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martedì 29 ottobre 2019

ITALIANO O INGLESE? ATTENTI ALLA MODA DEGLI ANGLICISMI

 “Qual’è” con l’apostrofo e “a me mi” fanno parte della scrittura digitale.
 La studiosa Gheno: «Meglio essere tolleranti che grammarnazi»
Basta con l’inglese, anche maccheronico, come “next opening”

 di GIACOMO GAMBASSI

Davanti al manifesto che annuncia lo spettacolo di magia a teatro, un gruppo di bambini delle elementari storce il naso per il cartello affisso sopra la locandina. C’è scritto Sold out. E alle mamme i ragazzini chiedono: «Ma che cosa significa? ». Siamo un po’ provinciali quando infarciamo di mission (“missione”), forecast (“previsione”), fashion (“moda”) o sold out (“esauriti”) i nostri discorsi o i nostri scritti. Parole inglesi di fatto inutili che hanno il solo scopo di far apparire più cool (“di tendenza”) ciò che diciamo e soprattutto di sembrare più colti di quanto siamo.
L’anglomania, andazzo italico che unisce le generazioni, rischia di diventare un’antilingua, direbbe Italo Calvino, che complica la situazione invece di renderla più comprensibile. E può sfociare persino nel ridicolo quando coniamo espressioni di fronte alle quali un suddito britannico di Sua Maestà scoppierebbe a ridere. Perché sono palesi scempiaggini della sua lingua. Un esempio? Capita spesso che, per essere di classe, il richiamo “prossima apertura” sulle vetrine di un negozio in ristrutturazione o in allestimento sia tradotto con next opening. Che letteralmente vuol dire “apertura seguente o successiva”, come se l’apertura seguisse a ruota un’altra, oppure “prossima occasione in cui il negozio sarà aperto”, quasi che le saracinesche del punto vendita si alzassero sporadicamente. In realtà la traduzione corretta è opening soon che non aggiunge alcunché all’analogo italiano. Vale lo stesso per work in progress, banalmente “lavori in corso”, che spesso si trasforma nell’improbabile working progress, come si leggeva in un cartello all’aeroporto romano di Fiumicino. «I falsi anglismi sono figli della nostra scarsa conoscenza delle lingue straniere – spiega la sociolinguista Vera Gheno –. Nella Penisola abbiamo la tendenza a improvvisarci anglofoni con l’intento di darci un tono. Come si combatte tutto ciò? Innanzitutto, quando si sta per usare un termine inglese, è bene chiedersi se si conosce l’esatto significato. Poi è opportuno saper scrivere e pronunciare correttamente il vocabolo: sentir dire manàggment è goffo. Infine è necessario domandarsi se non ci sia una parola italiana perfettamente equivalente e quindi si sta ricorrendo all’inglese per snobismo. Certo, come italiani non dobbiamo tanto “difendere” la nostra lingua dall’inglese, quanto imparare a usare meglio entrambe».
La docente a contratto dell’Università di Firenze, che ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca (di cui ha gestito l’account Twitter) e che adesso lavora con Zanichelli, propone nel suo ultimo libro Potere alle parole (Einaudi, pagine 176, euro 13) un vademecum per muoversi meglio fra l’italiano come strada per diventare più “potenti”.
Alcuni richiami rimandano ai banchi di scuola: qual è continua a essere preferibile nella grafia senza l’apostrofo; a me mi va evitato in un contesto alto benché Alessandro Manzoni faccia dire a Renzo nei Promessi sposi: «A me mi par di sì»; ed e ad si usano quando la parola che segue inizia con la stessa vocale: ed ecco va bene, ed ancora no. «A ben guardare è molto difficile dare regole ferree – mette le mani avanti Gheno –. In classe si tende a insegnare ciò che si può o non si può fare. Più complesso è cimentarsi con le sfumature della lingua. In contesti informali molte licenze sono accettabili. Quando parlo con gli amici, posso ribattere: Se lo sapevo, non venivo. In un tema o durante un’interrogazione serve ricorrere al corretto Se lo avessi saputo, non sarei venuto ».
Oggi una delle grandi malattie dell’italiano è il pressappochismo generalizzato che considera irrilevanti gli sbagli. «Poiché gli errori danno comunque fastidio e distraggono dal contenuto – afferma la studiosa – è meglio evitarli. Se è pur vero che in una chat o sulle reti sociali possiamo concederci una certa rilassatezza, stiamo attenti a non essere troppo rilassati. Altrimenti potremmo contribuire a quella generale sciatteria comunicativa che è visibile un po’ ovunque». Allora è opportuno scrivere la presidente e non la presidentessa (sicuramente non la presidenta, che in italiano non esiste e che è frutto di una bufala giornalistica). E il detto giusto è serrare le file (non le fila) perché “file” è il plurale di “fila” mentre “fila” è il plurale meno consueto di “filo”.
 «Un errore che non ha alcuna giustificazione è quello sulla direzione degli accenti – sostiene Gheno –. Penso a perché scritto con l’accento grave invece che con quello acuto oppure a é, terza persona singolare del verbo essere, con l’accento acuto al posto di quello grave. E purtroppo sono abbagli che compaiono nelle pubblicità, in tv e nei giornali ». Anche famigliare (con la “gl”) e obbiettivo (con due “b”) sono permessi.
Un capitolo a parte merita l’inglese che penetra nella nostra lingua. Fisima del Belpaese è quella di accorciare le parole composte d’Oltremanica: così night club diventa night e social network si trasforma in social. Poi è superfluo ricorrere al plurale anglosassone quando un vocabolo inglese ha acquisito il passaporto italiano: pertanto meglio optare per i fan e non i fans oppure per gli influencer e non gli influencers. «Con la fissa di “fare i plurali” si rischia anche di imbattersi in mostri come i Lands tedeschi, mentre il plurale è “Länder”, o di esclamare “Ma che bel murales” dimenticandosi che si tratta di un plurale mentre il singolare spagnolo è “mural” anche se molti usano la versione italianizzata “murale”». Persino quando incontriamo i “prestiti di necessità”, ossia forestierismi che si fa fatica ad adattare in italiano, non sarebbe male provare a tradurli. Vera Gheno propone fotoschermo per screenshot. E, qualche decennio fa, il “neopurista” Arrigo Castellani aveva già lanciato fubbia per smog visto che “smog” è parola macedonia composta da smoke “fumo” e fog “nebbia”, quindi fu+bbia. «Oggi non vanno più di moda i calchi linguistici – chiarisce l’esperta –. Ma è grazie a questi giochi se abbiamo bistecca creata da beef steak o grattacielo da skyscraper ».
I lemmi importati si inseriscono sulla scia dei neologismi. Come petaloso, aggettivo che nel 2016 ha attirato l’attenzione della Crusca e che tanti giudicano sgraziato. «Ma non esistono parole belle o brutte. Davanti a un nuovo vocabolo la discriminante è la percezione di utilità. Prendiamo dronista, cioè guidatore di droni: è stato inserito nei vocabolari perché le persone lo utilizzano. Invece petaloso non è tuttora nei vocabolari, benché molti siano convinti del contrario, perché nessuno lo usa».
Da evitare, in ogni circostanza, l’arroganza del “grammarnazi”. «È colui che si fossilizza su una posizione di durezza e di disprezzo nei confronti di chi non usa bene la lingua. Ed esprime tutto ciò in maniera odiosa – conclude Gheno –. Non c’è nulla di male ad avere gusti linguistici personali, ma non possiamo scivolare nell’intolleranza. Meglio essere più attenti al proprio italiano. Se tutti seguissimo questo suggerimento, si innescherebbe un circolo virtuoso che sarebbe ben più efficace dell’inutile intransigenza reciproca».


lunedì 28 ottobre 2019

CONCLUSO IL SINODO SULL'AMAZZONIA. INIZIO DI UN NUOVO CAMMINO ALLA LUCE DEL VANGELO

Conversione e missione: così il Vangelo può salvare i popoli e la terra dell’Amazzonia

Il filo rosso che attraversa il documento finale del Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia

 di ANDREA TORNIELLI 

«Abbiamo la nostra visione del cosmo, il nostro modo di guardare il mondo che ci circonda. La natura ci avvicina di più a Dio. Ci avvicina guardare il volto di Dio nella nostra cultura, nel nostro vivere. Noi come indigeni viviamo l’armonia con tutti gli esseri viventi… Non indurite il vostro cuore, dovete addolcire il vostro cuore. Questo è l’invito di Gesù. Ci invita a vivere uniti. Crediamo in un solo Dio. Dobbiamo restare uniti. Questo è quello che noi desideriamo come indigeni. Abbiamo i nostri riti, però questo rito deve incardinarsi nel centro che è Gesù Cristo».
Una delle testimonianze più forti e più vive, tra quelle ascoltate dai partecipanti al Sinodo dei vescovi dell’Amazzonia, l’ha offerta Delio Siticonatzi Camaiteri, membro del popolo Ashaninca. Ancora una volta si è verificato ciò che più volte Papa Francesco ha insegnato con il suo magistero: si esce per annunciare il Vangelo ed essere vicini ai più poveri, agli scartati e agli indifesi non per “portare” qualcosa ma innanzitutto per essere evangelizzati, cioè per incontrare il volto del Dio di Gesù Cristo nei volti di questi nostri fratelli.
Il documento finale del Sinodo, frutto del discernimento comune dei vescovi dell’Amazzonia e di altre parti del mondo radunati dal Successore di Pietro, presenta il filo rosso di una triplice conversione: ecologica, culturale e sinodale. Una triplice conversione per realizzarne una quarta, quella pastorale, al fine di annunciare con rinnovato slancio missionario il Vangelo di Gesù Cristo in queste terre. Infatti, a fondamento di queste quattro conversioni - sottolinea il documento - c’è «l’unica conversione al Vangelo vivente, che è Gesù Cristo».
I drammi che vive quell’immenso e poco popolato territorio, attraversato da fiumi e ricco di biodiversità, definito nel documento “cuore biologico” del pianeta, sono un esempio dei drammi che viviamo in questo tempo. I cambiamenti climatici, la deforestazione, il depredamento rapace delle risorse, l’abbandono in cui vivono i popoli autoctoni, le sfide rappresentate dalla crescita delle periferie delle metropoli, le migrazioni interne ed esterne, le violenze perpetrate sui più deboli. Tutto ciò sfida i cristiani e li richiama alle loro responsabilità.
Dal documento finale emerge chiaramente la necessità di un cambio di passo, che non potrà mai essere frutto di strategie di marketing missionario o soltanto di nuove strutture ecclesiali. C’è bisogno di tornare alla sorgente, a quel “centro” testimoniato con passione da Delio. L’Amazzonia ha bisogno innanzitutto della sovrabbondanza della grazia, di uomini e donne che amano Gesù e lo scoprono nei volti, nei drammi, nelle ferite dei popoli dimenticati e sfruttati.
Tutto ciò che nel testo consegnato dai vescovi al Papa viene suggerito - dalla nascita di reti ecclesiali per le comunità amazzoniche all’istituzione di specifici organismi per radunare i vescovi della regione, dalla proposta di nuovi ministeri laicali per le donne che rappresentano le vere colonne di molte comunità all’invito rivolto alle congregazioni religiose perché mandino missionari in quelle terre, la necessità di inculturare meglio nella liturgia le tradizioni e le lingue dei popoli autoctoni, fino alla proposta di rilanciare il diaconato permanente studiando anche la possibilità di arrivare all’ordinazione sacerdotale di diaconi permanenti sposati - trova un suo contesto e una sua luce in quella conversione che Francesco ha proposto fin dall’inizio del suo pontificato con l’esortazione Evangelii gaudium.
Il Sinodo che si conclude dopo aver ascoltato il grido dei popoli amazzonici non è stato un incontro “politico”: è stato invece un evento ecclesiale, in ascolto dello Spirito Santo, per cercare nuovi cammini di evangelizzazione, nella consapevolezza che tutto è connesso e che per i cristiani l’interesse e la preoccupazione per la salvaguardia dei poveri e degli scartati, per la cura e la difesa del creato che Dio ha affidato alla custodia degli uomini, non è un optional, ma scaturisce dal cuore della nostra fede.
Infine, da questo Sinodo giunge un appello all’unità di tutta la Chiesa, a camminare insieme, guidati dallo Spirito Santo. È l’appello che viene da Delio, dagli indigeni dell’Amazzonia: «Non indurite il vostro cuore … Questo è l’invito di Gesù. Ci invita a vivere uniti … Dobbiamo restare uniti … nel centro che è Gesù Cristo».

Vatican News


L'TALIANO SUL PALCOSCENICO- La giornata mondiale ProGrammatica

"L'italiano sul palcoscenico": Settima Giornata ProGrammatica con le scuole, 29 ottobre 2019, in collaborazione con Rai Radiod. 

La Giornata ProGrammatica 2019 e le scuole

 Obiettivo generale della Giornata ProGrammatica, ideata per valorizzare la ricchezza della nostra lingua e della nostra cultura, è quello di evidenziare in modi diversi, anche originali e vivaci, quanto sia rilevante la padronanza dell'italiano per un reale possesso ed esercizio dei diritti di cittadinanza. Alla riflessione sullo stato della nostra lingua sono pertanto invitate a partecipare tutte le scuole italiane, dalle primarie alle secondarie di secondo grado, che potranno così attivare autonomi momenti di studio e di discussione sul tema della presente edizione
Gli studenti partecipanti a questi incontri sono invitati ad usare l'ormai noto hashtag: #GiornataProGrammatica per 'postare' e 'twittare' i momenti ritenuti più significativi. Il programma della #GiornataProGrammatica è consultabile sul sito: www.lalinguabatte.rai.it 





LA CONDIZIONI DEI BAMBINI IN ITALIA - Rapporto 2019 di Save the children

A dieci anni dalla pubblicazione della prima edizione dell’“Atlante dell’Infanzia a rischio”, proponiamo quest’anno un bilancio sulla condizione dei bambini in Italia: cosa è successo tra il 2008 e il 2018? Quali sono stati i cambiamenti e quali le risposte allo scenario in evoluzione? Ne parleremo in questo breve estratto dell'Atlante dell'Infanzia.
Quello che ci lasciamo alle spalle è stato un decennio critico, segnato da due crisi economiche molto gravi, prima nel 2008 poi tra il 2011 e il 2012. In Italia più che altrove, questa congiuntura tanto negativa ha impattato soprattutto sui bambini e le loro famiglie, compromettendo gravemente le aspettative di crescita e producendo uno squilibrio generazionale senza precedenti.
 I pilastri del futuro del nostro Paese, i bambini, sono stati i più penalizzati.
La questione delle povertà minorili era un tema all’attenzione delle istituzioni già a metà degli anni Novanta.
Eppure ci si è limitati - nel corso del tempo - ad azioni tampone, sporadiche e selettive, e non è mai stato implementato un intervento strutturale per contrastare il problema.
Analizzando il lavoro svolto dall’ISTAT in questi dieci anni sugli indicatori della povertà, i dati che emergono diventano emblematici del tempo perso dalla politica sul fronte della tutela dell’infanzia e restituiscono un quadro molto preoccupante della situazione nel nostro Paese.
Nel 2008 appena 1 minore su 25 (il 3,7%) era in povertà assoluta, un decennio dopo si trova in questa condizione ben 1 su 8 (12,5%). Sono numeri che spaventano: nel 2007 i minori in povertà assoluta erano circa mezzo milione, oggi sono
L’impatto negativo della crisi si è concentrato soprattutto sulle famiglie con figli piccoli, ha allargato la forbice dei divari territoriali (con un picco di minori in povertà nelle regioni del Mezzogiorno) e ha colpito particolarmente i nuclei familiari degli stranieri.
In termini di abbandono scolastico l’Italia ha recuperato qualche punto percentuale nel decennio 2008-2018, ma il trend positivo di riduzione del fenomeno ha subito una battuta di arresto e dal 2016 al 2018 è passato dal 13,8% al 14,5% allontanando ulteriormente l’obiettivo europeo del 10%.



ATLANTE INFANZIA


 l'Atlante dell'Infan

sabato 26 ottobre 2019

UN FARISEO E UN PUBBLICANO ....

+ Dal Vangelo secondo Luca  Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Commento di don Fabio Quadrini

L’odore di ulivo raccolto che pervade le campagne, rende gradevolmente piccante la nebulosa aria autunnale. I campi brulicano di operai, frenetici per la fretta di concludere il lavoro, temendo la variabilità delle condizioni atmosferiche, ma euforici per la gioia di riempire, anche in quest’anno, le proprie dispense con la preziosa spremitura.
I frantoi, aperti giorno e notte, odorano di dolcezza: suscita una sconcertante meraviglia contemplare come l’amarezza di un acino produca il più soave tra i sapori solo dopo essere stato pestato da una macina.
Quante volte nostro Signore Gesù Cristo avrà respirato questi odori lungo il suo peregrinare, e quante volte, guardando un ulivo e contemplando il suo frutto, avrà visto in quell’acino sé stesso e il suo compimento.
       Quanto sarebbe straordinaria l’esperienza di abbandonare ogni parola, qualsiasi commento o catechesi, e sedersi ai piedi di un ulivo, guardarlo e lasciarlo parlare: basterebbe esso a raccontarci di Gesù. E così si potrebbe fare reclinati accanto alle radici un fico o di una vite: fermarsi, sedersi, guardarli e lasciare che parlino. Narrerebbero di nient’altro se non del Cristo.
È gradito allo scrivente immaginare che il Signore stesso si sia riposato frequentemente all’ombra di questi alberi, e in essi abbia contemplato il fine e il culmine della sua missione.
Che lo Spirito Santo illumini i nostri cuori e le nostre menti.
Al frantoio
Il passo evangelico che la sacra liturgia ci propone quest’oggi è molto profondo ed acuto.
Come al solito vogliamo proporre al lettore un approfondimento che abbia, come punto di partenza, una parola contenuta all’interno della pericope. Prima, però, di indicare il termine che abbiamo scelto, ci piace far notare a colui che legge il continuo movimento del “salire” e dello “scendere” che caratterizza tutta quanta la narrazione. È giustappunto la stessa dinamica che accade con la preghiera: essa è strumento per far salire al Signore la nostra voce, affinché dall’alto abbia a scendere la carezza di Dio.
Lasciando, in tale ambito, margine alla meditazione del lettore, coadiuvata e corroborata dalla partecipazione all’Eucaristia e dalle omelie dei sacerdoti, la parola che vogliamo proporre quest’oggi è PUBBLICÀNO.
                    In greco il sostantivo “pubblicàno” si esprime con “telònes”.
Se andiamo ad approfondire la composizione di tale nome, scopriamo che questo è l’unione di due termini, ovvero “tèlos” e “onèomai”. Il verbo “onèomai” significa “comprare/acquistare”, ma interessante è sviluppare ciò che contiene in sé il sostantivo “tèlos”.
               Esso ha certamente come significato “imposta/tassa/tributo/gabella”, ma non come primo tratto. Propriamente, infatti, “telòs” vale “fine/risultato/compimento/culmine”.
Ma interessante è tutto il percorso etimologico che germoglia attorno a questo lemma.
La sua radice “tal/tla” genera i verbi “tèllo” (che significa “restare/rimanere”, ed anche “sorgere”), e “tlènai” il quale, come primo significato, intende “sopportare/resistere” ed anche “soffrire”.
Per meglio comprendere il senso dell’intera analisi che stiamo percorrendo, dobbiamo avvicinarci alla nostra lingua.
Dalla stessa radice “tal/tla” nascono i verbi latini “tollo” (alzare/togliere/caricare), “tolero” (sopportare/resistere/sostenere), e “tuli” (ovvero “fero” che significa “portare/sopportare” ed anche “innalzare/esaltare”), da cui il nostro “tollerare”.
Fatta tutta questa premessa possiamo emarginare alcune conclusioni dalle molteplici che se ne potrebbero trarre. Sia la meditazione del lettore a completare la pochezza del ragionamento dello scrivente.
Quando ascoltiamo il brano dell’estratto evangelico odierno, il nostro immaginario disegna per certo il fariseo in piedi e il pubblicano sicuramente in ginocchio (anche il foglietto della domenica rappresenta tale quadretto). Tuttavia abbiamo visto come “tèlos” abbia in sé propriamente il senso del “raggiungere un obiettivo”, e solitamente uno “scopo” o un “termine” sono l’ “apice” di un percorso, la “vetta”, la “cima”, il “punto più alto”. Ecco allora che il pubblicàno non reca nella sua qualità una posa che tende al basso o allo stare in ginocchio, ovvero uno stare reclinato, ma nella sua qualifica, nel suo attributo, rappresenta uno “stare in alto”, un “mirare in alto”. Ma ecco il punto: non è la posa “eretta” il problema, ma quale senso essa assuma. Lo “stare eretto” del pubblicàno reca in sé il significato del “resistere/sopportare/non_cedere”, ovvero “farsi_carico”.

Il sostantivo “telònes” (pubblicàno) letteralmente sarebbe colui_che_acquista_l’appalto_per_la_riscossione_delle_gabelle”; ma come non rileggere tale nome alla luce del mistero di nostro Signore Gesù Cristo: “siete stati comprati a caro prezzo” recita la Prima Lettera ai Corinzi capitolo 6 versetto 20. 
Il Signore Gesù è il “Pubblicano” che ha comprato la Salvezza per la nostra vita, ovvero ha dato compimento alla nostra esistenza (Egli che è il “Compimento”), pagando il prezzo della Croce, ovvero caricandosi dei nostri peccati.
Che la rappresentazione della figura del pubblicàno (telònes), ovvero il senso profondo del suo termine, richiami fortemente nostro Signore Gesù è appalesato, anche a dar seguito a quanto fin ora detto, da una formula proclamata dal sacerdote durante la messa: “Ecco Colui che toglie i peccati del mondo”: quel “toglie” nella formula latina è “tollis” (dal verbo “tollo” di cui sopra), ovvero “togliere” col senso di “sollevare/caricare su di sé”. Tale proclamazione sacerdotale, inoltre, è la replica delle parole pronunziate da Giovanni Battista (“Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!” Gv 1, 29), ed è molto interessante come il verbo “alzare” del versetto 13 della pericope odierna (“(il pubblicàno) non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”) in greco sia “epàrai”, che viene dallo stesso verbo “àiron” (“toglie” ovvero “prende_su_di_sé”) che il Battista pronuncia in Gv 1, 29.
Per rimanere ancora in connessione col Vangelo secondo Giovanni, l’inizio della seconda parte (detta per convenzione “Vangelo dell’ora”), ovvero il versetto 1 del capitolo 13 recita: “Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”. Quel “sino alla fine” in greco è “eis tèlos” che varrebbe in traduzione “sino al compimento/culmine”.
       Anche in questa occasione siamo in dovere di richiamare il capitolo 2 della Lettera ai Filippesi. Il Vangelo proclama: “(con riferimento al fariseo) chiunque si esalta sarà umiliato, (con riferimento al pubblicano) chi invece si umilia sarà esaltato” (v. 14). La Lettera appena citata recita così ai versetti 8 e 9: “(Gesù) umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato”. I verbi usati sono gli stessi sia nel Vangelo che nella Lettera ai Filippesi: “tapeinòo” (umiliare) e “upsòo” (esaltare), ed il movimento che assume il pubblicano è lo stesso che assume Gesù.
Ecco allora che in questo brano evangelico ad essere sgradito non è lo stare alzati, lo stare sollevati dinanzi al Signore nostro Dio (la Risurrezione è “anìstemi” letteralmente “alzarsi/sollevarsi_in_piedi”: interessante come “ìstemi” sia proprio la posa assunta dal fariseo), ma il fine, il culmine, il senso di questo “stare eretti”: per essere cosa gradita al Signore nostro Gesù Cristo dobbiamo “stare eretti per riuscire a caricare la croce sulle nostre spalle, ma questo altro non comporta che assumere una posa “abbassata”, poiché il carico e il peso non fanno altro che incurvarci, piegarci. Ma dobbiamo essere certi che lo stare “abbassati”, ovvero “sollevati e carichi”, ci porterà all’ “esaltazione” definitiva della vita eterna, poiché nostro Signore Gesù                       Cristo è Risorto e noi risorgeremo con lui.





QUOTIDIANI FATTI DI CRONACA CI INTERPELLANO


Recentissimi episodi di cronaca ci costringono a riportare l’attenzione sul fenomeno, ormai quasi rimosso dai mass media e dall’opinione pubblica, della diffusione della droga fra i giovani.

di Giuseppe Savagnone


Vicino Livorno una ragazza di 19 anni è morta in discoteca dopo aver ingerito delle pasticche, sembra di Ecstasy, insieme ad alcool.
Nei pressi di Palermo due ragazzi, uno di 16, uno di 17 anni, sono morti perché l’auto su cui tornavano dalla discoteca, guidata da un ventenne risultato poi positivo ai test su alcool e droga, è uscita di strada.
Un fenomeno rimosso
Non si tratta di incidenti casuali. Il costante aumento del consumo di droga tra i giovani è segnalato da tutte le statistiche.
Gli esperti segnalano che ormai diventa sempre più frequente il passare con leggerezza da una droga all’altra, o l’assumere sostanze senza nemmeno sapere di che si tratta, solo perché l’ha appena assunta il tuo vicino.
Anche per l’enorme varietà di prodotti in circolazione, dalla cannabis allo SPICE alle anfetamine alla cocaina (con un ritorno perfino della “vecchia” eroina). Senza parlare di quelle droghe “legali” che sono l’alcool e il fumo, di cui spesso si sottovaluta la gravità.
La fragilità delle nuove generazioni
Questi dati ci avvertono che – malgrado l’immagine rassicurante di Greta e dei milioni di ragazzi e ragazze che, sul suo esempio, hanno dato in questi giorni una lezione di responsabilità agli adulti sui problemi del clima – cresce la fragilità di fondo delle nuove generazioni sul piano esistenziale e, con essa, l’enorme responsabilità che abbiamo verso di loro anche sotto questo profilo.
Perché, al di là della desertificazione ambientale, su cui la recente protesta studentesca ha incentrato la sua vibrante accusa, la nostra società ne ha determinato un’altra, forse ancora più devastante – anche se i giovani la subiscono a un livello troppo profondo dentro di loro per riuscire a metterla a fuoco, pur soffrendola dolorosamente sulla propria pelle –, ed è quella che riguarda il senso da dare alla propria vita.
Il “senso” perduto
Le generazioni passate, nel complesso, erano riuscite nell’impegno di trasmettere ai propri figli qualcosa – giusto o sbagliato che fosse – in cui credere.
Si trattasse della fede religiosa, o dei princìpi della morale borghese, o della patria, o della rivoluzione proletaria, si cresceva all’interno di una visione complessiva della realtà che consentiva, anzi richiedeva, l’orientamento della persona verso uno scopo oggettivo, in grado di dare senso – nella duplice accezione di “significato” e di “direzione” – alla sua esistenza.
Ancora le lettere scritte in carcere dai giovani partigiani in procinto di essere giustiziati dai nazisti, testimoniano la loro convinzione di non aver sacrificato invano la propria vita.
Valori autoreferenziali
Oggi sarebbe difficile trovare qualcuno disposto a morire per qualcosa di più grande di lui. E chi non ha niente per cui morire è difficile che abbia qualcosa per cui vivere.
Sì, nella nostra cultura ci sono dei valori, ma a guardare attentamente si scopre che sono per lo più caratterizzati da una sostanziale autoreferenzialità: la libertà, ma intesa solo come mancanza di impedimenti esterni, che spinge a rifiutare la responsabilità dei legami; l’autenticità, che consiste nell’essere fedeli ai propri stati d’animo, indipendentemente dagli effetti che le nostre azioni possono avere sugli altri; l’autorealizzazione, che spesso rischia di far perdere di vista che un lavoro non si fa innanzi tutto per realizzarsi, ma per rendere un servizio alla società, e di cui l’autorealizzazione è solo una conseguenza, non il fine.
Il rischio del narcisismo
È quella che Umberto Galimberti chiama «cultura del narcisismo», associandola al nichilismo sempre più dilagante.
«La cultura del narcisismo (…) si compone con la cultura del relativismo, per cui ciascuno, chiamato alla propria autorealizzazione, deve decidere da sé in che cosa questa consista, senza che nessuno debba o possa interferire in questa auto-determinazione (…). Ma sbarrare la porta alle richieste provenienti dall’esterno dell’Io, accantonare la storia, la natura, la società e ogni altro riferimento che non sia ciò che l’Io trova in se stesso, significa sopprimere le condizioni per cui qualcosa è più o meno rilevante e, nell’impossibilità di questa valutazione, sopprimere anche le condizioni per l’esercizio della propria libertà ».
Non per nulla i giovani, sensibilissimi quando si tratta di battaglie a livello planetario, come quello del clima, sono invece estremamente restii a interessarsi di politica, non leggono i giornali, disertano le assemblee studentesche..
La droga come surrogato di una qualsiasi fede
E allora si capisce meglio perché la droga. Naturalmente le ragioni immediate del ricorso ad essa possono essere le più varie: la pressione o anche semplicemente l’esempio del gruppo; solitudine; incomprensioni in famiglia; delusioni affettive; ansia da prestazione; o anche semplicemente curiosità.
Ma sempre, in ultima istanza, la droga ha la funzione di dare quella forza per vivere che un tempo veniva da una fede, fondata o infondata che fosse.
In altri termini, a dei giovani a cui non è rimasto molto in cui credere oltre se stessi, la droga consente di affrontare una vita sempre più frenetica e competitiva malgrado la loro fragilità.
Da qui il ricorso alle pasticche, nelle estenuanti nottate in discoteca, per reggere alla fatica del divertimento; oppure durante la preparazione a un esame, per far fronte allo stress; oppure prima di fare sesso, per sopperire al diffuso indebolimento della carica erotica e della potenza sessuale.
Lo “sballo”
Accanto a questa funzione “adiuvante”, la droga ne ha anche una di “stordimento”.
Quello che si cerca, sotto questo profilo, è lo “sballo” per se stesso, la perdita di coscienza, l’ebbrezza di una liberazione da ogni peso e da ogni limite. Ancora una volta, la momentanea rivincita sul vuoto di una vita priva di veri contenuti e di scopi, e in cui l’esperienza estatica dell’incontro col vero, col bello, col bene, viene surrogata con quella dell’ecstasy o di altre sostanze simili.
Sullo sfondo, la famosa canzone di Vasco Rossi. «Voglio una vita maleducata Di quelle fatte così voglio una vita che se ne frega che se ne frega di tutto sì. Voglio una vita spericolata voglio una vita come quelle dei film. Voglio una vita esagerata la voglio piena di guai. E poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxy Bar..».
La droga fa male
Fa pena che i ragazzi affascinati da questa illusione di pienezza vitale siano in realtà condannati a un impoverimento umano da tutti punti di vista. Perché la droga – qualunque droga – fa male.
C’è chi sottolinea i danni che queste sostanze – ma ripeto, non bisogna dimenticare l’alcool e le comuni sigarette – arrecano alla salute fisica e mentale. Alcune soprattutto, in una stagione della vita il cervello si modella e assume la struttura adulta, possono avere effetti deleteri sulle capacità cognitive, sulla memoria, sulla capacità di concentrazione.
Per non parlare del condizionamento che deriva dall’assuefazione e del pericolo mortale derivante dalla possibilità di overdose. È riferendosi a tutto ciò, probabilmente, che Jim Morrison, il leader del famoso gruppo musicale “The Doors”, notava: «Comprare droghe è come comprare un biglietto per un mondo fantastico, ma il prezzo di questo biglietto è la propria vita».
I desti e i dormienti
Senza minimamente sottovalutare questi aspetti, vorrei soprattutto sottolineare, però, che di tutto i nostri giovani hanno bisogno, tranne che di qualcosa che li aiuti a stordirsi.
Già i ritmi di vita imposti dalla società e l’uso indiscriminato delle nuove tecniche di comunicazione – computer, tablet, smartphone –, tendono a distoglierci dalla riflessione e da una comunicazione degna di questo nome, fondata cioè sulla reale capacità di capirsi a vicenda e di confrontarsi in profondità.
Un antico pensatore, Eraclito, distingueva gli uomini in «desti» e «dormienti». Il problema è terribilmente attuale. La vita odierna ci anestetizza e ci rende sonnambuli.
Già per gli adulti questo è un dramma e la loro testimonianza non può certo essere di aiuto alle nuove generazioni. Ma esse sono ancora più indifese, perché non hanno neppure – come invece i loro genitori –, la remota memoria dell’esperienza di un mondo diverso, dove si parlava a tavola la sera, dove si pensava che la verità differisse dalla menzogna, e ancora, in politica, si discuteva di idee, senza ridurre il confronto a uno scambio di insulti.
Abbiamo bisogno che i giovani restino svegli
Abbiamo bisogno di giovani che siano lucidi, per sconfiggere le malattie dell’anima che noi adulti abbiamo sviluppato e che stiamo trasmettendo loro. Il diffondersi della droga, in cui essi credono di vedere una coraggiosa trasgressione, in realtà li indebolisce e segna la loro resa all’esistente.
Il potere è grato di avere cittadini “fatti” e mezzo addormentati a cui continuare a imporre la falsa democrazia di cui siamo ostaggio. La nostra società ha bisogno di una profonda trasformazione che solo dai giovani può venire. Per questo soprattutto dobbiamo chiedere loro di non drogarsi, per restare svegli.


www.tuttavia.eu

venerdì 25 ottobre 2019

SCRIVERE IN CORSIVO, UN'ARTE CHE FA CRESCERE

Ragazzi, scrivete in corsivo e in buona grafia (per il bene di anima e cervello)


Una grafologa e uno psicologo spiegano i danni cognitivi, emotivi e relazionali che l’abbandono della scrittura a mano può causare ai bambini.

Nei bambini che usano il corsivo e curano la buona grafia si è rivelata una maggiore attivazione delle aree cerebrali associate alla memoria di lavoro con un aumento dell’attivazione delle reti di lettura e scrittura.

Lo scrivere è un'arte da curare sempre, sin dai primi giorni di scuola, con pazienza e costanza, senza ansia e senza fretta, prestando particolare attenzione alla scrittura più comune che è quella in corsivo. Evitare il pericolo di affastellare corsivo e stampatello e stampatello.
La cattiva didattica e la fretta favoriscono la disgrafia.

Un libro che è un appello al ritorno alla scrittura manuale e che è un racconto di come si possa sconfiggere la disgrafia (disturbo dell’espressione scritta che riguarda il 20 per cento degli studenti italiani, dei quali maschi 8 su 10) rieducando la motricità fine dei bambini anziché consegnandoli al computer. In Il corsivo encefalogramma dell’anima (La memoria del mondo, 159 pagine, 18 euro) una grafologa e uno psicologo spiegano i danni cognitivi, emotivi, relazionali che a bambini ed adulti può causare l’abbandono della scrittura a mano, specialmente in corsivo, a favore dell’utilizzo esclusivo delle tastiere dei computer e degli smartphone.
I bambini usano le mani molto meno di cinquant’anni fa e allo stesso tempo familiarizzano con le tecnologie digitali troppo presto, con conseguenze davvero preoccupanti: «L’azienda specializzata in ricerche su internet AGI/AVG ha dimostrato che i bambini di oggi sono in grado di scrivere al PC, navigare su internet, utilizzare il cellulare, ma non sanno allacciarsi le scarpe in autonomia (solo l’11% lo sa fare) o andare in bicicletta». Davanti all’allargarsi del fenomeno della disgrafia, alcuni chiamano in causa alterazioni genetiche, invece Irene Bertoglio e Giuseppe Rescaldina sostengono «la teoria della mancanza di un giusto training formativo atto ad instaurare nei bimbi l’acquisizione della manualità fine», e puntano il dito sull’invadenza delle tecnologie digitali come fattore negativo, appoggiandosi a parecchi studi scientifici sulla questione.
Per esempio «la psicologa e ricercatrice dell’università di Washington, Virginia Berninger, ha condotto uno studio interessante, confrontando la scrittura in stampatello, in corsivo e su tastiera di un gruppo di bambini della Scuola Primaria. Così ha scoperto che alle diverse modalità di scrittura sono associati schemi cerebrali differenti e separati che producono diversi risultati. Si sono notate significative differenze tra chi ha utilizzato il carattere corsivo rispetto a coloro che hanno utilizzato lo stampatello. Nei primi bambini si è rivelata una maggiore attivazione delle aree cerebrali associate alla memoria di lavoro con un aumento dell’attivazione delle reti di lettura e scrittura. Citiamo: “I bambini che scrivono a mano libera producono più parole e più rapidamente di quanto facciano coloro che scrivono su una tastiera; inoltre, rispetto a questi ultimi, mostrano una maggiore ricchezza di idee”».
Lo conferma il presidente onorario dell’Accademia della Crusca Francesco Sabatini, citato nel libro: «Gli studi più recenti, di psicoterapeuti e neurologi, segnalano che la deriva verso la scrittura su tastiera o verso forme semplificate di scrittura manuale (lo stampatello, rispetto al corsivo) riduce gli stimoli di produttività ideativa e linguistica e rallenta la comprensione nella lettura. (…) Insomma, la recente e dilagante tendenza a preferire precocemente la tastiera e a non curare le forme della grafia personale ci fa perdere una parte notevole degli effetti che l’antichissima pratica tattile-cognitiva della mano e delle dita – in mille altre attività prima della scrittura vera e propria e per secoli accanto a questa – ha prodotto filogeneticamente sviluppando funzioni pregiate del cervello!». E ancora: « In una ricerca a lunga verifica temporale, la dott.ssa Laura Dineheart, ricercatrice alla Florida International University, ha accertato che i bambini che avevano imparato a scrivere manualmente nei primi anni di scuola raggiungevano migliori risultati negli studi alle superiori, rispetto ad altri che avevano dato priorità all’uso della scrittura con tastiera».
Uno degli aspetti paradossali del problema è che il passaggio alla scrittura al computer è la soluzione consigliata da molti per superare i problemi di disgrafia dei bambini, ma proprio la digitalizzazione della comunicazione è sul banco degli imputati per quanto riguarda la crescente incapacità di imparare a scrivere a mano: «Che paradosso: si prescrive come terapia una delle cause stesse del problema!». Perché, oltre a non attivare le aree del cervello che la scrittura in corsivo attiva, la comunicazione digitale è troppo veloce e causa ansia: «In passato si pensava che l’ansia, in particolar modo quella cronica, fosse a carico del solo individuo adulto; oggi, sempre più bambini accusano patologie legate all’ansia, che diventa un vero e proprio tratto di personalità in età molto precoce. (…) Un ambiente agitato rischia di stimolarlo troppo e di creare in lui un ottundimento emotivo, con conseguenti difficoltà nell’apprendimento. Le capacità attentive e di ascolto, anch’esse indispensabili per imparare a scrivere, non sono senz’altro favorite da un ambiente confuso, ma da un clima sereno, sia in famiglia che a scuola. La soglia media di attenzione si sta sempre più restringendo: da una media di venti-venticinque minuti ad una decina di minuti. (…) Il cambiamento si è instaurato in maniera direttamente proporzionale all’utilizzo degli strumenti tecnologici. L’uso del computer ha aumentato il livello di stimoli di percezione mnemonica, creando una sorta di abitudine ad un pensiero veloce e proiettato al futuro, fonte di strutturazione ansiogena. Grazie agli studi più recenti, sappiamo ora che la capacità di concentrazione e l’instaurazione del pensiero logico sono possibili grazie ad una limitazione sensoriale che permette che le informazioni acquisite dal soggetto passino dalla memoria a breve termine alla memoria a lungo termine. Questo passaggio può avvenire solo rallentando l’acquisizione degli stimoli».
Occorre rallentare, e recuperare i benefici della scrittura a mano, preferibilmente in corsivo. Come scrive l’Istituto Grafologico Internazionale Moretti (il francescano padre Girolamo Maria Moretti, 1879-1963, è stato l’iniziatore della grafologia in Italia) nel suo manifesto per il lancio della Campagna per la valorizzazione della scrittura a mano: «La scrittura a mano corsiva stimola a: migliorare la capacità di lettura e di calcolo; potenziare la capacità di attenzione e di apprendimento; imparare l’autodisciplina e la concentrazione; allenare la memoria e accrescere la fiducia in se stessi; favorire il pensiero critico; costruire buone relazioni comunicando le proprie idee; esprimere la creatività individuale ed uscire dall’anonimato incoraggiando l’originalità individuale».
Nella parte finale il libro descrive il Metodo Primavera (dal nome di Susanna Primavera, la grafologa che lo ha inventato), una particolare tecnica di insegnamento della scrittura indicata per la Scuola Primaria che ne facilita l’apprendimento, e racconta le sperimentazioni e le esperienze sul campo di Irene Bertoglio e Giuseppe Rescaldina presso le scuole di varie località lombarde.

Giuseppe RescaldinaIrene Bertoglio   

Il corsivo, encefalogramma dell'anima

Editore: La Memoria del Mondo, pagg. 224, € 18






giovedì 24 ottobre 2019

SCUOLA, E' NECESSARIA UN'EDUCAZIONE PERSONALE

Il Rapporto 2019 del Centro Studi per gli istituti cattolici mette al centro i percorsi individualizzati «Serve un metodo educativo che sia rispettoso delle doti e delle attitudini di ciascuno studente»

La vera sfida è l’evoluzione da una prospettiva pedagogica a una prospettiva didattica, rispettosa dello sviluppo integrale del ragazzo

  di ENRICO LENZI

Personalizzare il percorso di studio? Una domanda che fino a un decennio fa accendeva discussioni e dibattiti nel mondo pedagogico e scolastico. Non solo: era uno degli aspetti portanti della forma targata Letizia Moratti (allora ministro dell’Istruzione). Ma dopo tanto discutere questo passaggio sembra essere rimasto più un auspicio che un patrimonio della scuola italiana. E proprio perché «è venuta meno l’enfasi che animava sostenitori e detrattori», oggi di «personalizzazione e curricolo » «è possibile parlare» commenta Sergio Cicatelli, coordinatore scientifico del Centro Studi per la scuola cattolica (Cssc), parlando del XXI Rapporto annuale realizzato dal Centro Studi e pubblicato da Scholé (dell’Editrice Morcelliana).
«Personalizzazione e curricolo » è infatti il titolo scelto per il Rapporto 2019, che, spiega ancora Cicatelli, «si collega al Rapporto dello scorso anno che prendeva in esame la personalizzazione e il progetto educativo ». Tre le sezioni in cui è suddiviso il Rapporto che sarà presentato ufficialmente oggi nell’ambito della XII Giornata pedagogica della scuola cattolica a Roma. Si parte con «i concetti chiave» che affrontano l’aspetto teorico dell’argomento. La seconda parte va sul concreto ponendo «la personalizzazione alla prova della scuola». «Una sorta di rassegna delle buone pratiche» spiega Cicatelli, aggiungendo che il tema della personalizzazione degli studi, con un approccio differenziato da alunno ad alunno, è una delle prerogative messe in campo dalla scuola cattolica. Insomma esempi concreti che vengono messi nella disponibilità di tutti e che possono diventare base per ulteriori progetti. La terza parte del Rapporto è significativamente intitolata «ripensare la scuola». Un passaggio fondamentale quanto indispensabile per permettere alla scuola di porre la personalizzazione al centro dell’azioneeducativa. «I due ultimi volumi realizzati dal
Centro Studi – spiega il coordinatore scientifico – vogliono rappresentare una evoluzione da una prospettiva pedagogica a una prospettiva didattica». Quindi una riflessione che renda concretamente fattibile questa attenzione a ogni singolo studente, senza perdere di vista il cammino complessivo e le mete finali. «La personalizzazione, prima di essere una teoria didattica – sottolinea ancora Cicatelli – è un metodo educativo e di istruzione che pone al centro la verifica costante di ciò che si trasmette nelle dinamiche di insegnamento e di apprendimento». Necessita, quindi, della «conoscenza della realtà nelle forme e nei modi in cui essa si rende presente alla coscienza», dello «sviluppo integrale della persona-lità, rispettoso delle doti e delle attitudini » e infine dell’«esercizio della libertà come attuazione volontaria dell’esperienza educativa».
Il Rapporto del Cssc è anche l’occasione per scattare la fotografia annuale della scuola cattolica paritaria. Le scuole cattoliche, nell’anno scolastico 2018/19 erano 7.955 (per un totale di 27.709 classi o sezioni), rapprensentando il 63,4% degli istituti paritari che erano 12.547. In campo cattolico ci sono 5.826 materne, 1.021 primarie, 517 medie inferiori e 591 scuole superiori. Gli alunni complessivi sono 570mila, per il 58% frequentanti la scuola dell’infanzia (330.806). L’1,5% del totale degli studenti è disabile (8.431), mentre per quanto riguarda gli iscritti di cittadinanza non italiana sono il 5,4% (30.786). Ultimi dati: i docenti sono 52.629, a cui si aggiungono 9.240 addetti all’amministrazione, 8.644 addetti alla cucina e 14.805 addetti alla vigilanza e pulizia. Per la quasi totalità si tratta di laici con famiglia.

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