L’eloquenza dei gesti linguaggio senza filtri
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di SALVATORE MAZZA
Igesti,
si sa, possono dire più di mille parole. E i gesti che facciamo in qualche modo
ci identificano. Il nostro corpo sa parlare, e talvolta contraddice quello che
stiamo dicendo. Se sto parlando a qualcuno, e questo qualcuno mi guarda,
annuisce, si dice d’accordo con me, ma incrocia le braccia o inizia a battere
il piede, posso essere sicuro che come minimo quel che dico non gli interessa
per niente. I nostri gesti raccontano senza filtri quello che siamo, quel che
sentiamo. Papa Wojtyla, in visita a Trento (se ricordo bene), si presentò
appoggiandosi a un bastone. Era una delle sue prime uscite – se non la prima in
assoluto – in cui usava un bastone. La folla, quasi a volerlo incoraggiare,
iniziò a urlare, applaudire, cantare. Il Papa non riusciva a parlare, e nemmeno
sarebbe stato in grado di farlo, perché era impossibile sovrastare quel
frastuono non organizzato. Finalmente quella cacofonia divenne un unico ritmico
applauso. Giovanni Paolo II iniziò a ridere, e prese a muovere il bastone sullo
stesso ritmo, come se fosse il direttore di quella sorta d’orchestra. Ogni
tanto accelerava, ogni tanto rallentava, finché riuscì a fermare
quell’applauso. E solo allora iniziò a parlare.
La
potenza dei gesti fisici – perché è di questo che si parla – è davvero
impressionante. Gli abbracci ecumenici interreligiosi, per dire, valgono più di
cento commissioni di teologi.
Il
pellegrinaggio a Gerusalemme di Wojtyla nel 2000 resterà nella storia non tanto
per i discorsi ma per quel foglietto che volle infilare in una fessura del Muro
del Pianto.
Così
come resterà per sempre la mano appoggiata di Francesco sul muro che divide
Israele dai Territori occupati, nel 2014. E i gesti non si imparano «la vita te
li insegna», come ha detto Bergoglio rispondendo alle domande dei seminaristi e
dei preti che studiano a Roma, ai quali ha voluto riservare qualche giorno fa
un lungo dialogo. «Una cosa che ho imparato dall’esperienza personale è che
quando vai a visitare un malato, che sta male, non devi parlare troppo. Prendi
la mano, guardalo negli occhi, di’ due parole e rimani così. Nell’intervento
che hanno fatto a me, in cui mi hanno tolto una parte del polmone quando avevo
21 anni, venivano tutti gli amici, le zie, tutti a parlare: “Vai, vai ti
riprenderai presto, parlerai, potrai giocare un’altra volta...”. Mi piaceva, ma
mi stufava. Un giorno è venuta la suora che mi aveva preparato per la prima
comunione , suor Dolores, brava vecchia, e mi ha preso la mano, mi guardava
negli occhi e mi disse: “Stai imitando Gesù”, e non ha detto niente di più.
Quella mi ha consolato. Per favore, quando andate da un ammalato, non riempire
di motivazioni di promesse del futuro. Il gesto della vicinanza parla più con
la presenza che con le parole».
Perché,
ha detto ancora Francesco, i «gesti si imparano; i gesti della tenerezza li
imparerai con i vecchi, andando dai vecchi. Il primo giorno li saluterai così,
a distanza. Dopo due, tre volte che vai, li accarezzerai, i vecchietti.
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