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sabato 28 dicembre 2019

UNA FAMIGLIA SANTA

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   - Commento al Vangelo di domenica 29 Dicembre 2019 
– a cura di Paolo Curtaz.

Letture: Siracide 3, 3-7.14-17; Salmo 127; Colossesi 3,12-21; Matteo 2,13-15.19-23

Capaci di sognare
Che poi già riuscire a superare indenni le feste di Natale merita un premio.
E con grande fatica, mettendo insieme i pezzi, come dicevamo, facendo come Maria, preparandoci con ostinazione e cocciutaggine per far argine al delirio compulsivo delle feste, siamo riusciti, spero, ve lo auguro, a fare spazio nel nostro cuore all’accoglienza del Signore che viene.
Poi ecco che, puntuale, arriva la domenica dopo il Natale in cui qualche genio di liturgista propone alla nostra mente, ormai già in fase iperattiva per organizzare l’ultimo giorno dell’anno, di celebrare la festa della Santa Famiglia.
Il momento peggiore dell’anno, direi.
Sia per i contenuti: difficile prendere quella famiglia a modello delle nostre famiglie concrete.
Sia per il tempismo: alcuni fra noi sono reduci da quelle penitenze che a volte diventano i pranzi e le cene in cui ci si obbliga a radunarsi tentando di non far emerge antichi dissapori e alla sola parola “famiglia” hanno una reazione allergica.
Sia per la scelta delle letture: ad un primo ascolto lasciano perplesse, irritano, parlando di padri/padroni che comandano e di mariti che vanno obbediti…
Sia per il contesto sociale in cui stiamo vivendo: entro il 2031, sentenzia l’ISTAT, proseguendo l’attuale trend, in Italia non ci celebreranno più matrimoni in chiesa.
Ma dai, ma che storia è?
Solo che poi, se vogliamo, possiamo prendere tutto molto più sul serio.
Ben Sirach
Siracide propone un panegirico molto schierato, difende a spada tratta il ruolo del padre, il rispetto a lui dovuto, e della madre, del suo diritto ad indirizzare i figli. E tutto odora di stantio, di muffa, e pensiamo a quanti, fra noi, hanno conti in sospeso con i propri genitori, trascinano per decenni questioni irrisolte, incomprensioni, autoritarismi.
E quanti hanno dovuto fare i conti con i sensi di colpa instillati a dovere, alla rabbia repressa, alle preferenze e alle ingiustizie subite a favore di qualche fratello e sorella.
E scatta una ripulsa, come se la Bibbia non facesse che benedire e confermare i peggiori stereotipi del Dio/Patria/Famiglia, costi quel che costi, a prescindere.
Solo che poi uno arriva alla fine del brano.
E capisce.
Parla di padri che si smarriscono. Della vecchiaia che azzera, che fa perdere il senno, che annienta.
E di un atteggiamento che stiamo smarrendo: l’indulgenza.
Cioè il passare sopra davanti all’immagine invecchiata e indebolita dei nostri genitori.
Ora siamo noi ad essere cresciuti. Siamo chiamati a vedere i nostri genitori al di là e al di dentro della loro fragilità. Per ricondurre tutto all’essenziale, là dove la compassione prevale.
Quel maschilista di San Paolo
Ma il peggio deve ancora venire.
Quando si legge l’unico brano di san Paolo che i mariti sanno citare a memoria.
Mogli state sottomesse ai vostri mariti.
E di nuovo proviamo disagio, come se, nuovamente, gli stereotipi sessisti della Chiesa si concentrassero in un’unica frase.
Idioti.
Era normale, nel contesto culturale ebraico, ma anche greco e romano, che le mogli fossero soggette ai maschi di casa. Si era sempre fatto così. E quando Paolo ricorda questo dato non fa che parlare con la voce della società in cui è cresciuto e nato.
Ma lo Spirito gli forza la mano. E aggiunge una frase che stravolge tutto.
Voi mariti amate le vostre mogli.
Come? Prego?
Cosa c’entra l’amore con le mogli?
L’amore è per le cortigiane, per le avventure, le mogli sono per figliare ed educare la prole.
In tutte le culture in cui si trova a vivere san Paolo. L’amore era un lusso riservato ai poeti. In Israele i genitori combinavano i matrimoni quando ancora i futuri sposi erano bambini.
E san Paolo spariglia tutto, senza saperlo.
Matrimonio/amore. Nessuno ci aveva pensato.
Obbedire, allora, ob-audire, ascoltare da adulti, da in piedi, è l’atteggiamento necessario all’amore. Ascoltarsi mantenendo il proprio profilo, nella convinzione di essere due sensibilità diverse che si sommano, non si annullano. Ed è un obbedienza dell’uno verso l’altro, nella coppia, e di entrambi verso il Cristo, il grande amante, il grande amato.
In Egitto
Ma il colpo di grazia arriva dalla cupa lettura del vangelo.
In cui si parla di fuga, di infanticidi, di paura, di migranti clandestini.
Maria e Giuseppe, migranti clandestini.
Che devono fuggire in Egitto per non farsi trovare da Erode, lo sterminatore.
Qui non si parla di liete famiglie devote. Di immagini stereotipate da famiglia radunata attorno all’albero di Natale a tagliare il panettone.
Qui si parla di sopravvivenza. Di lotta contro i mille ostacoli che ogni giorno dobbiamo affrontare. E di come Dio abita questa quotidianità. Di come l’abbia riempita. Di come l’abbia trasfigurata. Qui si parla di capacità di sognare.
Allora perdono il liturgista e lo ringrazio.
Perché ci obbliga a riflettere, scegliendo questa pagina.
La vita è cammino, sopravvivenza, talora. Fuga, in certi momenti.
Ma in questo percorso irrompe il sogno e, nel sogno, la presenza di Dio.
Maria e Giuseppe orientano le loro scelte per proteggere la vita che è stata loro affidata.
E seguono i loro sogni, anche controcorrente.
 Ecco cosa siamo chiamati a fare. Ecco cosa significa diventare famiglia. Santa.




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