-
- Commento al Vangelo di domenica
29 Dicembre 2019
– a cura di Paolo Curtaz.
Letture: Siracide 3,
3-7.14-17; Salmo 127; Colossesi 3,12-21; Matteo 2,13-15.19-23
Capaci di
sognare
Che
poi già riuscire a superare indenni le feste di Natale merita un premio.
E
con grande fatica, mettendo insieme i pezzi, come dicevamo, facendo come Maria,
preparandoci con ostinazione e cocciutaggine per far argine al delirio
compulsivo delle feste, siamo riusciti, spero, ve lo auguro, a fare spazio nel
nostro cuore all’accoglienza del Signore che viene.
Poi
ecco che, puntuale, arriva la domenica dopo il Natale in cui qualche genio di
liturgista propone alla nostra mente, ormai già in fase iperattiva per
organizzare l’ultimo giorno dell’anno, di celebrare la festa della Santa
Famiglia.
Il
momento peggiore dell’anno, direi.
Sia
per i contenuti: difficile prendere quella famiglia a modello delle nostre
famiglie concrete.
Sia
per il tempismo: alcuni fra noi sono reduci da quelle penitenze che a volte
diventano i pranzi e le cene in cui ci si obbliga a radunarsi tentando di non
far emerge antichi dissapori e alla sola parola “famiglia” hanno una reazione
allergica.
Sia
per la scelta delle letture: ad un primo ascolto lasciano perplesse, irritano,
parlando di padri/padroni che comandano e di mariti che vanno obbediti…
Sia
per il contesto sociale in cui stiamo vivendo: entro il 2031, sentenzia
l’ISTAT, proseguendo l’attuale trend, in Italia non ci celebreranno
più matrimoni in chiesa.
Ma
dai, ma che storia è?
Solo
che poi, se vogliamo, possiamo prendere tutto molto più sul serio.
Ben
Sirach
Siracide
propone un panegirico molto schierato, difende a spada tratta il ruolo del
padre, il rispetto a lui dovuto, e della madre, del suo diritto ad indirizzare
i figli. E tutto odora di stantio, di muffa, e pensiamo a quanti, fra noi,
hanno conti in sospeso con i propri genitori, trascinano per decenni questioni
irrisolte, incomprensioni, autoritarismi.
E
quanti hanno dovuto fare i conti con i sensi di colpa instillati a dovere, alla
rabbia repressa, alle preferenze e alle ingiustizie subite a favore di qualche
fratello e sorella.
E
scatta una ripulsa, come se la Bibbia non facesse che benedire e confermare i
peggiori stereotipi del Dio/Patria/Famiglia, costi quel che costi, a
prescindere.
Solo
che poi uno arriva alla fine del brano.
E
capisce.
Parla
di padri che si smarriscono. Della vecchiaia che azzera, che fa perdere il
senno, che annienta.
E
di un atteggiamento che stiamo smarrendo: l’indulgenza.
Cioè
il passare sopra davanti all’immagine invecchiata e indebolita dei nostri
genitori.
Ora
siamo noi ad essere cresciuti. Siamo chiamati a vedere i nostri genitori al di
là e al di dentro della loro fragilità. Per ricondurre tutto all’essenziale, là
dove la compassione prevale.
Quel
maschilista di San Paolo
Ma
il peggio deve ancora venire.
Quando
si legge l’unico brano di san Paolo che i mariti sanno citare a memoria.
Mogli
state sottomesse ai vostri mariti.
E
di nuovo proviamo disagio, come se, nuovamente, gli stereotipi sessisti della
Chiesa si concentrassero in un’unica frase.
Idioti.
Era
normale, nel contesto culturale ebraico, ma anche greco e romano, che le mogli
fossero soggette ai maschi di casa. Si era sempre fatto così. E quando Paolo
ricorda questo dato non fa che parlare con la voce della società in cui è
cresciuto e nato.
Ma
lo Spirito gli forza la mano. E aggiunge una frase che stravolge tutto.
Voi
mariti amate le vostre mogli.
Come?
Prego?
Cosa
c’entra l’amore con le mogli?
L’amore
è per le cortigiane, per le avventure, le mogli sono per figliare ed educare la
prole.
In
tutte le culture in cui si trova a vivere san Paolo. L’amore era un lusso
riservato ai poeti. In Israele i genitori combinavano i matrimoni quando ancora
i futuri sposi erano bambini.
E
san Paolo spariglia tutto, senza saperlo.
Matrimonio/amore.
Nessuno ci aveva pensato.
Obbedire,
allora, ob-audire, ascoltare da adulti, da in piedi, è
l’atteggiamento necessario all’amore. Ascoltarsi mantenendo il proprio profilo,
nella convinzione di essere due sensibilità diverse che si sommano, non si
annullano. Ed è un obbedienza dell’uno verso l’altro, nella coppia, e di
entrambi verso il Cristo, il grande amante, il grande amato.
In
Egitto
Ma
il colpo di grazia arriva dalla cupa lettura del vangelo.
In
cui si parla di fuga, di infanticidi, di paura, di migranti clandestini.
Maria
e Giuseppe, migranti clandestini.
Che
devono fuggire in Egitto per non farsi trovare da Erode, lo sterminatore.
Qui
non si parla di liete famiglie devote. Di immagini stereotipate da famiglia
radunata attorno all’albero di Natale a tagliare il panettone.
Qui
si parla di sopravvivenza. Di lotta contro i mille ostacoli che ogni giorno
dobbiamo affrontare. E di come Dio abita questa quotidianità. Di come l’abbia
riempita. Di come l’abbia trasfigurata. Qui si parla di capacità di sognare.
Allora
perdono il liturgista e lo ringrazio.
Perché
ci obbliga a riflettere, scegliendo questa pagina.
La
vita è cammino, sopravvivenza, talora. Fuga, in certi momenti.
Ma
in questo percorso irrompe il sogno e, nel sogno, la presenza di Dio.
Maria
e Giuseppe orientano le loro scelte per proteggere la vita che è stata loro
affidata.
E
seguono i loro sogni, anche controcorrente.
Ecco cosa siamo chiamati a fare. Ecco cosa
significa diventare famiglia. Santa.
Nessun commento:
Posta un commento