Vangelo: Gv-2-13-22/
Il Vangelo di questa
domenica prosegue, nel vangelo di Giovanni, l’episodio delle nozze di Cana,
racconto simbolico che ci ricorda come ciò che chiamiamo Dio non abiti nei
cieli, ma là dove l’uomo si lascia amare e ama: è lì che comincia la festa.
Ora, immediatamente dopo
‘la festa’, Giovanni ci conduce nel luogo della religione, dove si respira
potere, performance, frustrazione e in ultima analisi, tristezza. Da una parte
la fede – partecipazione senza prestazione alla vita divina che ci attraversa –
dall’altra la fatica del merito e del mercato. Sono le due possibilità di
vivere la propria vita da credenti. A noi la scelta.
Nella storia, salvo rare
eccezioni, ha prevalso un mondo “religioso” che ha scelto il controllo invece
della fiducia, la dottrina al posto della vita, la fatica di conquistare il
cielo attraverso meriti e sacrifici, dimenticando che quel cielo ci abitava da
sempre. Ma non lo si è voluto credere, perché troppo bello per sembrare vero.
In fin dei conti – lo sappiamo – la religione è sempre amministrazione del
divino: è lei ad attestare chi può entrare, chi ne è escluso, quali norme
osservare per meritare il favore di un dio.
Ma Gesù è rimasto a Cana,
alla festa, ossia in quella postura umana chiamata fede per cui l’imperativo è
dono: non ciò che l’uomo deve ad un dio, ma ciò che l’Amore desidera donargli.
Per questo non può accettare il tempio trasformato in luogo di commercio, dove
tutto si risolve nel becero do-ut-des, io essere umano do qualcosa a te dio
altissimo affinché tu possa ricambiarmi in salute, sicurezza e protezione. Per
questo Gesù ha distrutto – in maniera definitiva sulla croce – l’immagine del
dio commerciante, convinto com’era che quella fosse la vera idolatria religiosa
da sconfiggere.
Giovanni colloca questo
gesto in prossimità della Pasqua — “dei Giudei”, precisa — quasi a dire: questa
è ancora una pasqua imperfetta, una liberazione solo rituale. Migliaia in quei
giorni salivano al tempio portando agnelli, denaro, e compiendo sacrifici. Un
culto che odorava di sangue e fatica. La Pasqua autentica si sarebbe compiuta
da lì a poco: sul legno della croce si aprirà la nuova geografia del divino:
non più verso l’alto, ma verso l’interno.
Da allora, la dimora di Dio è l’uomo vivente, come intuiva Ireneo; anzi potremmo dire “Dio” non è altro che la profondità stessa della vita che si dona, il cuore pulsante di ogni essere che ama. È qui la vera liberazione: non dal peccato morale, ma dalla paura di non essere amabili.
È bello costatare come il Vangelo di Giovanni non inizi con un dogma, ma con
una demolizione: quella del falso dio.
Solo chi lascia cadere il
dio del dovere potrà incontrare il Dio dell’essere. Solo chi smette di trattare
con il Cielo come con un commerciante potrà accorgersi che il Cielo è già
dentro di sé, come un respiro che non chiede nulla, se non di essere accolto.
E allora, forse,
comprendiamo che la fede non è un atto religioso, ma semplicemente un atto
umano.
Non si tratta di credere in dio, ma di credere come Dio: con la stessa fiducia,
la stessa gratuità, la stessa capacità di amare senza misura. Questo è il vero
tempio, questo il vino nuovo che continua a colmare le anfore del mondo, e fare
di ogni quotidiano una Cana dove si vive la festa.
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