Italia, 1936.
Emilio è un bambino fantasioso, con la passione per Sandokan. Un giorno crede di vederlo davvero, quando suo padre, podestà fascista, cattura e rinchiude in una voliera nel giardino di casa sua il principe africano Abraham Imirrù. A Emilio non sembra vero: finalmente potrà conoscere da vicino un eroe, ma suo padre, i suoi colleghi e tutto il suo paese non lo guarda allo stesso modo.
Il razzismo è dilagante, come la violenza su chi è considerato «diverso».
Cos’è
più forte della paura? L’immaginazione. I libri. Questi i cardini di Ho
visto un re, storia fantastica contro la xenofobia, ispirata da una storia
vera, quella di Nino Longobardi, futuro giornalista, ancora bimbo ai tempi
della Campagna d’Africa, che si vede arrivare un prigioniero etiope nel suo
paese d’origine. Siamo ai tempi del fascismo e della guerra.
Tra
adulti che vivono di illusioni e bimbi che fanno di quell’illusione una realtà
immaginaria, alternativa, si snoda il racconto del lungometraggio di Giorgia
Farina, che «spariglia» le carte, mettendo al centro lo sguardo di un
innocente, rendendo straordinario un ordinario percorso di scoperta e di
crescita. Quella di Emilio, ragazzino di 10 anni appassionato dei romanzi di
Salgari, che quindi nella sua mente vive a metà tra Mompracem e Roccasecca, suo
luogo natìo.
Tutto
parte proprio da qui, da questa tranquilla cittadina di provincia, dove nel
1936 la vita scorre pigramente tra slogan mussoliniani, bambini divisi tra
Balilla e Piccole italiane, donne relegate al ruolo di mogli e madri e podestà
pervasi dalla retorica di regime e dall’entusiasmo generale per la conquista
dell’Etiopia, in un fervore coloniale senza precedenti.
L’Africa
è un luogo mitico e lontano, terra di conquista e mistero.
La
vita del piccolo paese laziale è «accesa» dall’arrivo del «confinato» Abraham
Imirrù (Gabriel Gougsa), un ras etiope rinchiuso in una voliera nel giardino
della villa del padre di Emilio (Marco Fiore), il podestà Marcello (Edoardo
Pesce). È lui il motore del racconto insieme allo sguardo innocente del
bambino, che non vede un prigioniero, o uno «scimmione puzzolente», bensì il
suo eroe, lì, davanti a sé, in carne e ossa: Sandokan.
Tra
federali e fascisti ridotti a macchiette umane, propaganda di regime
grossolana, rozza, basata sull’assenza di conoscenza dell’altro, del diverso da
noi, la chiave di lettura è nello sguardo puro, senza filtri, di Emilio e del
suo amore per la letteratura d’avventura. Così la realtà si trasforma: si apre
la gabbia materiale e metaforica delle menti, degli spiriti più ottusi, come
quello del podestà razzista e chiuso (l’unico personaggio che non si evolverà
per tutto il film) o del federale Trocca, ancora più «prigioniero» del pensiero
fascista, «villain», reso da un eccellente Gaetano Bruno, e si è capaci di
guardare all’altro come a un nostro simile, un essere umano.
Farina,
alternando il registro della commedia e del grottesco, utilizzando la fantasia
come grimaldello per scardinare la brutalità del reale, non solo propone una
critica alla dittatura fascista, ma, in una visione più ampia, indica quanto
chi è ai margini della società in realtà abbia un pensiero libero, lucido e
«irridente» sul mondo. I temi del colonialismo, dell’odio razziale,
dell’identità sono attraversati sempre con levità, grazie all’immensa
meraviglia e al potere dell’immaginazione di Emilio. Tra registro fiabesco e
realistico, il film inquadra con accuratezza il periodo storico, rimanendo sui
tratti del sognante e del naïf. È interessante, anche per una
carezza interiore: all’essere umano è dato evolversi, a patto però di mantenere
il cuore aperto, e il resto verrà da sé; non saremo più soli su quel vascello
che avanza intrepido verso l’avventura più grande, la versione migliore di noi
stessi.
Nessun commento:
Posta un commento