della Chiesa troppe volte si è fatta flebile, nella fatica a interpretare questa stagione alla luce dell’esperienza e della speranza cristiana.
   «Siamo un popolo di stressati, perché non abbiamo un traguardo, una prospettiva – riconosceva qualche giorno fa Giuseppe De Rita, a margine della presentazione del Rapporto del Censis –. Ci manca il futuro e per questo il presente diventa faticoso, fastidioso». Alla mancanza di prospettive, si aggiunge spesso l’incapacità di un rapporto di fiducia con gli altri. A ben vedere, si tratta di due facce della stessa medaglia, che dice di uno sfilacciamento personale e sociale: lo sguardo miope sulla realtà rende ciascuno attento e sensibile solamente a quelle che sono avvertite come le proprie urgenze personali, che diventano così il principale – se non l’unico – criterio di valutazione e di scelta. In realtà, come osserva Sergio Belardinelli, sappiamo che «la forza di una cultura sta invece nella capacità di relazionarsi continuamente con ciò che è 'altro', senza perdere la consapevolezza della propria identità; nella capacità di tendersi il più possibile verso l’altro, senza spezzare i legami che si hanno con se stessi, con la propria storia e la propria tradizione». 
    Identità, cultura, relazioni, appartenenza. Per non fermarci alla retorica e dare contenuto e orizzonte a queste parole, torniamo a Betlemme, riprendiamo i sentieri che conducono alla Natività. Al nostro cuore inquieto, il Bambino Gesù offre come risposta la sua persona, la relazione con Lui, da cui nasce il volto umano di ciò che siamo, la possibilità di vivere l’esistenza quotidiana in modo nuovo. Davanti all’umiltà del presepe cadono violenza e inganno, odi e calunnie; si avverte la ricchezza di conoscersi meglio per arrivare a guardarsi in modo diverso e tendere a formare comunità. La storia del Natale di Gesù ci insegna a conservare, anche nei momenti più difficili, la fiducia e il coraggio. Fiducia e coraggio con cui guardare la storia dalla parte di chi la soffre davvero; a farlo – come suggeriva papa Francesco nell’omelia natalizia di un paio d’anni fa – con gli occhi di Maria e di Giuseppe: «Il Figlio di Dio dovette nascere in una stalla perché i suoi non avevano spazio per Lui.
     In mezzo all’oscurità di una città che non ha spazio né posto per il forestiero che viene da lontano, in mezzo all’oscurità di una città in pieno movimento e che in questo caso sembrerebbe volersi costruire voltando le spalle agli altri, proprio lì si accende la scintilla rivoluzionaria della tenerezza di Dio».
    Pensiamoci. Le chiusure e le contrapposizioni, oltre che sterili, finiscono per togliere l’aria a tutti.      Il subbuglio del mondo non è una tragedia, ma qualche cosa che mormora dentro, che cerca di richiamare la nostra attenzione, la reclama. Non disertiamo le responsabilità che la vita ci ha affidato; torniamo a fare con passione e competenza la nostra parte, sapendo che ricostruire un tessuto identitario e comunitario non è opera che s’improvvisa.
    La vera felicità – ci insegna il presepe – sta nello spogliarsi di pretese di autosufficienza, nella grandezza di chi sa inginocchiarsi davanti al Mistero e rialzarsi con uno sguardo più attento a capire la realtà e a spendersi con generosità per renderla migliore per tutti. Buon Natale a ciascuno di voi.

*Gualtiero Bassetti
Cardinale Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Conferenza episcopale







lunedì 23 dicembre 2019

E' NATALE. ANDIAMO A BETLEMME! AUGURI A VOI TUTTI !


«Andiamo dunque fino a Betlemme» (Lc 2,15): così dissero e fecero i pastori. 

Pure noi, Signore, vogliamo venire a Betlemme. 
Voglio arrivare a Betlemme, Signore, perché è lì che mi attendi. E accorgermi che Tu, deposto in una mangiatoia, sei il pane della mia vita
Ho bisogno della fragranza tenera del tuo amore per essere, a mia volta, pane spezzato per il mondo. 
Prendimi sulle tue spalle, buon Pastore: da Te amato, potrò anch’io amare e prendere per mano i fratelli. 
Allora sarà Natale, quando potrò dirti: “Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo” (cfr Gv 21,17).
Papa Francesco

"Andiamo fino a Betlem, come i pastori. L'importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso.
Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi dell'onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l'amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.
Mettiamoci in cammino, senza paura. Il Natale di quest'anno ci farà trovare Gesù e, con lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell'essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell'impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.
Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte, e illuminato di stelle.
E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza" 
+ Tonino Bello.

AUGURIAMO A VOI TUTTI E FAMILIARI 
UN SANTO NATALE!




sabato 21 dicembre 2019

GIUSEPPE, IL GIUSTO -

Dal Vangelo secondo Matteo 
  Mt 1, 18-24 
Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

Commento al Vangelo 

p. Paolo Curtaz

Sono due le annunciazioni presenti nei Vangeli: una a Maria e l’altra a Giuseppe.
Dio parla ad una coppia, non ad un singolo.
Ma lo fa rispettando le diverse sensibilità, al maschile e al femminile. Perché l’esperienza di fede sempre parte dalla concretezza delle nostre esperienze e dei nostri percorsi.
L’angelo è lo stesso, ma il modo, il linguaggio e le modalità che usa sono diverse.
Dio sempre ci viene incontro.
E rispetta la nostra straordinaria singolarità.
Parla col linguaggio che sappiamo intendere.
Si fa breccia fra i nostri pensieri, i nostri affanni, le nostre paure.
Come quando non chiudiamo occhio perché è successo qualcosa che ci ha destabilizzato.
E tutta la nostra vita viene ribaltata da un evento imprevisto. O come quando di colpo ci troviamo davanti ad evidenze che smascherano una persona di cui ci siamo fidati, che abbiamo amata.
Non ditelo a Giuseppe.  
Tormenti
È discreto, Matteo.
Lascia solo intendere il tormento che impedisce a Giuseppe di chiudere occhio.
Ha saputo in qualche modo che la sua promessa sposa, aspetta un figlio. Disdicevole, certo, ma, insomma, poteva anche accadere. Solo che Giuseppe è l’unico a sapere che quel figlio non è suo. E che, per ottemperare alla Legge, deve denunciare Maria al rabbino. In origine donne come quelle dovevano essere lapidate.
Non chiude occhio, il povero Giuseppe.
Non si capacita dell’accaduto. Pensava di conoscere bene i sentimenti di Maria. Che idiota.
Ma bisogna fare una scelta, mettere da parte le proprie emozioni, agire.
È giusto, Giuseppe.
Non giudica secondo le apparenze. Non lascia parlare la sua rabbia e il suo orgoglio di maschio ferito.
Grande.

Giustizia
Non voleva accusarla pubblicamente.
Non vuole vendicarsi, non vuole umiliare Maria, non vuole rovinarle la vita. Escogita una soluzione: dirà che si è stancato di lei, eserciterà il potere sessista di cacciare una fidanzata o una moglie, pratica che suo figlio condannerà pubblicamente.
Maria avrà salvo un po’ di onore anche se lui, Giuseppe, passerà per una persona inaffidabile.
Quanta delicatezza in quel gesto! Quanto amore! Quanta eleganza!
Il nostro mondo sbraita, urla, accusa, trova nemici ovunque.
Giuseppe, che è giusto, sa che esiste in ogni persona una parte pubblica, evidente, ed una intima, fragile. E fa la sua scelta, pagandone le conseguenze sulla sua pelle.
Accogliendo ancora Dio in questo Natale, impariamo da Giuseppe ad essere giusti, senza giudicare secondo le apparenze.

In sogno
Mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo.
Ora che ha deciso prende sonno. E fa uno strano sogno.
Nella Bibbia i sogni sono spesso portatori di notizie, teofanie private che illuminano le scelte.
Ma vi prego di notare la sequenza.
Prima decide. Poi arriva il sogno.
Il Dio adulto non forza la mano, non fa giochi di prestigio per spingerci.
Siamo drammaticamente e magnificamente liberi.
Abbiamo tutti gli strumenti per vivere secondo giustizia. Sappiamo cosa fare. Sempre.
Proviamo a vivere considerando le cose. Lasciandole illuminare dalla Parola.
E, come Giuseppe, ritroviamo il coraggio di sognare.

Prendi con te
Non temere di prendere con te Maria.
Fa paura prendere con sé qualcuno. Anche quando lo si ama.
Paura di non essere in grado. Paura di perdere la propria libertà. Paura di restare fregati.
Superiamo la paura.
L’altro è sempre mistero. L’altro è sempre portatore di novità.
Anche quello strano altro che è il Dio che viene.
 Si desta dal sonno Giuseppe.
Smette di ronfare. Si attiva, si sveglia.
Contro ogni logica prende con sé quella sposa portatrice di Dio.
E la sua vita cambia, fiorisce.

Averne
Aveva certamente dei progetti, il buon Giuseppe: un laboratorio più grande, una casa spaziosa, dei figli cui insegnare l’uso della pialla e dello scalpello. Non aveva grandi pretese, questo figlio di Israele, un piccolo sogno da vivere con una piccola sposa. Ma Dio ha bisogno della sua  mitezza e della sua forza, sarà padre di un figlio non suo, amerà una donna silenziosamente, come chi prende in casa l’Assoluto di Dio.
Giuseppe accetta, si mette da parte, rinuncia al suo sogno per realizzare il sogno di Dio e dell’umanità.
Giuseppe è il patrono silenzioso di chi aveva dei progetti ed ha accettato che la vita glieli sconvolgesse.
Dio ha bisogno di uomini così. Di credenti così.
Pochi giorni al Natale, Giuseppe, dal silenzio in cui è rimasto, custode e tutore della santa famiglia, veglia su di noi e ci chiede di imitare la sua grandezza. Ad avere fiducia.
In questo tempo claudicante che spegne la fede, che alza i doni, che sfoga la rabbia, lo stile di Giuseppe è una chiara indicazione per poter far nascere Gesù in noi.
Giustizia e capacità di sognare.
Di persone che non giudicano secondo l’apparenza e di sognatori ha bisogno il mondo, e la Chiesa.
Averne.