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mercoledì 30 gennaio 2019

LA DEMOCRAZIA E' UN OPTIONAL?


L’irreversibilità delle conquiste democratiche e la tentazione «della servitù volontaria»
La paura che ritornino esperienze passate non fa più molta presa. Ma è possibile rinunciare volontariamente alla libertà in cambio di poche concessioni e garanzie?
I cambiamenti culturali, sociali ed economici degli ultimi decenni, soprattutto in seguito alla crisi economica, hanno fatto sì che il tema della democrazia non venga più avvertito come fondamentale Stanno venendo meno tutti gli anticorpi nei confronti dei nuovi possibili pericoli nel segno di un «dispotismo morbido»
di Paolo Nepi *
Ha senso oggi riaprire in Italia la questione del fascismo? Per alcuni la domanda non ha alcun senso, dal momento che anche le forze politiche che a esso si sono per molto tempo richiamate lo giudicano una vicenda irripetibile. Per altri invece ha un senso, non perché si possano riprodurre nuovamente le forme assunte storicamente dal fascismo di Mussolini, ma perché il fascismo costituirebbe una sorta di paradigma politico universale. Legato quindi non alle forme storiche già note, ma a quelle che, in quanto categoria sovrastorica dello spirito umano, può di nuovo assumere. L a questione intorno al fascismo ha avuto in Italia un andamento altalenante. Nel periodo del primo dopoguerra e della guerra fredda il tema del fascismo si collegava a quello dell’antifascismo. Nelle intenzioni degli antifascisti il fascismo costituiva il termine di confronto, ovviamente in negativo, della democrazia e della Costituzione. Sul tema della democrazia, in riferimento all’antifascismo nel secondo dopoguerra, occorre tuttavia una precisazione: poiché nell’antifascismo si riconoscevano in tanti, compresa la totalità della sinistra italiana, egemonizzata dal più forte Partito Comunista dell’occidente, il tema del confronto fascismo/democrazia non si sviluppò in tutta la sua ampiezza nel nostro Paese. E questo per le note ragioni internazionali, dal momento che si era antifascisti per ragioni allora non componibili, dal momento che alcuni si richiamavano alle democrazie liberali e altri al modello sovietico estraneo a questa tradizione politica. Ma soprattutto perché le riconquistate libertà democratiche sembravano definitive e irreversibili.
Negli anni Novanta il tema si è riproposto con la nascita di Alleanza Nazionale, guidata da un leader come Gianfranco Fini, il quale riesce nell’operazione di collocare il partito nell’area del centrodestra, liberandolo della pesante eredità fascista che aveva il Msi. Si trattò di un’operazione politica in gran parte riuscita, che fece uscire dall’isolamento la destra postfascista, portandola non solo al governo degli enti locali ma perfino di quello nazionale. A poco servì a quel tempo la ripresa, peraltro condita più di retorica che di vera analisi politica, dell’antifascismo e del neofascismo come pericolo per la nostra democrazia. otrebbe dunque sembrare una forzatura riaprire oggi la questione del fascismo. Ma lo è veramente? In una conferenza del 1995, Umberto Eco parlò del «fascismo eterno», detto anche «Ur-Fascismo» (Il fascismo eterno, La nave di Teseo). Secondo Eco il fascismo potrebbe sempre riaffacciarsi «in abiti civili» e «sotto le spoglie più innocenti» a tutte le latitudini. Credo che oggi, in un panorama politico che non pone più il problema che poneva la sinistra del primo dopoguerra, il tema del fascismo vada posto in relazione alla evidente crisi della democrazia e delle sue istituzioni.
Le trasformazioni culturali, sociali ed economiche degli ultimi decenni, soprattutto in seguito alla crisi economica scoppiata in P America nel 2008 e propagatasi negli anni successivi anche in Europa, hanno fatto sì che il tema della democrazia non venga più avvertito come fondamentale. I ceti medi più esposti alla crisi, i giovani disoccupati, i pensionati che faticano ad arrivare alla fine del mese, i professori e gli impiegati demotivati, non vedono più nella democrazia un valore politico primario da difendere. Sono ormai lontani, nel ricordo di molti, i lutti e le distruzioni della Seconda guerra mondiale, e le limitazioni alla libertà che tra le due guerre mondiali hanno imposto regimi illiberali e totalitari. La 'paura' del ripetersi di tali esperienze, forse giustamente, non fa più presa. Ma stanno venendo meno tutti gli anticorpi nei confronti di nuovi possibili pericoli per la democrazia, che nessuno è al momento in grado di prevedere con precisione, ma che in un certo senso aleggiano minacciosamente.
«Lo Stato liberale e secolarizzato vive di presupposti che non può garantire. Questo è il grande rischio che lo Stato ha scelto di correre per amore della libertà». Questo teorema, che risale al filosofo del diritto tedesco Wolfgang Böckenförde, ci mette in guardia dal considerare la democrazia un fatto definitivamente acquisito. Ma non tanto la democrazia come insieme di procedure formali che regolano la vita sociale. Böckenförde intende infatti la democrazia come un costume, ovvero come una consuetudine in cui i cittadini si sentono parte di una 'casa comune' affidata alla responsabilità di ciascuno, con compiti diversi ma ugualmente importanti. Ed è qui che si pone appunto la questione del fascismo, inteso come soluzione d’uscita da una crisi generale. Un’uscita che si ripropone come via breve e semplice, una scorciatoia rispetto alle faticose mediazioni che richiede il processo democratico. questo punto non si tratta di individuare i soggetti politici che possono farsi interpreti di questo passaggio involutivo A della nostra democrazia. E non si tratta neanche di vedere in questo o quel capo politico il nuovo 'duce'. Sono infatti più di venti anni che l’Italia, dopo un breve periodo, ha fatto passare, con un movimento inverso a quello di manzoniana memoria, «dall’altare alla polvere» un numero sterminato di leader, da Berlusconi a Renzi, passando per Prodi, D’Alema, Fini, Monti, Letta e altri. Ed è assai probabile che i leader politici dell’attuale momento facciano prima o poi la stessa fine. I n questo clima, si ripropone la questione del fascismo, in termini assolutamente nuovi. Un fascismo che ci rimanda ad alcune acute analisi psicosociali, come la nozione di «servitù volontaria» (De La Boetie) e di «dispotismo morbido» ( Tocqueville). Venute meno le appartenenze di classe, dove la casta (o meglio le caste) costituiscono esclusivamente la tutela di interessi particolari senza nessun vincolo di appartenenza, ci si affida, dice Toqueville, a «un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un’infanzia perpetua. Lavora volentieri alla felicità dei cittadini ma vuole esserne l’unico agente, l’unico arbitro. Provvede alla loro sicurezza, ai loro bisogni, facilita i loro piaceri, dirige gli affari, le industrie, regola le successioni, divide le eredità: non toglierebbe forse loro anche la forza di vivere e di pensare?». P iù che un fascismo che toglie le libertà, l’«Ur-fascismo» di cui parla Eco sarebbe dunque un fascismo che invita a rinunciare volontariamente alla libertà, in cambio di alcune concessioni e garanzie, come fa il Grande Inquisitore di Dostoevskij nei confronti di Cristo, reo – a suo giudizio – di aver predicato la libertà a un popolo che chiedeva solo pane e giochi in un clima di totale sicurezza.
* Docente di Filosofia morale, Pontificia Università 'Antonianum' Roma
www.avvenire.it  


IL PETTEGOLEZZO E LA CALUNNIA, mali da estirpare

IL PETTEGOLEZZO, 
TRA MALIZIA E SUPERFICIALITA’
La nuova opera di don Leoluca Pasqua [1]

Ne uccide più la lingua che la spada!” (Sir 8,18). Maldicenza e pettegolezzo vengono da lontano. Purtroppo, fanno parte dell’agire umano, condizionando negativamente le persone e la società. Sono tarli che, più o meno lentamente, provocano gravi danni e finanche annientano la persona e  distruggono le istituzioni e le comunità.
Papa Francesco ha molto a cuore il problema. Sin dall’inizio del suo servizio apostolico sovente ha condannato chi parla male degli altri. Egli non tollera il perfido “venticello” della calunnia. «Se parli male del fratello, uccidi il fratello. Ogni volta che lo facciamo, imitiamo il gesto di Caino, il primo omicida della storia» ha detto. Ancora: «Non ci sono chiacchiere innocenti. Quando usiamo la lingua per parlare male del fratello o della sorella, la usiamo per uccidere Dio. Meglio mordersi la lingua. Ci farà bene: la lingua si gonfia e non si può parlare, così non si possono fare chiacchiere». 
L’Autore del libro, padre Leoluca Pasqua, ha curato numerose e pregevoli pubblicazioni su attuali tematiche spirituali e sociali. Anche quest’ultima opera, di facile e piacevole lettura, è frutto delle sue riflessioni e delle esperienze vissute nelle comunità in cui ha prestato servizio.
Egli scandaglia le cause e le dinamiche del pettegolezzo e le dannose conseguenze che esso provoca nella persona e nella società. Non si ferma a esaminare gli aspetti negativi ma, con sapienza e saggezza pastorale, esalta la virtù della prudenza e favorisce la comprensione dei rimedi, nonché delle strategie virtuose (pazienza, sdrammatizzazione, bene-dizione) per vincere questo dannoso modo di pensare e agire.
L’ultima parte dell’opera presenta brani scelti tratti dagli insegnamenti di santi e dello stesso papa Francesco.
Di fronte al calunnioso e talora rissoso spettegolare dei nostri tempi, di fronte al martellante ping-pong e alle continue esternazioni dei mille personaggi che invadono i mezzi di comunicazione che disorientano il nostro pensare ed agire quotidiano e guastano le relazioni umane, di fronte all’autoreferente, strumentale,  arrogante, malvagio o superficiale uso di maldicenze e fake-news, l’Autore lamenta la crisi della parola:  siamo vittime di turbolente tempeste di parole prive di parola. C’è un mitragliar di chiacchiere, urlate o accuratamente e maliziosamente sparse sottovoce come malefica zizzania, dette a sproposito, che provocano frastuono, malumori, disinformazione, litigiosità, confusione e divisione.
E’ una crisi dovuta principalmente alla mancanza di silenzio e di riflessione. “E’ nel silenzio il luogo in cui la parola acquista tutta la sua potenza e diventa capace di essere vera, piena, precisa e significativa”, scrive l’Autore. Egli ci invita a vedere ed apprezzare/esaltare il bene che c’è nell’altro, a potenziare in noi e nell’ambiente ove operiamo le virtù del silenzio riflessivo, del discernimento, del parlar pensoso e responsabile, della caritatevole e saggia correzione fraterna, del ben-volere piuttosto che del mal-volere. L’educazione al bene-dire/volere inizia nella famiglia, si rafforza nella scuola e nelle istituzioni, si fa virtuoso esercizio quotidiano per divenire stile del vivere personale e sociale.
E’ una chiamata al coraggioso personale e comunitario impegno volto a sconfiggere - come scrive don Leoluca Pasqua - “questa vera e propria piaga sociale che ha bisogno di essere risanata per avviare nuovi percorsi comunicativi, dove il parlare non diventi uno sparlare o la curiosità di intromettersi nella vita dell’altro o il prurito di comunicare a tutti i costi qualche notizia, possa lasciare spazio alla riservatezza e, perché no, al silenzio caritatevole”.
La lettura dell’opera può essere una preziosa occasione di riflessione e maturazione per ogni persona e per ogni comunità.
Giovanni Perrone  [2]


[1]  Leoluca Pasqua (nato nel 1967), dopo aver conseguito la laurea in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università di Udine, ha studiato Teologia alla Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia. Sacerdote della Diocesi di Palermo, già esorcista e parroco, attualmente è padre spirituale nel Seminario Arcivescovile di Palermo e Vicario Episcopale. Tra le sue pubblicazioni: L’inganno della magia. Come liberarsi dai falsi profeti (2007), La preghiera che libera. Ostacoli, deviazioni e tendenze magiche nella preghiera cristiana (2007); Lottare per vivere. Il combattimento spirituale (2008); Dal Rancore al perdono (2015); Fatta per amore. La correzione fraterna (2016). Diverse opere sono state tradotte in varie lingue.

[2]  Segretario generale UMEC-WUCT, Unione Mondiale Insegnanti Cattolici






sabato 26 gennaio 2019

OGGI SI E' COMPIUTA LA SCRITTURA

Lc 1,1-4; 4,14-21

Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.
Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
«Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi
e proclamare l’anno di grazia del Signore».

Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Commento di p. Enzo Bianchi

Nel dare forma alla buona notizia, il Vangelo, attraverso il racconto, Luca ha la consapevolezza di una propria responsabilità davanti a Dio e agli uomini. Davanti a Dio deve essere un “servo della Parola”, capace di tenere conto di altri scrittori precedenti a lui e più autorevoli di lui: “i testimoni oculari”, quelli che hanno vissuto nell’intimità e nella vita pubblica con Gesù (cf. At 1,21-22); davanti agli uomini sente il dovere di rispondere a quei primi cristiani della sua comunità, dando loro una parola come cibo capace di nutrire e confermare la loro fede. Per questo ha composto quello che chiamiamo il terzo vangelo, attingendo con cura alla tradizione apostolica ma nello stesso tempo scrivendo con le sue capacità e la sua sensibilità a dei cristiani di lingua greca negli anni 70-80 della nostra era. Il Vangelo è un canto a quattro voci, quattro racconti, quattro memorie: ma il canto polifonico resta un solo canto, e uno solo è il Vangelo fatto carne, uomo (cf. Gv 1,14), Gesù di Nazaret.

Luca è molto attento a testimoniare la presenza dello Spirito di Dio in Gesù. Gesù – che è la Parola di Dio (cf. Gv 1,1) – e lo Spirito santo sono “compagni inseparabili” (Basilio di Cesarea), dunque dove Gesù parla e agisce là c’è anche lo Spirito. Nei capitoli precedenti del vangelo, quelli riguardanti la venuta nel mondo del Figlio di Dio, Luca ha mostrato che egli è stato concepito nell’utero di Maria grazie alla potenza dello Spirito santo (cf. Lc 1,35), e la sua apparizione pubblica quale discepolo di Giovanni il Battista, che lo ha immerso nel Giordano, è stata sigillata dalla discesa su di lui dello Spirito santo (cf. Lc 3,22). Proprio questo Spirito conduce Gesù nel deserto, dove viene tentato dal demonio (cf. Lc 4,1-2a), e lo accompagna – è l’inizio del nostro brano liturgico – quando ritorna in Galilea, la sua terra, dalla quale si era allontanato per andare nel deserto e mettersi alla sequela del profeta battezzatore. Con questa insistenza Luca è intenzionato a far comprendere al lettore che Gesù è “ispirato”, che la sua sorgente interiore, il suo respiro profondo è lo Spirito di Dio, il Soffio del Padre. Non è un profeta come gli altri, sui quali lo Spirito scendeva momentaneamente, perché in lui lo Spirito riposava, sostava, dimorava (cf. Gv 1,32), lo riempiva di quella forza (dýnamis) che non è potere, ma partecipazione all’azione e allo stile di Dio.

E cosa fa Gesù nel suo ritorno alla “Galilea delle genti” (Mt 4,15Is 8,23), terra periferica e impura? Va a “insegnare nelle sinagoghe”. Per iniziare la sua missione non ha scelto né Gerusalemme né il tempio, ma quelle umili sale in cui si riunivano i credenti per ascoltare le sante Scritture e offrire il loro servizio liturgico al Signore. Nelle sinagoghe di sabato si facevano preghiere, poi si leggeva la Torah (una pericope, una parashah del Pentateuco), la Legge, quindi si pregavano Salmi e, a commento della Torah, si proclamava un brano (haftarah) tratto dai Profeti. Non era una liturgia diversa da quella che ancora oggi noi cristiani compiamo ogni domenica. Gesù è ormai un uomo di circa trent’anni, non appartiene alla stirpe sacerdotale, quindi non è un sacerdote, è un semplice credente figlio di Israele ma, diventato a dodici anni “figlio del comandamento” (cf. Lc 2,41-42), è abilitato a leggere pubblicamente le sante Scritture e a commentarle, facendo l’omelia.

E così accade che quel sabato, proprio nella sinagoga in cui la sua fede era stata nutrita fin dall’infanzia, quando abitava a Nazaret, mediante le liturgie comunitarie, Gesù sale sull’ambone e, aperto il rotolo che gli viene dato, legge la seconda lettura il brano previsto per quel sabato: il capitolo 61 del profeta Isaia. Questo testo è l’autopresentazione di un profeta anonimo che testimonia la sua vocazione e la sua missione:

Lo Spirito del Signore è sopra di me,
per questo mi ha unto (échrisen)
e mi ha inviato per annunciare la buona notizia ai poveri,
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista,
per rimandare in libertà gli oppressi,
per proclamare l’anno di grazia del Signore (Is 61,1-2a).

Chi è questo profeta senza nome, presentato da Isaia? Quale la sua identità? Quale sarà la sua missione? Quando la sua venuta tanto attesa? Queste certamente le domande che sorgevano alla lettura di quel testo.

Gesù, dopo aver letto il brano tralasciando i versetti finali che annunciavano “un giorno di vendetta per il nostro Dio” (Is 62,2b), lo commenta con pochissime parole, così riassunte da Luca:

Oggi si è realizzata questa Scrittura (ascoltata) nei vostri orecchi.

Oggi, oggi (sémeron) Dio ha parlato e ha realizzato la sua Parola. Oggi, perché quando un ascoltatore accoglie la parola di Dio, è sempre oggi: è qui e adesso che la parola di Dio ci interpella e si realizza. Non c’è spazio alla dilazione: oggi! È proprio Luca a forgiare questa teologia dell’“oggi di Dio”. Per ben dodici volte nel suo vangelo risuona questo avverbio, “oggi”, di cui queste le più significative: per la rivelazione fatta dagli angeli a Betlemme (cf. Lc 2,11);
per la rivelazione ad opera dalla voce celeste nel battesimo (cf. Lc 3,22; variante che cita Sal 2,7); nel nostro brano, come affermazione programmatica (cf. Lc 4,21); durante il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (cf. Lc 13,32.33); come annuncio della salvezza fatto da Gesù a Zaccheo (cf. Lc 19,5.9); come parola rivolta a Pietro quale annuncio del suo rinnegamento (cf. Lc 22,34.61); come salvezza donata addirittura sulla croce, a uno dei due malfattori (cf. Lc 23,43).

Oggi è per ciascuno di noi sempre l’ora per ascoltare la voce di Dio (cf. Sal 95,7d), per non indurire il cuore (cf. Sal 95,8) e poter così cogliere la realizzazione delle sue promesse. La parola di Dio nella sua potenza risuona sempre oggi, e “chi ha orecchi per ascoltare, ascolti” (Lc 8,8; cf. Mc 4,9Mt 13,9). Oggi si ascolta e si obbedisce alla Parola o la si rigetta; oggi si decide il giudizio per la vita o per la morte delle nostre vicende; oggi è sempre parola che possiamo dire come ascoltatori autentici di Gesù: “Oggi abbiamo visto cose prodigiose” (Lc 5,26). E possiamo dirla anche dopo un passato di peccato: “Oggi ricomincio”, perché la vita cristiana è andare “di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine” (Gregorio di Nissa).

Gesù è dunque il profeta atteso e annunciato dalle sante Scritture, il profeta ultimo e definitivo, ma questo non lo proclama apertamente, bensì lascia ai suoi ascoltatori di comprendere la sua identità facendo discernimento sulle azioni che egli compie, accogliendo la novità della buona notizia da lui annunciata. Gesù è il Cristo, il Messia unto da Dio (échrisen), non con un’unzione di olio ma attraverso lo Spirito santo; è l’inviato per portare ai poveri, sempre in attesa della giustizia, il Vangelo; per proclamare ai prigionieri di ogni potere la liberazione; per dare la vista ai ciechi; per liberare gli oppressi da ogni forma di male; per annunciare l’anno di grazia del Signore, il tempo della misericordia, dell’amore gratuito di Dio.

Missione profetica questa, che Gesù ha inaugurato con segni e parole, ma missione affidata ai discepoli nel loro abitare la storia nella compagnia degli uomini. Sì, queste parole di Gesù ci possono sembrare una promessa mai realizzata, perché i poveri continuano a gridare, gli oppressi e i prigionieri continuano a gemere e neppure i cristiani sanno vivere la misericordia di Dio annunciata da Gesù. Eppure questa liturgia della Parola, che ha avuto in Gesù non solo il lettore e l’interprete, ma soprattutto colui che l’ha compiuta e realizzata, illumina tutto il suo ministero: da Nazaret, dove egli l’ha inaugurata nella sinagoga, a Gerusalemme, dove in croce porterà a compimento la sua missione.


SHOAH - DIMENTICARE LO STERMINIO FA PARTE DELLO STERMINIO STESSO


di Pasquale Hamel

Anche oggi, che il ritmo della vita moderna assorbe le nostre menti in modo totalizzante, ricordare l’immane tragedia della Shoah è necessario perché, come spesso sentiamo ripetere, c’è il rischio di dimenticare quanto invece non può e non deve essere dimenticato. 
Ha ragione, dunque, Elisa Springer - che ha personalmente conosciuto cosa è stata la Shoà - nell’affermare che “tanto grande è il rischio di dimenticare, che occorrerebbe un anniversario di Auschwitz al giorno!”. 
Ma la memoria non va strumentalizzata e, per ciò stessa, confusa con altre tragedie che giornalmente riempiono le cronache dei nostri giornali come, purtroppo, spesso qualcuno anche per miserabili giochi politici tenta di fare, perché come scrive Elena Loewenthal, quanto accadde in quei terribili anni che vanno dal 1942 al 1945 “fu un evento senza precedenti perché mai era stato deciso a tavolino lo sterminio, l’annientamento di un popolo in quanto tale”. Un atto, dunque, di suprema barbarie del quale, come figli della civiltà europea, dovremmo tutti vergognarci perché quei carnefici, checché se ne dica, erano partecipi della nostra stessa cultura e, come ha evidenziato Hanna Arendt, erano uomini come noi, formati e informati della nostra storia e, per di più, ciascuno di loro “era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso.” 
Esiste, dunque, un dovere della memoria, un ricordare per non dimenticare che deve diventare monito collettivo e individuale giornaliero anche perché, lo scrive con coraggio Zigmunt Bauman, “Il sospetto è che l’Olocausto non sia stato un’antitesi della civiltà moderna e di tutto ciò che (secondo quanto ci piace pensare) essa rappresenta. Noi sospettiamo (anche se ci rifiutiamo di ammetterlo) che l’Olocausto possa semplicemente aver rivelato un diverso volto di quella stessa società moderna della quale ammiriamo altre e più familiari sembianze; e che queste due facce aderiscano in perfetta armonia al medesimo corpo”. 
Questo terribile sospetto non può che essere fugato da una vigilanza attiva, dal trasformare il mero ricordo in memoria viva per trasmetterlo e consegnarlo alle generazioni future, perché l’orrore non si ripeta. 
La memoria della Shoà non può dunque essere assimilata alle consuete celebrazioni retoriche, memorie cristallizzate e meramente istituzionalizzate, ma, credo, debba assumere, proprio per i motivi che abbiamo sommariamente elencato, un significato più profondo e, ad un tempo, più drammatico perché diventa riflessione sullo stesso senso dell’essere uomo in questo mondo. Dunque, ricordare, fare memoria, è dovere morale anche perché, è bellissima questa frase del grande regista Jean-Luc Godard che qui mi pregio di trascrivere a conclusione, “dimenticare lo sterminio fa parte dello sterminio stesso.”

MATTARELLA: " .... Sono passati settantaquattro anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. Eppure, nonostante il tanto tempo trascorso, l’orrore indicibile che si spalancò davanti agli occhi dei testimoni è tuttora presente davanti a noi, con il suo terribile impatto. Ci interroga e ci sgomenta ancora oggi.
Perché Auschwitz non è soltanto lo sbocco inesorabile di un’ideologia folle e criminale e di un sistema di governo a essa ispirato. Auschwitz, evento drammaticamente reale, rimane, oltre la storia e il suo tempo, simbolo del male assoluto. Quel male che alberga nascosto, come un virus micidiale, nei bassifondi della società, nelle pieghe occulte di ideologie, nel buio accecante degli stereotipi e dei pregiudizi. Pronto a risvegliarsi, a colpire, a contagiare, appena se ne ripresentino le condizioni.... " 


giovedì 24 gennaio 2019

PAPA FRANCESCO: COMUNIONE O LIKE?

Dalla connessione alla comunione. 
 Dalla menzogna alla verità. 
Dal “like” all’“amen”. 

Papa Francesco sceglie la dimensione del “passaggio” come centro del suo Messaggio per la 53ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, intitolato “Siamo membra gli uni degli altri (Ef 4,25). Dalle community alle comunità” e diffuso oggi, come da tradizione, nella solennità di San Francesco di Sales». A spiegarlo è Massimiliano Padula, presidente del Copercom, il Coordinamento delle associazioni per la comunicazione.
«Il Pontefice – osserva Padula – ci regala una riflessione illuminata sulla nostra identità in Rete. Un’identità spesso disumanizzata che ci espone a derive come “la disinformazione, la distorsione consapevole e mirata dei fatti e delle relazioni interpersonali, che spesso assumono la forma del discredito”. E che si traducono in fenomeni devianti come il cyberbullismo e gli eremiti sociali.
Ma la rete non è soltanto questo – aggiunge il Presidente – e Francesco ce lo spiega quando cita San Paolo e la sua metafora del corpo e delle membra. Essere membri gli uni degli altri significa abbandonare le tentazioni della menzogna e far prevalere la verità. In tutti gli spazi e tempi della nostra esistenza compresi quelli online. Per questo – continua Padula – Francesco ci richiama a riflettere continuamente su chi siamo in rete attraverso la scoperta dell’altro “in modo nuovo, come parte integrante e condizione della relazione e della prossimità”».

«Soltanto così – conclude il Presidente del Copercom – la connessione digitale potrà tradursi in autentica comunione da proiettarsi anche nel web sociale che, come ci ricorda il Papa, è “complementare all’incontro in carne ed ossa”, perché “vive attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo, il respiro dell’altro”».   

                                         PER LA 53ma GIORNATA MONDIALE



martedì 22 gennaio 2019

IMMIGRAZIONE. RESTIAMO UMANI !

Appello ecumenismo migranti accoglienza

Nella settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, cattolici ed evangelici lanciano un appello comune: “Sull’immigrazione si deve cambiare linguaggio e intervenire: salvare chi è in pericolo, ampliare i corridoi umanitari, aprire nuove vie di ingresso regolare”.
Il testo, disponibile in allegato, si chiude con un invito a costruire un consenso su alcuni punti qualificanti sui quali le Chiese sono pronte a offrire il loro contributo: “Per quanto divisivo il tema dell’immigrazione è così serio e grave da non potersi affrontare senza cercare una piattaforma minima di istanze e procedure condivise. Questo auspichiamo e per questo ci mettiamo a disposizione con la nostra esperienza e i nostri mezzi, pronti a collaborare sia con le autorità italiane che con quelle europee”.
Le firme in calce all’appello sono quelle del Past. Eugenio Bernardini, Moderatore della Tavola valdese, del Prof. Marco Impagliazzo, Presidente della Comunità di Sant’Egidio, del Past. Luca M. Negro, Presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, e di Mons. Stefano Russo, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana.

sabato 19 gennaio 2019

FATE QUELLO CH'EGLI VI DIRA'


Visualizza Gv 2,1-11
                                                                                                                  Commento di padre Antonio Rungi
La parola di Dio di questa seconda domenica del tempo ordinario ci invita a non tacere di fronte al male e a fa circolare il bene e a diffonderlo in tutti i modi. Il profeta Isaia, nel brano della prima lettura ci dice esattamente questo: per amore di Sion egli non farà silenzio, ma parlerà fin a quando non vedrà affermata la giustizia e la verità. In poche parole ci invita ad essere coraggiosi nel difendere il bene in generale e soprattutto quella della famiglia. Chi si pone dalla parte della famiglia si pone dalla parte di Dio, perché Dio è comunione e Trinità d'amore.
Non a caso oggi il Vangelo ci porta idealmente, con Gesù e Maria, nella casa di una giovane coppia di coniugi che insieme a loro invitati, festeggiano il primo giorno del loro matrimonio. E' un dei testi più belli riguardanti la famiglia cristiana, santificata dalla presenza di Gesù, Maria e gli Apostoli del Signore.
Questo coraggio ci viene sollecitato da Paolo, nella seconda lettura di oggi, tratta dalla sua prima Lettera ai Corinzi, nella quale si parla dei carismi, da mettere al servizio di tutti. Infatti ci ricorda che “vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune”.
I carismi principali citati sono: il linguaggio di sapienza, il linguaggio di conoscenza, la fede, il dono delle guarigioni, il potere dei miracoli, il dono della profezia, il dono di discernere gli spiriti, la varietà delle lingue, l'interpretazione delle lingue.
In base a questi doni, ognuno si deve fare evangelizzatore di gioia e speranza nelle famiglie di oggi, come ci chiede il testo del Vangelo delle nozze di Cana, nel quale è riportato il primo miracolo compiuto da Gesù, su richiesta della sua mamma. La celebre trasformazione dell'acqua in vino per soccorrere una coppia di sposi.
Questo primo intervento miracoloso di Gesù, è bene metterlo in evidenza, lo compie in un contesto familiare, all'inizio di un percorso coniugale di due sposi, che sicuramente erano di giovane età. Al di là del miracolo, molto significativo, come risalta da tutto il contesto del racconto giovanneo, anche in questa circostanza viene esaltata la figura di Gesù come Figlio di Dio. Il Quale, di fronte alla richiesta di sua Madre di intervenire per risolvere il problema grave che era sorto, afferma che “non era ancora giunta la sua ora”, cioè quella della piena rivelazione della sua divinità. “Ora” che nel vangelo di Giovanni e in tutta la sua riflessione teologica sulla figura di Cristo coincide con la sua morte in croce e con la sua risurrezione, ovvero con la sua Pasqua.
Come sappiamo il vino rimanda all'eucaristia, all'ultima cena, quando Gesù istituisce il sacramento del suo corpo e del suo sangue e consegue agli apostoli il calice con queste parole “Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me”. E' evidente che c'è uno stretto rapporto tra questo miracolo, l'eucaristia e la passione, morte e risurrezione di Gesù.
Questo miracolo avviene in un contesto di una festa di matrimonio. Segno evidente che la famiglia è il luogo privilegiato dell'amore naturale, nella quale la presenza di Cristo è assicurata in modo singolare. In questo miracolo si comprende meglio l'importanza del sacramento del matrimonio, che è benedetto dal Signore e sostenuto dalla sua presenza costante e vigilante. Il Concilio Vaticano II ha definito la famiglia “Chiesa domestica”. A conferma che il matrimonio, come tutti i sacramenti, si celebra in una comunità di credenti ed esprime la fede e la gioia di una comunità in festa.
La presenza di Maria in questa e in altre circostanze della vita delle persone e soprattutto della famiglia, non è affatto secondaria. Anzi potremmo dire che essa è strategica ed essenziale al fine di ottenere quell'aiuto divino sempre e specialmente nelle difficoltà di tutti i giorni. E nelle famiglie del tempo di Gesù come quelle del nostro tempo non mancano difficoltà di ogni genere, a partire dalla mancanza di armonia, pace, amore ed unione.
Anche in questa intercessione di Maria presso il suo Figlio vediamo quella che è la funzione di Maria a favore della famiglia. La Madonna, infatti, rivela alle nozze di Cana, tutto il suo cuore tenero di madre, attenta ai bisogni dei suoi figli, soprattutto più giovani, fragili e indecisi. E' la Madre che ottiene le grazie dal suo Figlio, da cui si attende tutto ciò che Gli chiede in ogni circostanza.
Tutta la struttura del miracolo, così come descritto e raccontato da Giovanni ha una finalità ben precisa, quella di rivelare la potenza di Cristo e suscitare la fede nei discepoli e nelle persone che seguivano Gesù. Infatti, scrive Giovanni, commentando il fatto: "Questo, a Cana di Galilea, fu l'inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui".
Il miracolo, qualsiasi miracolo che viene dal cielo, per intercessione della Madonna o dei santi o ci confermano nella fede o la suscitano in quel momento, se si ha il cuore libero e la docilità allo Spirito per vedere in essi l'intervento divino.
E di miracoli, ancora oggi, il Signore ne fa tantissimi, molte volte a noi sconosciuti, come fu ignoto il miracolo di Cana allo sposo, al direttore di mensa e agli invitati che bevvero quel vino di Gesù e di Maria, senza neppure ringranziarlo per il dono ricevuto.
Capita spesso, anche oggi, che si è miracolati, senza saperlo e senza neppure ringraziare il Signore per dono che ci ha fatto, mediante l'intercessione in primo luogo della sua Mamma, alla Quale non dirà mai e poi mai di no.




STORIA. PERCHÉ' TANTO DISINTERESSE?

«Studiare storia al contrario:
 alle elementari, raccontiamogli 
dei loro nonni»
                                                                                                                                   
                           di  Paolo Fallai

Studiare la storia al contrario, partendo dal Novecento alle elementari. «Altro che miti e leggende, raccontiamogli dei loro nonni». E’ molto netto il giudizio di Andrea Giardina, uno dei più importanti storici italiani, presidente della Giunta centrale per gli studi storici. Giardina torna anche sull’ultima polemica, dopo il ridimensionamento della Storia allo scritto della Maturità, deciso dal Ministero della Pubblica istruzione: «Le tracce per i temi storici della maturità, come sono state formulate negli ultimi dieci anni, sono dissuasive, deterrenti, fuori dal panorama culturale. Sono tracce bizzarre che disorientano. Inviterei gli esperti del ministero ad andare a rileggersi le tracce di storia che sono state date ai maturandi negli ultimi 10 anni. Avrebbero subito la risposta sul perché non sono state scelte. La loro stranezza è l’elemento più forte. Non so se c’è una tradizione per cui chi scegliere tracce dell’esame di maturità va a controllare cosa è stato fatto negli anni precedenti e quindi ripropone scelte così aberranti . Comincerei a riflettere sui criteri per stabilire a chi vengono affidate queste scelte».
Ma il problema dello studio della storia può limitarsi all’esame?
«Il problema di fondo è come si studia la storia, in particolare la sottovalutazione della storia contemporanea che nelle nostre scuole è ormai cronica. Si sono fatti dei piccoli progressi negli ultimi anni ma è la parte più sacrificata, specialmente da quando è stato tolto spazio riducendo le ore di storia delle classi superiori. Non è un problema solo italiano».
Quindi bisognerebbe aumentare le ore?
«Non solo. E’ il rapporto fra coscienza civile e passato ad essersi deteriorato. Perfino quando e dove si studia la storia, lo si fa con strumenti deboli. L’approfondimento subisce la concorrenza dei messaggi semplificati che arrivano via web».
Ritiene che sia un problema delle scuole superiori?
«No, la storia contemporanea dovrebbe essere studiata precocemente. La coscienza del tempo arriva tardi nei giovani, è un fenomeno post adolescenziale, la tendenza prevalente è quella di appiattire il passato. Bisogna costruire percorsi in cui lo studio della storia sia in relazione allo sviluppo delle capacità dei giovani di connettersi con la dimensione del tempo».
Pensa che sia necessario anticipare questo studio?
«Bisogna cominciare dalle elementari: bisogna parlare ai bambini del presente, non somministrare loro questa caricatura di miti, favole e leggende. Bisogna raccontare loro di quello che è accaduto ai genitori, ai loro nonni. Per i bambini tra i nonni e Adamo ed Eva non c’è alcuna distanza.»
Siamo alla vigilia delle iniziative per il giorno della Memoria. Crede che stiamo facendo il possibile per raccontare l’Olocausto e la guerra mondiale?
«Proprio in questi giorni emergono tutte le debolezze della cultura generale del nostro paese. Nella coscienza diffusa, così come della propaganda politica prevale la rappresentazione del buon fascista italiano contrapposto al cattivo nazista. Il fatto che in Italia non ci sia stata una Norimberga per i crimini di guerra fascisti può far pensare che si tratti di una storia altrui. Purtroppo non è così: una seria autocritica della nostra nazione non c’è mai stata, anche per responsabilità della sinistra».
Eppure oggi i giovani hanno a disposizione un numero di informazioni che nessuna generazione precedente ha avuto.
«Ma è come se fossero condannati a vivere un eterno presente, che ci viene propinato dalla rete e dai social media. Le notizie, perfino quelle false, hanno una vita brevissima, scandita dalla velocità con cui vengono consumate. Studiare la storia non serve solo a fornire elementi decisivi per la conoscenza dei nostri giovani. Deve aiutarli a capire qual è il loro posto nel mondo. Questa consapevolezza non c’è.
E tanto meno possono averla i più giovani. Come fanno a comprendere cosa vuol dire essere oggi degli italiani se non hanno la cognizione di quanto vivono in una dimensione globale. La scuola potrebbe e dovrebbe fare molto di più su questo: non c’è niente di peggio che vivere in una dimensione senza avere la coscienza di esserci».


Da: Corriere della sera




venerdì 18 gennaio 2019

ROGOREDO. EMOZIONI FORTI PER UNA VITA VUOTA

Don Mazzi su Rogoredo: «Questi ragazzi cercano emozioni forti perché la loro vita è vuota»

  «Noi adulti abbiamo fallito perché li abbiamo messi al mondo ma non gli abbiamo dato radici».

Fanno il giro sul web le immagini agghiaccianti di due ragazzi che fumano eroina sulla metro gialla appena saliti alla fermata Rogoredo, alla periferia di Milano. Ragazzi che provenivano dal cosiddetto "Bosco della droga" perché di questo si tratta. Un punto di ritrovo del Nord Est di tutti coloro che consumano eroina. Don Antonio Mazzi, fondatore di Exodus che effetto le fa?
«Per noi non esiste l’effetto del 13 o del 17 gennaio, è un fenomeno che conosciamo molto bene e si esprime in varie maniere. È esploso e dobbiamo smettere di parlare solo di Rogoredo ma tornare alla vita quotidiana sennò ripetiamo l’errore di Parco Lambro quando la droga da lì poi è andata in Stazione Centrale, per le strade, nelle piazze e nei sottopassi. Questa foto ci impressiona perché sono ragazzi mentre allora erano adulti, gente distrutta e disfatta. Questi sono giovani che hanno tutto a casa, non i disperati di 30 anni fa».
Lei è stato tra i primi a fare un salto a Rogoredo
«Quello che mi ha impressionato due mesi è che ho incontrato un ragazzo di 14 anni che andava a cercare lo spacciatore per prendere l’eroina a tre euro e farsi tutta la cerimonia. Voleva bucarsi, sentire quell’emozione che non gli danno le droghe chimiche di cui si è stufato. “Ed è inutile che ci insegnate che si muore” mi ha detto “lo sappiamo perfettamente e sono fatti nostri”. Aveva bisogno dell’emozione forte. Mi ha spiazzato che un quattordicenne mi tirasse fuori il vecchio rituale della siringa e del sangue perché deve provare lo sballo, visto che le droghe nuove ti mandano fuori di testa ma manca l’emozione forte. Questo mi diceva: “io vado, compro l’eroina, ho già la siringa, vado in un angolo e godo. Questo è il problema».
Che responsabilità abbiamo noi adulti?
«Di aver fatto dimenticare il passato ai nostri ragazzi, non gli dobbiamo insegnare come morivano una volta ma dare radici. Dove abbiamo buttato la cultura del passato? Gli adulti di oggi non hanno trasmesso la storia di ieri. Abbiamo dei ragazzi di 14 anni che non sanno niente di quello che è successo 15 anni fa. Questi sono ragazzi che nascono artificialmente. Invece noi siamo le radici dei nostri ragazzi, non quelle marce, ma quelle della storia anche positiva. Abbiamo tradito i nostri figli e non gli abbiamo dato le radici. Questo ragazzi di 14 anni veniva lì perché voleva emozioni. Punto».
Che risposte abbiamo noi adulti?
«Ieri la parte drammatica del Parco Lambro era drammatica perché drammatica era la vita; oggi il dramma di Rogoredo è che questi ragazzi vanno a cercare il dramma perché la vita è stupida. Quella era la droga che usciva dal dolore, dalla solitudine, dall’ingiustizia questa che esce dal capriccio o dal non sapere cos’è successo ieri. Oggi è l’eroina, domani potrebbe essere il suicidio. Mancano le motivazioni delle emozioni in giovani che non hanno radici, diventano grandi artificialmente attraverso la Tv, la scuola che non è scuola e compagnie che non sono di amici ma di persone con cui passare il tempo. Davanti a quel ragazzo di 14 anni mi sono sentito analfabeta. Spiazzato. Non abbiamo un progetto né strumenti. Perché non gli diamo motivazioni». 

da Famiglia Cristiana



PERCHÉ' SIANO UNA COSA SOLA

SETTIMANA PER L'UNITA' DEI CRISTIANI
Quando la società non ha più come fondamento il principio della solidarietà e del bene comune, assistiamo allo scandalo di persone che vivono nell’estrema miseria accanto a grattacieli, alberghi imponenti e lussuosi centri commerciali, simboli di strepitosa ricchezza. Ci siamo scordati della saggezza della legge mosaica, secondo la quale, se la ricchezza non è condivisa, la società si divide.

Papa Francesco: Oggi ha inizio la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, nella quale siamo tutti invitati a invocare da Dio questo grande dono. L’unità dei cristiani è frutto della grazia di Dio e noi dobbiamo disporci ad accoglierla con cuore generoso e disponibile. Questa sera sono particolarmente lieto di pregare insieme ai rappresentanti delle altre Chiese presenti a Roma, ai quali rivolgo un cordiale e fraterno saluto. Saluto anche la Delegazione ecumenica della Finlandia, gli studenti dell’Ecumenical Institute of Bossey, in visita a Roma per approfondire la loro conoscenza della Chiesa Cattolica, e i giovani ortodossi e ortodossi orientali che qui studiano con il sostegno del Comitato di Collaborazione Culturale con le Chiese Ortodosse, operante presso il Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Il libro del Deuteronomio immagina il popolo d’Israele accampato nelle pianure di Moab, sul punto di entrare nella Terra che Dio gli ha promesso. Qui Mosè, come padre premuroso e capo designato dal Signore, ripete la Legge al popolo, lo istruisce e gli ricorda che dovrà vivere con fedeltà e giustizia una volta che si sarà stabilito nella terra promessa.
Il brano che abbiamo appena ascoltato fornisce indicazioni su come celebrare le tre feste principali dell’anno: Pesach (Pasqua), Shavuot (Pentecoste), Sukkot (Tabernacoli). Ciascuna di queste feste richiama Israele alla gratitudine per i beni ricevuti da Dio. La celebrazione di una festa richiede la partecipazione di tutti. Nessuno può essere escluso: «Gioirai davanti al Signore, tuo Dio, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava, il levita che abiterà le tue città, il forestiero, l’orfano e la vedova che saranno in mezzo a te» (Dt 16,11).
Per ogni festa, occorre compiere un pellegrinaggio «nel luogo che il Signore avrà scelto per stabilirvi il suo nome» (v. 2). Là, il fedele israelita deve porsi davanti a Dio. Nonostante ogni israelita sia stato schiavo in Egitto, senza alcun possesso personale, «nessuno si presenterà davanti al Signore a mani vuote» (v. 16) e il dono di ciascuno sarà in misura della benedizione che il Signore gli avrà dato. Tutti riceveranno dunque la loro parte di ricchezza del paese e beneficeranno della bontà di Dio.
Non deve sorprenderci il fatto che il testo biblico passi dalla celebrazione delle tre feste principali alla nomina dei giudici. Le feste stesse esortano il popolo alla giustizia, ricordando l’uguaglianza fondamentale tra tutti i membri, tutti ugualmente dipendenti dalla misericordia divina, e invitando ciascuno a condividere con gli altri i beni ricevuti. Rendere onore e gloria al Signore nelle feste dell’anno va di pari passo con il rendere onore e giustizia al proprio vicino, soprattutto se debole e bisognoso.
I cristiani dell’Indonesia, riflettendo sulla scelta del tema per la presente Settimana di Preghiera, hanno deciso di ispirarsi a queste parole del Deuteronomio: «La giustizia e solo la giustizia seguirai» (16,20). In essi è viva la preoccupazione che la crescita economica del loro Paese, animata dalla logica della concorrenza, lasci molti nella povertà concedendo solo a pochi di arricchirsi grandemente. È a repentaglio l’armonia di una società in cui persone di diverse etnie, lingue e religioni vivono insieme, condividendo un senso di responsabilità reciproca.
Ma ciò non vale solo per l’Indonesia: questa situazione si riscontra nel resto del mondo. Quando la società non ha più come fondamento il principio della solidarietà e del bene comune, assistiamo allo scandalo di persone che vivono nell’estrema miseria accanto a grattacieli, alberghi imponenti e lussuosi centri commerciali, simboli di strepitosa ricchezza. Ci siamo scordati della saggezza della legge mosaica, secondo la quale, se la ricchezza non è condivisa, la società si divide.
San Paolo, scrivendo ai Romani, applica la stessa logica alla comunità cristiana: coloro che sono forti devono occuparsi dei deboli. Non è cristiano «compiacere noi stessi» (15,1). Seguendo l’esempio di Cristo, dobbiamo infatti sforzarci di edificare coloro che sono deboli. La solidarietà e la responsabilità comune devono essere le leggi che reggono la famiglia cristiana.
Come popolo santo di Dio, anche noi siamo sempre sul punto di entrare nel Regno che il Signore ci ha promesso. Ma, essendo divisi, abbiamo bisogno di ricordare l’appello alla giustizia rivoltoci da Dio. Anche tra i cristiani c’è il rischio che prevalga la logica conosciuta dagli israeliti nei tempi antichi e da tanti popoli sviluppati al giorno d’oggi, ovvero che, nel tentativo di accumulare ricchezze, ci dimentichiamo dei deboli e dei bisognosi. È facile scordare l’uguaglianza fondamentale che esiste tra noi: che all’origine eravamo tutti schiavi del peccato e che il Signore ci ha salvati nel Battesimo, chiamandoci suoi figli. È facile pensare che la grazia spirituale donataci sia nostra proprietà, qualcosa che ci spetta e che ci appartiene. È possibile, inoltre, che i doni ricevuti da Dio ci rendano ciechi ai doni dispensati ad altri cristiani. È un grave peccato sminuire o disprezzare i doni che il Signore ha concesso ad altri fratelli, credendo che costoro siano in qualche modo meno privilegiati di Dio. Se nutriamo simili pensieri, permettiamo che la stessa grazia ricevuta diventi fonte di orgoglio, di ingiustizia e di divisione. E come potremo allora entrare nel Regno promesso?

Il culto che si addice a quel Regno, il culto che la giustizia richiede, è una festa che comprende tutti, una festa in cui i doni ricevuti sono resi accessibili e condivisi. Per compiere i primi passi verso quella terra promessa che è la nostra unità, dobbiamo anzitutto riconoscere con umiltà che le benedizioni ricevute non sono nostre di diritto ma sono nostre per dono, e che ci sono state date perché le condividiamo con gli altri. In secondo luogo, dobbiamo riconoscere il valore della grazia concessa ad altre comunità cristiane. Di conseguenza, sarà nostro desiderio partecipare ai doni altrui. Un popolo cristiano rinnovato e arricchito da questo scambio di doni sarà un popolo capace di camminare con passo saldo e fiducioso sulla via che conduce all’unità.