sabato 26 maggio 2018

LA BELLEZZA ... COS'È'? DOV'È'?

È la verità a rendere sacra la bellezza 

In origine la bellezza era un’esperienza religiosa, non estetica


Professor Givone [docente di Estetica all’Università degli Studi di Firenze], cosa vuol dire parlare della bellezza e di una sua natura in un mondo tanto estetizzato? In che senso si può dire attuale questo tema?
          «Sarei tentato di rispondere con una battuta: questo tema è attuale proprio perché inattuale. Mi spiego. Oggi il concetto di bello appare terribilmente inflazionato. Qualsiasi cosa facciamo, la facciamo in nome del bello. Solo ciò che è bello (non ciò che è utile) è degno di essere comprato, solo chi è bello (non chi è bravo) è degno di essere ammirato: ecco la nuova fede condivisa, ammesso che la si possa chiamare così. Infatti non ci crediamo.
          Eppure continuiamo a lasciarci abbagliare dal bello, come se ci credessimo. Insomma, ci riempiamo gli occhi e la bocca di una parola di cui abbiamo completamente perso di vista il significato. La prima cosa da fare allora è interrogarsi su questo stato di cose. Chiedendosi per esempio: il bello è inganno, seduzione, o non piuttosto qualche cos'altro? Magari qualcosa che un tempo illuminava le nostre vite e oggi invece le oscura?».
  
Sin dalle prime testimonianze della civiltà assistiamo a una tensione umana verso la bellezza. Come la storia del pensiero ha interpretato il significato e le radici del bello?
          «In origine il bello era un’esperienza religiosa, non un’esperienza estetica. Aveva a che fare con la realtà, non con l’apparenza. Si presentava come un’illuminazione, una rivelazione, una vera e propria teofania, tanto che verità e bellezza erano tutt’uno. Noi facciamo fatica a ricuperare quello sguardo alto e quella sensibilità. Ma se siamo pronti a riconoscere che il bello è seducente e ingannevole, non possiamo non ammettere che bellezza e verità sono indissolubilmente legate. Come potrebbe ingannarci, la bellezza, se non fosse in rapporto con la verità a un livello più profondo?».
  
Dall’epoca moderna è stato stravolto il paradigma armonioso di bellezza, in cosa si è caratterizzata questa rivoluzione di pensiero? Quali sono state le conseguenze più importanti anche sulla nostra percezione contemporanea di bellezza?
        «È accaduto in epoca romantica che una nuova categoria facesse irruzione nel mondo del pensiero e ne stravolgesse tutti i paradigmi. Questa nuova categoria è l’infinito. Il bello ha cessato di colpo di essere definito in termini di armonia, proporzione, perfezione - tutti termini che rimandano a qualcosa di compiuto e finito - ed è stato identificato con l’ineffabile, con la dismisura, con il terribile (“Il bello non è che l’inizio del terribile”, dirà Rilke). Tanto che il bello lascerà il campo a forme di esperienza estetica che ne prescindono o lo mettono da parte. Il dibattito sul bello e sul sublime, fra Sette e Ottocento, è il primo passo va verso il superamento del bello. Che è poi dimenticanza di ciò che il bello è veramente».
  
Nella crisi d’identità della società contemporanea e di fronte a espressioni artistiche avanguardistiche si parla spesso di un’impossibilità artistica nell’offrire bellezza al pubblico. È vero? Qual è il significato profondo di questa nuova stagione che stiamo vivendo?
        «Ecco, io non credo a questa supposta impossibilità da parte dell’arte contemporanea di offrirci bellezza. Credo invece che, avendo noi dimenticato che cosa sia il bello, ed essendoci piegati a un uso anzi un abuso del bello per finalità puramente economiche, bene faccia l’arte a ripudiare questa caricatura di bellezza.
        Come per tacito accordo (ma non sarà un patto scellerato?) sembra che a tutti stia bene che il bello serva a vendere meglio le merci di ogni tipo e a consumare il consumabile. È rimasta l’arte a opporsi alla bellezza, questa bellezza maledetta, tanto da metterne al bando perfino il nome. Qui sì io vedo un gesto necessario, ma necessario come lo è il bisogno di purificazione. Non è detto che attraverso questa specie di ascesi l’arte non ritrovi alla fine il senso profondo di ciò da cui si è sentita tradita» [...].

 Gabriele Laffranchi

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