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giovedì 10 luglio 2025

IL CORAGGIO DI NON ODIARE

 La dimensione affettiva del perdono | La Civiltà Cattolica


 Giustizia e perdono

 davanti al baratro

 

-di MAURIZIO PATRICIELLO

 

Se almeno imparassimo a tacere quando il nostro dire altro non fa che gettare paglia secca sul fuoco ardente. L’acqua salata non spegne, al contrario, accresce la sete fino a portarti alla follia. La vendetta non ha mai reso un buon servizio al singolo e alla comunità.

Cinque anni fa, durante una lite, un giovane viene colpito con un pugno. La morte lo raggiunge dopo alcuni mesi. Il dolore dei genitori possiamo solo immaginarlo. Franco, l’assassino, dice di aver aggredito Giuliano per difendersi, essendo quest’ultimo armato. Dopo solo tre anni di carcere, Franco viene rimesso in libertà. Così hanno deciso i giudici. Le sentenze si rispettano anche quando non le condividiamo. L’ergastolo, la condanna a morte, la tortura del reo, i lavori forzati, anche se applicate su richiesta, non potrebbero mai rendere giustizia a colui al quale fu rapinato il sommo bene della vita. «Giustizia!», si grida da ogni dove.

Giustizia che, per essere veramente tale, necessita di esperti, tempo, prove, accusa, difesa. Il diritto penale non è un semplice accessorio. È il binario sul quale deve correre il treno di un processo. La verità è che nessuna pena, fosse anche la più severa, può illudersi di lenire le sofferenze di coloro che hanno perso un figlio, un fratello, una sorella, un genitore. Guai a confondere il desiderio di giustizia con la sete di vendetta. Martedì scorso, un fatto di sangue sconvolge la ridente cittadina di Rocca di Papa. Un uomo colpisce alle spalle, con diversi colpi di arma da fuoco, un giovane. L’uomo, 61 anni, è il papà di Giuliano, il ragazzo ucciso cinque anni fa.

La vittima è Franco, l’autore del micidiale pugno. Ben presto la notizia inizia a circolare. 

Un uomo è morto, un altro uomo ha rovinato – inutilmente! – la sua già tormentata vita e quella della famiglia. Ci sarebbe da piangere, o, almeno, da riflettere seriamente.

Invece, il mondo dei social si scatena. Le tastiere si infiammano. La maggior parte dei commenti fanno rabbrividire: «Bravo… Hai fatto bene… La colpa è della magistratura che non fa il suo dovere... Avrei anch’io fatto la stessa cosa…».

E, invece, no. Ci stiamo incamminando per una brutta strada. Stiamo prendendo una pericolosissima deriva. Abbiamo impiegato secoli per uscire dalla legge del taglione. Ci sono voluti menti eccelsi e cuori grandi per aiutarci a capire che la vendetta nulla toglie ma tanto aggiunge al dolore immenso – e, ribadisco, immenso – di coloro che hanno dovuto dire addio alla persona che amavano. Ancora non abbiamo imparato a usare gli strumenti che abbiamo a disposizione per risolvere i conflitti con calma, ragionando, ascoltando l’altro, facendo valere le nostre istanze, senza il bisogno di ricorrere all’offesa verbale, o, peggio, a quella fisica. Ancora non abbiamo compreso che la libertà, dopo il dono della vita, è il bene più prezioso che abbiamo ereditato da Dio. Ancora non abbiamo compreso che “ogni uomo è mio fratello”; che di ogni creatura umana siamo chiamati a essere custodi. Ancora non abbiamo compreso che di tutto ha bisogno questo nostro povero mondo tranne che dell’odio covato nel cuore che sfocia poi nella voragine della vendetta.

Non è facile perdonare colui che ti ha ammazzato un figlio. Il perdono è una strada da percorrere lentamente, accettando di essere aiutato da persone esperte, psicologi, preti, familiari di altre vittime che come te sono scesi nell’inferno del dolore, della rabbia, senza, però, esserne fagocitati. La morte di Franco non ha apportato alcun beneficio alla vita addolorata e stanca del papà di Giuliano. Al contrario.

La vendetta privata è un ritorno alla barbarie. Nessuno osi dire che l’assassino «ha fatto bene». Chi non ha, o non sa, dire una parola buona abbia almeno il buon senso di tacere. Le parole che incitano all’odio sono roventi schegge avvelenate. Una volta scagliate nessuno sarà capace di seguirne il corso. «Poni, Signore, una custodia alla mia bocca», prega il salmista. «Ferma il mio dir se non dico il vero» canta Clemente Rebora. E il vero, ancora una volta, è una parola magica. L’unica capace di lenire davvero il dolore di un padre per la morte del suo figliuolo.

 Beati coloro che l’hanno fatta propria. Beati coloro che credono profondamente a questo potente argine capace di contenere il fiume dell’odio, della sofferenza, del non senso, della vendetta. La parola magica è « perdono». 

Impariamo a pronunciarla prima che sia tardi. O, almeno, impariamo a tacere.

 

Maurizio Patriciello

 www.avvenire.it

 

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