davanti al baratro
-di MAURIZIO PATRICIELLO
Se
almeno imparassimo a tacere quando il nostro dire altro non fa che gettare
paglia secca sul fuoco ardente. L’acqua salata non spegne, al contrario,
accresce la sete fino a portarti alla follia. La vendetta non ha mai reso un
buon servizio al singolo e alla comunità.
Cinque
anni fa, durante una lite, un giovane viene colpito con un pugno. La morte lo
raggiunge dopo alcuni mesi. Il dolore dei genitori possiamo solo immaginarlo.
Franco, l’assassino, dice di aver aggredito Giuliano per difendersi, essendo
quest’ultimo armato. Dopo solo tre anni di carcere, Franco viene rimesso in
libertà. Così hanno deciso i giudici. Le sentenze si rispettano anche quando
non le condividiamo. L’ergastolo, la condanna a morte, la tortura del reo, i
lavori forzati, anche se applicate su richiesta, non potrebbero mai rendere
giustizia a colui al quale fu rapinato il sommo bene della vita. «Giustizia!»,
si grida da ogni dove.
Giustizia
che, per essere veramente tale, necessita di esperti, tempo, prove, accusa,
difesa. Il diritto penale non è un semplice accessorio. È il binario sul quale
deve correre il treno di un processo. La verità è che nessuna pena, fosse anche
la più severa, può illudersi di lenire le sofferenze di coloro che hanno perso
un figlio, un fratello, una sorella, un genitore. Guai a confondere il
desiderio di giustizia con la sete di vendetta. Martedì scorso, un fatto di
sangue sconvolge la ridente cittadina di Rocca di Papa. Un uomo colpisce alle
spalle, con diversi colpi di arma da fuoco, un giovane. L’uomo, 61 anni, è il
papà di Giuliano, il ragazzo ucciso cinque anni fa.
La
vittima è Franco, l’autore del micidiale pugno. Ben presto la notizia inizia
a circolare.
Un
uomo è morto, un altro uomo ha rovinato – inutilmente! – la sua già tormentata
vita e quella della famiglia. Ci sarebbe da piangere, o, almeno, da riflettere
seriamente.
Invece,
il mondo dei social si scatena. Le tastiere si infiammano. La maggior parte dei
commenti fanno rabbrividire: «Bravo… Hai fatto bene… La colpa è della
magistratura che non fa il suo dovere... Avrei anch’io fatto la stessa cosa…».
E,
invece, no. Ci stiamo incamminando per una brutta strada. Stiamo prendendo una
pericolosissima deriva. Abbiamo impiegato secoli per uscire dalla legge del
taglione. Ci sono voluti menti eccelsi e cuori grandi per aiutarci a capire che
la vendetta nulla toglie ma tanto aggiunge al dolore immenso – e, ribadisco,
immenso – di coloro che hanno dovuto dire addio alla persona che amavano.
Ancora non abbiamo imparato a usare gli strumenti che abbiamo a disposizione
per risolvere i conflitti con calma, ragionando, ascoltando l’altro,
facendo valere le nostre istanze, senza il bisogno di ricorrere all’offesa
verbale, o, peggio, a quella fisica. Ancora non abbiamo compreso che la
libertà, dopo il dono della vita, è il bene più prezioso che abbiamo ereditato
da Dio. Ancora non abbiamo compreso che “ogni uomo è mio fratello”; che di ogni
creatura umana siamo chiamati a essere custodi. Ancora non abbiamo compreso che
di tutto ha bisogno questo nostro povero mondo tranne che dell’odio covato nel
cuore che sfocia poi nella voragine della vendetta.
Non è facile perdonare colui che ti ha ammazzato un figlio. Il perdono è una strada da percorrere lentamente, accettando di essere aiutato da persone esperte, psicologi, preti, familiari di altre vittime che come te sono scesi nell’inferno del dolore, della rabbia, senza, però, esserne fagocitati. La morte di Franco non ha apportato alcun beneficio alla vita addolorata e stanca del papà di Giuliano. Al contrario.
La vendetta privata è un ritorno alla
barbarie. Nessuno osi dire che l’assassino «ha fatto bene». Chi non ha, o non
sa, dire una parola buona abbia almeno il buon senso di tacere. Le parole che
incitano all’odio sono roventi schegge avvelenate. Una volta scagliate nessuno
sarà capace di seguirne il corso. «Poni, Signore, una custodia alla mia
bocca», prega il salmista. «Ferma il mio dir se non dico il vero»
canta Clemente Rebora. E il vero, ancora una volta, è una parola magica.
L’unica capace di lenire davvero il dolore di un padre per la morte del suo
figliuolo.
Beati coloro che l’hanno fatta propria. Beati coloro che credono profondamente a questo potente argine capace di contenere il fiume dell’odio, della sofferenza, del non senso, della vendetta. La parola magica è « perdono».
Impariamo a pronunciarla prima che sia tardi. O,
almeno, impariamo a tacere.
Maurizio
Patriciello
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