e l’avanzata delle destre
in Europa
-
-di Giuseppe Savagnone*
Anche
ora questo clima culturale ha delle evidenti ripercussioni a livello politico.
L’esempio più inquietante è la travolgente avanzata, in Germania, di Alternative
für Deutschland (AfD), una formazione che ormai è il secondo partito
nazionale e che non cerca neppure di nascondere i punti di contatto col
nazismo, tanto da essere stata perfino esclusa dal gruppo parlamentare europeo
più estremista, quello dei Patrioti di Le Pen e Salvini.
Senza
che per questo si sia fermata la sua corsa, come dimostra, il fatto che, nelle
elezioni regionali dello scorso settembre, per la prima volta AfD abbia avuto
la maggioranza in un Land, la Turingia, e si sia affermata come secondo partito
in un altro, la Sassonia.
Ma
non è l’unico caso. Ormai l’estrema destra è al governo in ben sette paesi
dell’UE – oltre all’Italia, i Paesi Bassi, la Svezia, la Finlandia, la Croazia,
la Slovacchia e l’Ungheria – , ha un ruolo decisivo in Francia, dove Ressemblement
National, pur non essendo al governo, ha vinto le ultime elezioni politiche
– e anche nelle elezioni europee del 6-9 giugno ha confermato i suoi
progressi.
Il
risultato immediato è uno spostamento a destra dell’asse politico europeo,
evidente già nel mutato atteggiamento verso il fenomeno migratorio da parte
della presidente della Commissione europea, Ursula von del Leyen, confermato
dall’andamento del Consiglio europeo del 17 ottobre scorso, dove la scelta del
governo italiano di istituire degli “hub” in Albania per lo smistamento dei
migranti, in vista del loro rimpatrio, ha suscitato ampio consenso.
Anche
le forze politiche moderate devono aprire alle istanze nazionaliste e
sovraniste della destra più estrema, nel duplice intento di “normalizzarla”, da
un lato, e di sottrarle consensi, intercettando gli umori xenofobi di molti
elettori.
Come
dicevo all’inizio, questi sviluppi politici sono comunque il riflesso di
un ritorno al clima culturale che, proprio cento anni fa, si è tradotto nella
nascita di regimi totalitari in alcuni paesi europei.
Non
è detto, naturalmente, che ciò accada anche oggi. Raramente la storia si
ripete. Ma i fatti dicono che anche questa volta il passaggio dal livello della
cultura a quello della politica è inevitabile e, anche se con modalità inedite,
diverse da quelle del passato, si sta già verificando.
Ipnotizzata
dall’aspetto più vistoso, che è quello politico, la grande maggioranza delle
persone tende oggi a chiudere gli occhi su quello culturale che invece sta alla
radice. Qui vorrei provare a introdurlo – senza alcuna pretesa di esaustività –
in riferimento alla realtà italiana.
Il
falso problema del ritorno del fascismo
A
dire il vero, non si può dire che, nel nostro paese, siano mancate le grida di
allarme. Esse, però, si sono concentrate sul pericolo di un possibile ritorno
del fascismo. A lungo la battaglia è stata sulle parole.
Si
sono esaminati al microscopio i discorsi dei leader della destra al governo, a
cominciare da quelle della premier, per vedere se e quante volte veniva usato
il termine “fascismo”. Si sono attese al varco le mancate esplicite condanne
del famigerato ventennio nelle manifestazioni ufficiali.
Per
scoprire, alla fine, che da un fenomeno storicamente situato nel passato si
possono abbastanza facilmente prendere le distanze, senza per questo rinunziare
all’ottica di fondo che lo ha ispirato, anche se declinandola in modalità
diverse.
Perché
è chiaro che, se oggi la “filosofia” del fascismo dovesse risorgere dalle
ceneri della sua sconfitta storica, non sarebbe certamente nelle forme che essa
ha assunto nella prima metà del Novecento.
E
se oggi, in Italia, ci sono dei sintomi allarmanti di un deterioramento della
vita democratica e della garanzia dei diritti umani, essi non si manifestano
nella ripetizione materiale degli slogan e dei comportamenti che hanno
caratterizzato il famigerato ventennio, ma in altri fenomeni, a prima vista
assai meno allarmanti, ma che sono in realtà le nuove forme che lo stesso
grande buio di allora oggi assume, prima di tutto nelle teste e nei cuori.
Se
vogliamo evidenziarle e denunciarle, è perciò necessario chiamarle con dei
nuovi nomi, invece di continuare a parlare di fascismo e antifascismo. Proviamo
a dirne qualcuno.
Il
primo nome da dare a questo clima culturale è “smemoratezza” e riguarda la
perdita della memoria. Perché una nuova forma di totalitarismo si imponga non
sono necessarie forme vistose di violenza, peraltro impensabili nel nostro
solido assetto costituzionale. Basta che la gente dimentichi quello che ha
avuto sotto gli occhi qualche anno, se non addirittura qualche mese o qualche
giorno prima.
Un
piccolo esempio. Al processo Open Arms contro Salvini, l’avvocato Giulia
Bongiorno (lei stessa senatrice della Lega) ha costruito tutta la sua arringa
per dimostrare, come poi ha sintetizzato ai giornalisti a fine udienza, che
«questo è un processo politico sotto un preciso punto di vista: poiché più
volte è stato offerto a Open Arms la possibilità di una via di fuga, di fare
scendere i migranti, e la ONG si è rifiutata; ci siamo chiesti perché e la
risposta ci è stata data da Oscar Camps che, in un video, alla fine ha detto
che erano felici, ma non per lo sbarco, ma perché era caduto il ministro
Salvini. Quindi per loro era una battaglia contro Salvini».
Insomma,
la vera posta in gioco non era la salvezza dei migranti ma la caduta del
ministro, che alla fine si è verificata.
Gli
italiani hanno ascoltato senza battere ciglio questa ricostruzione, ispirata
chiaramente a quella logica del “complottismo” che è diventata ormai un leit
motiv della destra.
Ma
chi ha presente l’effettivo svolgersi dei fatti, dovrebbe ricordare che il
ministro Salvini non affatto «caduto» – tanto meno fatto cadere – per la sua
linea sui migranti, che anzi è stata alla base del vertiginoso aumento dei suoi
consensi, ma si è improvvisamente dimesso, facendo cadere il primo governo
Conte, con l’esplicito di sostituirlo con uno nuovo, da lui guidato, per cui
già chiedeva agli italiani «pieni poteri».
Giulia
Bongiorno tutto questo, evidentemente, lo sa benissimo, ma contava sulla
smemoratezza degli italiani, e ha avuto ragione, perché ben pochi hanno
protestato contro questa palese falsificazione di un passato peraltro
recentissimo.
Un
secondo nome che oggi potrebbe definire l’attuale clima attuale è
“indifferenza” – fino al disprezzo – nei confronti di chi è diverso. Sempre nel
contesto della polemica sui migranti, il vice premier Salvini ha dichiarato: «I
confini sono sacri, non si capisce perché, secondo qualche giudice, possono
arrivare in Italia cani e porci».
Il
pensiero va alle immagini drammatiche di tanti poveracci, uomini, donne, ma
spesso anche bambini – distesi sulle nostre spiagge, senza vita, inclusi in
questa sprezzante definizione.
Questa
volta qualche reazione indignata c’è stata. Ma la maggioranza degli italiani
non si è ribellata. Non lo ha fatto neppure quando, commentando l’uccisione di
un ragazzo di 26 anni del Mali che aveva aggredito un poliziotto, il leader
della Lega ha detto: «Con tutto il rispetto, non ci mancherà».
Anche
stavolta ci sono state voci di protesta. Ma nessuno degli altri membri del
governo ha manifestato disagio e dissenso, né da parte della stampa e del
corpo elettorale di destra si sono chieste le dimissioni di una persona
che, come vice-premier, rappresenta l’Italia. Anzi, si è avuta la sensazione di
un tacito consenso. «Salvini ha detto solo ciò che pensano tutti», ha scritto
Vittorio Feltri sul «Giornale».
Eppure,
nell’art. 2 della nostra, Costituzione – proprio in reazione ai totalitarismi
che, negli anni immediatamente precedenti, avevano schiacciato le persone – sta
scritto: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo». Non si parla di “cittadino”, ma di “uomo”, di qualunque paese, di
qualunque cultura, in qualunque situazione giuridica sia. Sono uomini e donne
anche gli immigrati. E la morte di ognuno di loro, come quella di ogni
italiano, ci diminuisce.
Potere
Un
terzo nome da dare alla cultura che si sta facendo strada – sia essa o no
collegabile al fascismo (ho già osservato che non è questo il problema) – è
“potere”, inteso come pretesa di disporre senza limiti, in nome del
popolo, delle sorti della comunità civile. Anche nella nostra Costituzione si
parla di “poteri”, ma l’uso stesso del plurale indica che nessuno di essi
è assoluto, perché si limitano a vicenda.
Di
questo stentano a rendersi conto sia il nostro governo, sia i suoi sostenitori,
invocando a ogni pie’ sospinto l’investitura popolare ottenuta nelle ultime
elezioni politiche. Polemizzando con la decisione del Tribunale di Roma sul
caso Albania, il ministro della Giustizia Nordio ha dichiarato: «Se la
magistratura esonda dai suoi poteri, come in questo caso (…) allora deve
intervenire la politica perché la politica esprime la volontà popolare. Noi
rispondiamo al popolo: se il popolo non è d’accordo con quello che facciamo
andiamo a casa».
In
una Repubblica parlamentare e fondata sulla divisione dei poteri, le elezioni
non servono a designare il potere assoluto di un capo. Chiunque venga scelto
per governare, deve farlo secondo certe regole e in certi limiti.
«Noi
rispondiamo al popolo» è da sempre lo slogan di tutte le dittature che,
pretendendo di incarnare la “volontà generale” di Rousseau, non ammettono
questi limiti.
È
dai tempi di Berlusconi che domina, in Italia, una diffusa tendenza della
politica a considerare ogni intralcio alla propria azione un sabotaggio ai
danni dell’Italia. Ma il governo non è l’Italia. Ed è per il bene comune degli
italiani che è stata prevista la possibilità di un intervento, da parte degli
altri due organi costituzionali, che ne contrasti le decisioni ed eventualmente
le blocchi.
Qualcuno
dovrebbe spiegarlo ai membri dell’attuale governo, ai giornalisti che scrivono
sui quotidiani di destra, agli stessi italiani, che ascoltano senza battere
ciglio affermazioni come quelle del ministro Nordio.
È
questo sonno delle menti e dei cuori, non la mancata condanna esplicita del
fascismo, il nostro problema, oggi. Perché da esso, come una volta ha detto
Goya, possono nascere (e forse stanno già nascendo) dei mostri, diversi da
quelli del passato, ma non meno spaventosi. È questa minaccia è più pericolosa
di qualunque repressione esterna, perché è dentro di noi.
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo
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