In occasione dell’uscita del film Parthenope di Paolo Sorrentino, Sette del Corriere mi ha chiesto di raccontare chi erano le Sirene, dato che Parthenope, si narra fosse una di loro.
- di Alessandro D’Avenia
La
vita è un’odissea, diciamo, perché l’Odissea è l’unica opera che ha la dignità
di sinonimo della vita stessa. E non perché il poema assomigli alla vita, ma il
contrario: la vita cerca di assomigliare all’Odissea, un viaggio con biglietto
di solo ritorno in cui nella prima metà l’eroe deve liberarsi sia della guerra
a cui non avrebbe voluto partecipare, sia del mare, elemento liquido e
pericoloso, il divenire, lo scorrere del tempo, tutto ciò che porta alla morte;
e nella seconda metà deve provare a conquistare la terra ferma, ciò che non è
soggetto al corrompersi di tutte le cose, ma resta “fermo”, vincendo il tempo e
quindi la morte. Se questo è vero, come ho cercato di narrare in Resisti, cuore
– L’Odissea e l’arte di essere mortali, allora tutti noi incontreremo prima o
poi e più volte le Sirene.
Non
è un caso che una delle avventure del poema che tutti ricordano è quella delle
Sirene, appollaiate su un’isola in attesa. “Appollaiate” in senso stretto
perché a differenza di un immaginario posteriore a Omero, definitivamente
consacrato negli ultimi due secoli da Andersen e Disney, le Sirene sono rapaci
con il solo volto femminile. Niente di eroticamente seducente come siamo
abituati a immaginare: la loro pericolosità è tutta nella voce e in ciò che
promette. In una società come quella omerica in cui la donna è subalterna
all’uomo, che delle donne agiscano da sole, non siano integrate nel sistema e
abbiano un proprio messaggio privato le rende pericolosissime. Non è un caso
che la tradizione successiva abbia identificato una di esse in Parthenope, nome
che significa “dal volto di vergine”, ragazza che appartiene a un mondo
selvaggio e da controllare, non ancora funzionale alla comunità.
La
bellezza, che è generare vita che non muore, in questo mondo è allora
pericolosa, perché può diventare mera seduzione. Le Sirene sono infatti, a
differenza delle Muse, figlie di divinità primordiali del mare, e qualsiasi sia
il significato originario del loro nome (attrarre, splendere, incatenare,
suonare…) è certo che, come il mare per il mondo omerico, sono un pericolo
mortale. Le Sirene fanno professione di sapere tutto come le Muse, cosa che in
una cultura orale significa conoscere la verità. A chi si ferma ad ascoltarle
promettono il mondo intero, il tempo intero. Ma è incantesimo, non canto. E
aggiungono che possono cantare proprio le vicende dell’eroe (nel mito c’è già
l’algoritmo delle piattaforme che canta per noi tutto quello che vogliamo e proprio
quello che ci piace): «Noi sappiamo tutto ciò che accadde a Troia».
Chi
ascolta le Sirene dimentica ogni cosa e va a sfracellarsi contro gli scogli su
cui sono appollaiate, un’isola non cosparsa da fiori, come pare a distanza, ma
dalle ossa di uomini naufragati e divorati da questi avvoltoi canori. Un
incantesimo che invece di dare la vita la toglie, a differenza del canto delle
Muse che ispira la vita. I Greci sapevano che la bellezza è un’aporia senza
soluzione: ci sono le Sirene e ci sono le Muse, e l’uomo ne subisce il fascino
senza scampo. Se Ulisse riesce a salvarsi non è per merito suo, ma di un’altra
donna, Circe, che appartiene allo stesso mondo magico di donne isolate e
pericolose, che gli svela come vincere l’incantesimo. C’è quindi una magia che
seduce, lega e uccide: paradisi artificiali, sostanze senza sostanza. A questo
inganno che diventa disinganno ci si può sottrarre solo facendosi sordi o
legandosi. C’è però anche una magia che incanta senza ingannare, quella delle
Muse. Sta a noi scegliere.
Però
se la vita è un’odissea a noi forse è concesso, come al suo eroe, di ascoltarne
l’incanto, la promessa, il miracolo, senza impazzire e morirne, e proseguire
verso casa. Chissà.
Nessun commento:
Posta un commento