Perché il Capodanno non sia vuota euforia
Giuseppe Savagnone
Una
sfida
In uno
scenario mondiale che, alla vigilia del nuovo anno, vede prevalere ovunque
spinte difensive dettate dalla paura, un papa che il 17 dicembre scorso ha
compiuto 83 anni è ancora una volta capace di lanciare la sfida del futuro alla
sua Chiesa, aprendole nuovi scenari che la costringono a rimettersi in
discussione.
È questo
il senso del discorso tenuto da Francesco alla Curia romana, carica delle sue
contraddizioni e dei suoi veleni, nel quale, col pretesto di porgere gli auguri
natalizi, il pontefice ha presentato in realtà la sua visione rivoluzionaria –
e finora ben poco compresa – della realtà ecclesiale.
La vita
cristiana è un cammino
Alla
base di questa visione c’è la convinzione, espressa con incisiva chiarezza, dal
grande cardinale Henri Newmann, che «qui sulla terra vivere è cambiare».
Questo
dice il papa, è vero anche per il cristianesimo: «La vita cristiana, in realtà,
è un cammino, un pellegrinaggio. La storia biblica è tutta un cammino, segnato
da avvii e ripartenze; come per Abramo; come per quanti, duemila anni or sono
in Galilea, si misero in cammino per seguire Gesù (…). Da allora, la storia del
popolo di Dio – la storia della Chiesa – è segnata sempre da partenze,
spostamenti, cambiamenti».
Lo
scandalo del cambiamento
Troppe
volte ci si è stupiti e perfino indignati, in questi ultimi anni, che
l’insegnamento, ma prima ancora lo stile pratico, di Francesco fossero molto
diversi da quelli dei suoi predecessori.
Troppe
volte si sono denunciati i cambiamenti da lui introdotti, fin dalla sera della
sua elezione – il suo famoso «buonasera!», il suo sottolineare il proprio ruolo
di vescovo di Roma, il suo richiedere ai fedeli di benedirlo a loro volta, come
lui benediceva loro – quasi fossero dei tradimenti.
Il
continuo confronto col passato ha contrassegnato dal primo momento questo pontificato
anche in questioni più sostanziali, come quelle relative alla sfera morale,
specialmente sessuale. Si sono contrapposti a questo papa i suoi predecessori,
Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, additando quest’ultimo come il solo “vero”
garante dell’ortodossia ed evocando fantasiosi scenari cospiratori per
invalidare le sue dimissioni.
Si deve
alla saggezza di Ratzinger se questi deliranti appelli – che avrebbero potuto
determinare, se incoraggiati, un disastroso scisma – hanno avuto in questi anni la sola riposta
che meritavano, e cioè il silenzio più assoluto. Una conferma, se mai ce ne
fosse stato bisogno, della totale infondatezza della ricostruzione dei fatti da
cui muovevano.
Davanti
a un cambiamento epocale
A questo
coro, spesso sguaiato, di proteste e di accuse, papa Francesco risponde, nel
discorso alla Curia che abbiamo citato, invitando ad aprire gli occhi sulla
realtà. Se è vero che «quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca
di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca», la Chiesa non può non «lasciarsi
interrogare dalle sfide del tempo presente» e saper «leggere i segni dei tempi
con gli occhi della fede, affinché la direzione di questo cambiamento “risvegli
nuove e vecchie domande con le quali è giusto e necessario confrontarsi”».
La
fedeltà alla Tradizione
E questo
proprio per «fedeltà al depositum fidei e alla Tradizione», perché «la
tradizione non è statica, è dinamica», non è costituita solo dal passato –
sarebbe ridotta ad archeologia! –, ma è il processo incessante per cui esso
viene riletto e rivissuto, in modi nuovi, nel presente e proiettato, con la
forza dell’inventiva e della creatività, verso il futuro.
Questo
non significa svalutare la memoria di ciò che è stato, ma è il modo migliore di
garantire la continuità con esso: «Appellarsi alla memoria non vuol dire
ancorarsi all’autoconservazione, ma richiamare la vita e la vitalità di un
percorso in continuo sviluppo. La memoria non è statica, è dinamica. Implica
per sua natura movimento».
La legge
del vivente
Ciò che
è vivo resta tale solo in questo dinamismo, che esclude ogni staticità e ogni
pedissequa ripetitività.
Così è
per una pianta, che è identica a se stessa solo se cresce, nutrendosi degli
umori della terra e da piccolo seme diventa albero; così è per gli animali, che
adulti sembrano del tutto diversi da ciò che erano alla nascita, ma proprio in
questo sviluppo si sono veramente conservati e realizzati.
Così è
per la Chiesa, che non sarebbe stata fedele a se stessa se fosse rimasta quella
del tempo apostolico e meno che mai se si fosse bloccata e irrigidita in una
delle tante fasi del suo sviluppo secolare, ma la cui missione nel tendere
incessantemente alla pienezza dell’immagine di Cristo che porta in sé e che, di
epoca in epoca, si va completando.
Il tempo
e lo spazio
A
sostegno di questa prospettiva, papa Francesco ribadisce nel suo discorso alla
Curia una delle proprie tesi preferite, già espressa fin dall’inizio del su
pontificato nell’intervista a «Civiltà Cattolica»: «Noi dobbiamo avviare
processi e non occupare spazi: “Dio si manifesta in una rivelazione storica,
nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova
nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere
rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi”».
Una
mancata risposta
Colpisce
vedere quest’uomo di 83 anni insistere con tanta forza sulla tensione verso il
futuro, mentre ci sono giovani preti che rimpiangono l’abito talare e la messa
celebrata in latino… Certo, la Chiesa non può essere identificata solo con
quella parte di essa che ha resistito con ostinazione a questo appello al
cambiamento, bollandolo addirittura come eresia.
E
neppure con i tanti che hanno applaudito il papa, ma non hanno mosso un passo
per tradurne le indicazioni, ai loro rispettivi livelli – di vescovi, di preti,
di semplici laici –, in un effettivo percorso di rinnovamento. Ma è certo che
nel complesso essa è sembrata finora essere più spettatrice che protagonista
dello sforzo di Francesco per traghettare
il cristianesimo nel nuovo millennio, con tutti i problemi, le
difficoltà, le contraddizioni, di una così complessa transizione.
E il
motivo è semplice. Non si tratta qui soltanto di “fare” delle cose diverse
rispetto al passato. È in gioco un rinnovamento profondo del proprio modo di
vedere e di vivere il Vangelo. «Non si tratta ovviamente di cercare il
cambiamento per il cambiamento, oppure di seguire le mode (…). Per Newman il
cambiamento era conversione, cioè un interiore trasformazione».
Il vero
pericolo non è l’islam
Ma a
rendere ineludibile l’appello di Francesco, malgrado tutte le chiusure e le
resistenze, è la forza della realtà. Ad essa il papa, nel discorso sopracitato,
richiama energicamente non solo la Curia romana, ma tutti i cristiani:
«Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più!».
E spiega
«Non siamo più in un regime di cristianità, perché la fede – specialmente in
Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un
presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa,
emarginata e ridicolizzata». Il vero pericolo non è, come vorrebbero farci
credere i paladini della chiusura delle frontiere, l’invasione dell’islam
dall’esterno, ma lo svuotamento dei valori evangelici che si sta consumando
all’interno e di cui è una prova, fra l’altro,
proprio l’atmosfera di diffidenza e perfino di odio nei confronti di
coloro che secondo il Vangelo costituirebbero «il nostro prossimo».
Nuove
logiche per una nuova evangelizzazione
Perciò
non si può più, come in passato, «distinguere tra due versanti abbastanza
definiti: un mondo cristiano da una parte e un mondo ancora da evangelizzare
dall’altra». Il confine ormai passa dentro di noi, nel cuore stesso di coloro
che appartengono a Paesi di antica tradizione cattolica, dove il messaggio di
Cristo è a volte liquidato o frainteso.
Di
fronte a questo rivolgimento epocale, dice Francesco, «c’è bisogno di una nuova
evangelizzazione, o rievangelizzazione». E per realizzarla, «abbiamo bisogno di
altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi
di pensare e i nostri atteggiamenti».
Sotto
questo profilo, non siamo ben messi. Il pontefice cita il Cardinale Martini, le
cui parole, nell’ultima intervista a pochi giorni della sua morte, a suo
avviso, «devono farci interrogare». «La Chiesa», diceva Martini, «è rimasta
indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece
di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la
fiducia, il coraggio. (…) Solo l’amore vince la stanchezza».
Perché
il Capodanno non sia vuota euforia
E così
l’alternativa è quella di cui parlavamo all’inizio: tra la paura e il coraggio
del cambiamento. Un’alternativa che, in modo diverso, riguarda tutti, credenti
e non credenti. Perché anche questi ultimi hanno qualcosa da chiedere alla
Chiesa e possono sperare in un suo reale rinnovamento.
Siamo
alla vigilia del Capodanno. Ancora una volta in tutto il mondo risuoneranno,
nei locali, per le strade, nelle case, i festosi auguri di una vita nuova, in
po’ più felice. Ma è sufficiente guardarsi dentro per sospettare che dietro questa
euforia si nasconda una segreta disperazione. Perché non basta che il tempo
scorra, per cambiare. Un giovane papa di 83 anni ci sfida a sperare. Si rivolge
alla Curia romana, ma l’invito è rivolto a tutta la sua Chiesa, anzi, più
radicalmente, a tutti gli uomini del nostro tempo. Perché cerchino finalmente
nel profondo di se stessi la forza del
cambiamento.
www.tuttavia.eu
Leggi. DISCORSO ALLA CURIA
Nessun commento:
Posta un commento