-Crepet,
occorre che i giovani ritornino gradatamente a vivere, ad emozionarsi, a
sentire. Solo le emozioni più contrastanti aiutano a crescere senza farsi mai
annullare dalla paura -
“L’alfabetizzazione
delle emozioni non può che partire dalla piena riacquisizione di tutti i nostri
sensi. La famiglia e la scuola devono aiutare il bambino a prendere possesso di
questa sua.”
L’attività
lavorativa connota una parte rilevante del nostro tempo e senza accorgercene
questo spesso comporta dei sacrifici: si trascurano le relazioni sentimentali e
si assiste ad un “panorama affettivo molto inaridito”.
L’analfabetismo
emotivo, sul quale si sofferma il sociologo e psichiatra Paolo Crepet,
rappresenta un aspetto invalidante sia per gli adulti che per i giovani,
l’assenza di emozioni finisce con renderci aridi e privi di sensazioni.
“Perché
i bambini di oggi possano essere uomini e donne sentimentali di domani occorre
che la scuola non sia più finalizzata unicamente alla costruzione di
un’identità basata sul lavoro ma anche sul non lavoro. Gli insegnanti
dovrebbero educare i loro bambini a perdere felicemente e senza sensi di colpa
il loro tempo”, queste le parole dello psichiatra.
Ciò
che occorre comprendere fino in fondo è come i nuovi mezzi di comunicazione,
attraverso l’avvento del progresso, abbiano completamente modificato e
sovvertito il nostro modo di relazionarci, prediligendo appunto una relazione
algida e virtuale ad una invece basata sulla vicinanza fisica e sull’affetto
reciproco.
L’affettività
degli adolescenti si è profondamente trasformata. Occorre quindi una nuova
metodologia pedagogica che sia in grado di farci riscoprire cosa siano le
emozioni, le sensazioni.
“L’alfabetizzazione
delle emozioni non può che partire dalla piena riacquisizione di tutti i nostri
sensi. La famiglia e la scuola devono aiutare il bambino a prendere possesso di
questa sua enorme potenzialità, troppo spesso inibita e rimossa”, sottolinea
Crepet nella sua riflessione.
I
genitori hanno completamente dimenticato cosa significhi abbracciare,
accarezzare, baciare i loro figli, convinti che la comunicazione presupponga
solo il dialogo e l’ascolto, non richiedendo nient’altro.
Perfino
il dolore e la morte vengono espulsi dal mondo affettivo del bambino, così da
evitare qualsiasi evento traumatico o dolore ritenuto superfluo.
In
realtà i nostri figli hanno paura delle paure degli adulti e, nonostante questo
gioco di parole, tutto ciò rende i giovanissimi sempre più fragili, incapaci di
elaborare qualsiasi dolore, ovattati e cresciuti in un mondo dove tutto è
edulcorato o semplicemente estremamente facilitato.
Ed
allora sono proprio le emozioni più intense, le paure, la capacità di
metabolizzare i momenti più difficili, che permettono di conoscere i nostri
limiti, di misurarci con la delusione, ma allo stesso modo di crescere,
riappropriandoci della nostra identità.
Non
è semplice ristabilire un equilibrio spesso molto instabile ma occorre
gradatamente ritornare a vivere, ad emozionarsi, a sentire; occorre riempire
quel vuoto che ci attanaglia e che spesso non ci permette di vivere
serenamente.
I
giovanissimi necessitano di guide e porti sicuri: educatori, genitori ed
insegnanti, svolgono un ruolo fondamentale nel loro percorso di crescita,
supportandoli nelle loro scelte ed aiutandoli a comprendere fino in fondo come
superare i momenti più difficili così da non lasciarsi mai travolgere o
annullare dalla paura.
Non
bisogna mai desistere, occorre perseveranza e determinazione per poter
riscoprire la propria forza: solo in questo modo i giovani impareranno a
gestire le emozioni più contrastanti senza percepire quel senso di
inadeguatezza o smarrimento ma anzi avendo già sperimentato delle soluzioni
alle problematiche che si presenteranno nella loro vita.
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