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giovedì 31 ottobre 2024

UNO SCONTRO DI CIVILTA'

 


Ucraina

 e Medio Oriente: 

perché 

non dobbiamo cadere 

nello 

"scontro di civiltà"

 


-        - di Mauro Magatti

-          

Dopo la caduta del Muro di Berlino, per vent’anni il mondo è stato retto dall’“ordine liberale globale”.

Un mondo che si sperava potesse unificarsi pacificamente attraverso la crescita economica e gli scambi commerciali.

Un ordine, dove tutti ci guadagnavano, che si reggeva sul presupposto che l’Occidente – uscito vincitore dalla Guerra fredda – ne fosse guida e garante.

È stato nel corso di questi decenni che, per la prima volta, alcuni elementi costitutivi della modernità occidentale (l’economia di mercato, la scienza, la tecnologia) sono stati esportati creando un mondo interconnesso. L’omologazione dei modelli politici e culturali si è invece rivelata più difficile del previsto.

Da qualche anno, questo processo si è arrestato.

In particolare, con l’attacco russo in Ucraina, è cominciato una fase nuova, dove le tensioni politiche sono tornate centrali.

Col rischio che ad affermarsi sia una visione ugualmente semplicistica, ma diametralmente opposta: lo scontro di civiltà.

Questa è la chiave con cui è stato letto l’incontro tenutosi in questi giorni a Kazan dei cosiddetti Brics allargati (Brasile, Cina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, India, Iran, Russia e Sudafrica...) che rappresentano il 45% della popolazione mondiale, un Pil totale di 60mila miliardi di dollari e circa un quarto delle esportazioni globali.

Al summit hanno partecipato i rappresentanti diplomatici di 24 Nazioni.

In effetti, l’obiettivo dichiarato del padrone di casa Putin era quello di mettere in discussione l’ordine internazionale formatosi dopo la Guerra fredda.

Molti commentatori sono convinti che lo scontro tra blocchi sia ormai un destino segnato e che sarà senza esclusione di colpi.

Un’ipotesi che non si può certo escludere tenuto conto che, al punto a cui siamo arrivati, la posta in gioco riguarda il dominio di un mondo che la tecnica e l’economia hanno integrato in maniera irreversibile.

Più che interrogarsi sulle intenzioni altrui, la domanda che i Paesi occidentali – e specificatamente l’Europa – devono porsi è però un’altra: come stare dentro un processo destinato a creare un mondo diverso da quello che conosciamo?

Con quale meta finale?

Non si tratta di essere ingenui.

Né tanto meno deboli di fronte alla prepotenza.

Come accade in Ucraina, è giusto respingere le aggressioni.

Ma, d’altra parte, l’Occidente non può presentarsi come paladino del diritto e della pace se poi non è in grado di fermare la reazione fuori in misura di Israele.

Se l’obiettivo è quello di evitare di avvitarsi nella spirale dello scontro di civiltà, l’Occidente deve elaborare una nuova idea di universalismo.

Deve, cioè, dotarsi di un pensiero all’altezza della inedita sfida storica che il mondo sta cominciando ad affrontare.

Se le questioni geopolitiche della post-globalizzazione vengono affrontate con il codice della potenza (chi è il più forte) lo scontro di civiltà è inevitabile.

 Una strada impraticabile

Ma proprio la finitudine e l’interdipendenza del globo ci suggeriscono che questa strada è assurda. Semplicemente perché è impraticabile.

Se non si vuole che il XXI secolo sia ricordato come l’era della guerra civile planetaria – una sorta di concretizzazione della lotta di tutti contro tutti temuta da T. Hobbes – la strada da battere è quella di creare le condizioni per una convivenza tra diversi.

Dove, cioè, sia possibile riconoscere e rispettare le diversità, nel comune vincolo della appartenenza terrestre.

È la ragione, alla quale noi facciamo riferimento come fondamento della nostra cultura, che ci indica questa come unica via di futuro possibile, anche se non facile.

Ma che non si può abbandonare, pena l’imbarbarimento del pianeta intero.

Si dirà: ma se gli altri non vogliono?

Può essere che sia così.

Ma anche nelle “relazioni” internazionali – come in tutte le forme di interazione umana – a fare la differenza è il modo in cui si interagisce.

Il nostro problema non è rispondere in maniera automatica a chi usa la violenza, alimentando così la spirale della guerra, ma lavorare alacremente per aprire una strada diversa.

Ciò significa, prima di tutto, stemperare il congelamento delle divisioni.

Le civiltà mondiali sono molteplici.

E non hanno confini ben precisi.

Il mondo occidentale, per esempio, si distingue tra quello americano e quello europeo.

In Asia, la Cina ha tradizione e interessi diversi dall’India.

Il mondo islamico è disperso e frammentato.

In più ci sono tante aree che sono indefinibili e che rischiano solo di diventare il campo di battaglia del conflitto delle grandi potenze.

Per evitare lo scontro di civiltà occorre contrastare i riduzionismi che tracciano confini rigidi.

E lavorare invece sulla diversità e sulla pluralità.

Che sono poi la verità del mondo.

In secondo luogo, diventa cruciale la capacità di affrontare in modo creativo le due crisi che rischiano di spingerci verso lo scontro di civiltà – quella Ucraina, quella mediorientale – con una attenzione particolare a Taiwan, che rischia di essere la prossima ferita di un mondo in ebollizione.

Se non si vuole che parlino le armi, è necessario che parli la politica.

Ma la politica richiede pensiero, visione, anima.

Che è forse ciò di cui avvertiamo di più la mancanza.

 www.avvenire.it   

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EINSTEIN e PEZZALI


 


 "Cosa unisce 
Albert Einstein

 e Max Pezzali?"

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   di Alessandro D’Avenia

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La bella serie televisiva di Sidney Sibilia dedicata alla nascita degli 883, colonna sonora delle adolescenze di inizio anni '90 come la mia, si apre curiosamente in Germania, un secolo prima. Si vede un quindicenne, Albert, punito dal padre per i risultati scolastici con un soggiorno a Pavia, la stessa città («due discoteche e 106 farmacie») che unirà Massimo Pezzali e Mauro Repetto negli 883.

 Il ragazzino tedesco è Albert Einstein. 

 Le cose andarono in modo un po' diverso (Einstein non fu bocciato, di fatto scappò...) ma la sostanza resta. Tutto comincia dal banco occupato dall'uomo che ha rivoluzionato la fisica: l'ultimo. Proprio 130 anni fa, nell'ottobre 1894, un professore riprende duramente Albert per il suo comportamento. Al ragazzo che dice di non aver fatto nulla di male, il professore risponde: «È vero. Ma te ne stai seduto lì, all’ultimo banco, e sorridi, e ciò offende il rispetto che esigo dalla classe». Come racconta Walter Isaacson nell'appassionate biografia su Einstein l'azienda paterna era fallita e la famiglia si era trasferita da Monaco a Pavia. Albert, rimasto in Germania da parenti per terminare il liceo, trovava asfissiante quella scuola. Resistette fino alle vacanze natalizie, durante le quali raggiunse la famiglia in Italia, ma poi non tornò più in Germania. Che cosa faceva Einstein all'ultimo banco e perché quel banco lo salvò (e non solo lui)? 

 Einstein occupava l'ultimo banco per difendersi da un sistema di apprendimento coercitivo, fatto di ordini insensati e freddo autoritarismo. Infatti, proprio in quella scuola di Monaco aveva partecipato al suo primo sciopero, anti zwang, parola tedesca per «obbligo». «Dell'obbligo» è definita anche la nostra scuola, radice della sua crisi permanente, perché una motivazione a imparare esterna, basata su titoli, premi e castighi, è insufficiente e sfiancante come ogni azione guidata solo dai risultati e non dal valore intrinseco, bello-giusto-vero, di ciò che si fa. Immaginate che un albero si sforzi di crescere per paura d'essere tagliato o per vincere un concorso, e non perché è un albero... La nostra scuola usa ancora un lessico militare e utilitaristico: appello, classe, condotta, punizione, pagella, rapporto, file, promozione, crediti, debiti, profitto, rendimento... e un luogo che dovrebbe aiutare a individuarsi finisce con l'intruppare. 

 La ribellione di Einstein allo zwang e la sua fuga natalizia sono la ribellione e la fuga di molti ragazzi in cerca di un modo diverso di stare al mondo: curioso, libero e gioioso. Dopo Natale il ragazzo rimase in Italia, dove passò mesi gioiosi aiutando il padre nell'azienda, godendosi le montagne in lunghe passeggiate solitarie o con amici e studiando i volumi di un noto manuale di fisica. La scuola si dà ovunque (anche a scuola) solo dove impariamo a guardare il mondo con stupore e cura. E infatti in quell'estate, il sedicenne Einstein scrisse il primo saggio di fisica teorica e poi si presentò, con due anni di anticipo, all'esame di ammissione al Politecnico di Zurigo. Superò matematica e scienze, ma non letteratura, francese, zoologia, botanica e politica. Il rettore, che ne aveva colto le attitudini, gli consigliò di completare la preparazione frequentando per un anno la scuola della cittadina di Aarau, vicino Zurigo. Einstein vi si trasferì e vi fiorì grazie alla didattica ispirata ai principi del riformatore svizzero dell’istruzione, J. H. Pestalozzi, il cui metodo prevede che gli studenti coltivino la dimensione interiore, sviluppino la propria unicità, allenino l'immaginazione. Insomma, l'albero che facendo l'albero raggiunge la sua altezza. Lo studente deve infatti arrivare a scoprire attraverso un percorso autonomo dall'osservazione attenta della realtà alle immagini visive delle soluzioni. Pestalozzi aveva notato infatti, già più di un secolo fa, che l’esercizio mnemonico di nozioni imparate meccanicamente serviva solo a ripeterle a breve termine (le «interrogazioni»), ma non ad assimilarle per scoprire il nuovo, insomma addestramento più che apprendimento, ripetizione più che intelligenza. 

Libertà e responsabilità 

Ad Aarau Einstein fiorì, perché, come racconta la sorella «gli allievi erano seguiti individualmente, si dava più importanza al pensiero indipendente che al nozionismo, e i giovani vedevano nell’insegnante non un simbolo dell’autorità, ma un uomo di personalità definita che stava accanto agli studenti». Anni dopo il fisico diceva che quell'anno scolastico: «A confronto con i sei di scuola in un autoritario ginnasio tedesco, mi fece comprendere con chiarezza quanto sia superiore un metodo educativo basato sulla libertà d’azione e la responsabilità personale rispetto a uno che poggi sull’autorità esteriore». Una libertà e una responsabilità oggi ancora rare in una scuola senza opzioni e flessibilità (al liceo avrei studiato volentieri anche musica, astronomia e cinema). E come sempre la genetica conta solo per il 20%: Einstein era predisposto ma non sarebbe diventato un genio senza quel metodo. Infatti proprio lì, grazie alla visualizzazione, concepì l’esperimento mentale che avrebbe rivoluzionato la fisica: che cosa accade se cavalco un raggio di luce? Così lo ricordava: «Ad Aarau compii i miei primi e piuttosto infantili esperimenti mentali che avevano un rapporto diretto con la teoria della relatività ristretta». Anche lui aveva punti deboli: seguiva infatti lezioni private di chimica e francese. Eccelleva invece in musica. Così alla fine di quell'anno riprovò e superò l'esame per entrare al Politecnico, tranne per la parte di francese, anche se proprio in quel compito aveva scritto: «Penso a me come a un futuro insegnante di matematica e fisica, preferibilmente nei loro aspetti teorici. Quanto alle ragioni metterei al primo posto una certa attitudine al pensiero astratto e matematico. È naturale: si preferisce fare ciò per cui si ha capacità. Nella professione scientifica vi è poi una certa indipendenza che mi attira non poco». 

 La felicità di una persona è nella sua vocazione, la somma di indole (per Einstein il bisogno di indipendenza) e attitudini (la sua capacità di pensiero astratto). A 17 anni Albert aveva trovato ciò che il tedesco unisce in una sola parola, per noi scomposta in vocazione e lavoro: beruf. Se si cerca di scorgere un albero crescere non si riesce, ma se lo si cura, a un certo punto, è lì, alla sua altezza. Così è l'educazione: non serve esaminare (quantificare) continuamente quanto un ragazzo cresce, serve aiutarlo a crescere, e accadrà. 

Questo a Monaco non sarebbe stato possibile, solo un metodo centrato sull'unicità dello studente, su osservazioni e soluzioni autonome, sull'immaginazione come motore dell'intelligenza, permise ad Einstein di diventare Einstein. Se fosse rimasto in Germania sarebbe forse diventato quello che il padre voleva per lui, che infatti scriveva a un amico: «Era previsto che diventassi un ingegnere, ma il pensiero di spendere la mia energia creativa su cose che rendono ancor più raffinata la vita pratica di ogni giorno, con la deprimente prospettiva di una rendita da capitale come obiettivo, mi era insopportabile. Pensare per il piacere di pensare, come per la musica!». 

Pezzali 

Proprio quella musica in cui Max Pezzali, che ho la fortuna di conoscere, trovò il suo beruf: anche lui a 17 anni, anche lui dall'ultimo banco. Fu bocciato e passò l'estate in punizione a Pavia, a lavorare nel negozio di fiori dei genitori. Per sopravvivere si dedicò alla sua passione, trasformando la cantina in studio musicale, e cominciò a comporre. L'anno dopo ripetè l'ultimo anno di liceo e si ritrovò al banco con Repetto. Il resto è musica che ascoltiamo e cantiamo con gioia da più di trent'anni. 

 Ognuno ha il suo posto nel mondo, anche se all'inizio è un ultimo banco, come Albert e Max.

 Alzogliocchiversoilcielo

 


mercoledì 30 ottobre 2024

I GIOVANI E L'AUTOSTIMA

 


“Educare i giovani

 all’autostima

 è indispensabile, 

occorre insegnare 

ad amare

 per poter crescere

 consapevolmente”


In poco tempo abbiamo avuto modo di assistere ad una profonda trasformazione: si è passati da genitori autoritari a genitori confusi e privi di sicurezze. Ed è proprio in tal modo che le fragilità dei giovanissimi sono cresciute…

Nell’ambito della nostra società, nella quale i rapporti interpersonali faticano ad avere una giusta collocazione ed un opportuno riscontro, non è semplice per i giovanissimi riuscire a trovare un maestro di vita, una persona della quale fidarsi ciecamente e sulla quale poter contare incondizionatamente.

Su tale aspetto si sofferma proprio il sociologo e psichiatra Paolo Crepet, nel suo libro “La gioia di educare”.

Senza troppi giri di parole lo psichiatra ci fa notare come si assista ad una “confusione di ruoli e relazioni”: in particolar modo le mamme diventano le migliori amiche delle loro figlie, mentre i papà sono assenti e non riescono a prendere delle decisioni autorevolmente.

In poco tempo abbiamo avuto modo di assistere ad una profonda trasformazione: si è passati da genitori autoritari a genitori confusi e privi di sicurezze. Ed è proprio in tal modo che le fragilità dei giovanissimi sono cresciute esponenzialmente.

Ad oggi la necessità prevalente è la capacità di un genitore di pronunciare i no e non solo i sì.

“Eppure il modo più frequente di educare è oggi basato assai più sul sì che sul no e questo dipende in buona misura dai sensi di colpa che gran parte dei genitori si sentono addosso come pietre: il sentimento di inadeguatezza di fronte alle responsabilità dell’educare, il timore di essere troppo lontani e assenti o distratti, il sapere di aver lasciato i figli soli in casa o delegati ad una baby-sitter, la consapevolezza di aver compiuto scelte di vita troppo centrate sugli interessi degli adulti”, così ci spiega Paolo Crepet senza alcuna esitazione.

Gli educatori, in preda ai loro sensi di colpa irrisolti, tendono ad essere estremamente accondiscendenti e cercano in tal modo di bilanciare le loro assenze, le loro mancanze, il loro modo estremamente inadeguato di svolgere una funzione educativa assai importante.

In realtà i “no” per poter aiutare a crescere necessitano della presenza del genitore o educatore, quindi hanno un valore relazionale, affettivo.

Ma l’aspetto più rilevante è che l’educatore autorevole deve essere coerente e quell’autorevolezza, per poter determinare dei benefici, coinvolge la coppia genitoriale: solo attraverso scelte condivise tra i genitori, senza alcuna contraddizione, è possibile avere una credibilità affettiva dinanzi ai propri figli.

D’altronde la crescita presuppone sempre dei modelli da emulare e così bambini ed adolescenti si ritrovano desiderosi di avere un capitano coraggioso che possa guidarli, dedicandogli con dedizione tempo e passione.

Allora ci si chiede se quell’autorevolezza educativa possa esprimersi sotto diverse forme: un genitore potrà dare un ceffone al proprio figlio o questo gesto potrebbe essere considerato un abuso o addirittura un maltrattamento?

A tale domanda Paolo Crepet risponde senza indugio: un ceffone può “scappare” anche al genitore più mite ma in tal caso sarebbe sinonimo di una incapacità a capire e soprattutto ad educare.

Infatti, spesso l’apprensione degli educatori nasconde una grande insicurezza nei confronti degli educandi, un po' come se non ci si fidasse più dei giovani, ponendo al centro gli adulti ed il loro desiderio di non perdere quel ruolo predominante.

“Educare all’autostima un adolescente è indispensabile; dovrebbe diventare un principio pedagogico strategico fin dalle scuole dell’infanzia: il nostro metodo educativo dovrebbe essere fondato sulla promozione dell’autonomia, mentre troppo spesso è imperniato sulla depersonalizzazione dell’allievo premiandone le competenze cognitive più basse”, così sostiene Crepet con grande forza e determinazione.

Il messaggio che vuole trasmetterci lo psichiatra è chiaro ed inequivocabile: occorre insegnare ad amare e ad amarsi perché “l’amore è la forma più sublime – e sublimata- di autostima”. Per poter credere davvero nel futuro dei giovani occorre dare loro gli strumenti più adeguati per crescere consapevolmente, sviluppando le proprie capacità cognitive al meglio e nella piena autodeterminazione, prediligendo una crescita personale e non una deresponsabilizzazione.

D’altronde “amare è progetto, sfida, disponibilità a credere. Ma per credere nel proprio futuro occorre volersi bene”, così ci insegna Paolo Crepet con parole pregne di significato.

 

Scuola Oggi

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martedì 29 ottobre 2024

LE DUE TRANSIZIONI


 Digitale e green,

 è gemella

 la transizione

 che ci porta nel futuro


Ne ha parlato Antonio Corda, legal affairs, external affairs & corporate communication director, Vodafone Italia, alla presentazione "Digitale e transizione ecologica: l'opinione degli italiani”, ricerca di Vodafone, curata da Youtrend. Secondo lo studio per oltre il 70% degli italiani è importante puntare sulla twin transition

di Alessio Nisi

La digitalizzazione è generalmente considerata un processo importante nella vita quotidiana: sette italiani su dieci affermano che l’introduzione di tecnologie digitali è molto o abbastanza importante per la loro vita di tutti i giorni. Una percezione questa particolarmente forte tra i giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni (80%) e che diminuisce progressivamente nelle fasce anagrafiche successive, pur rimanendo significativa: il 75% tra i 35-49 anni, 76% tra i 50-64 anni e 59% tra chi ha 65 anni o più.

La gran parte degli italiani ha presente quanto siano importanti la transizione ecologica e quella digitale. Pochi però pensano che queste due transizioni possano, anzi debbano, andare assieme. Sono transizioni convergenti, non esiste una senza l’altra

La transizione gemella

Se da parte c’è una consapevolezza consolidata sui temi della transizione ecologica e della digitalizzazione (per il 61% del campione è completamente o abbastanza chiaro cosa significhi “transizione ecologica” e per il 70% cosa sia la digitalizzazione), è però ancora scarsa la conoscenza su cosa sia la transizione gemella (solo per il 17% è completamente o abbastanza chiara la definizione).

Però, una volta spiegato il suo significato, il 76% del campione afferma di considerarla un elemento importante. Un dato in linea con quanto rilevato per la transizione ecologica, ritenuta importante dal 74% degli italiani, e per la digitalizzazione, considerata rilevante dal 76%.

Lo studio

Sono alcuni dei risultati dell’indagine Vodafone – YoutrendDigitale e transizione ecologica: l’opinione degli italiani.

Lo studio ha analizzato la sensibilità degli italiani su questi temi e su quali fronti e settori è importante agire per raggiungere un’autentica transizione digitale ed ecologica. Il suo obiettivo? Indagare in profondità la conoscenza, la consapevolezza e il parere degli italiani sulla transizione gemella, definizione coniata dall’Unione europea per descrivere la strategia che integra la transizione ecologica e quella digitale per affrontare le sfide del contemporaneo.

 Chi deve coprire i costi?

Lo studio indaga anche che cosa pensano gli italiani su come realizzare la transizione ecologica dell’economia. Ebbene, il 40% degli italiani vorrebbe leggi più severe contro l’inquinamento, il 25% invece ritiene necessario piantare più alberi, mentre per il 13% la digitalizzazione delle imprese e dei processi industriali è la soluzione migliore.

Sempre per quanto riguarda le azioni per la transizione ecologica, il 62% afferma che sono le istituzioni (governi e Unione Europea) a dover coprire i costi della transizione gemella.

Antonio Corda, legal affairs, external affairs & corporate communication director, Vodafone Italia

Una sfida che coinvolge tutti

Per Antonio Corda, legal affairs, external affairs & corporate communication director, Vodafone Italia, «la transizione digitale e quella ecologica, se affrontate con successo, renderanno più competitivo il nostro Paese, garantendoci un futuro sostenibile e inclusivo. È una sfida che coinvolge tutti, cittadini, aziende e istituzioni».

Un momento della presentazione dell’indagine Vodafone-YouTrend “Digitale e transizione ecologica: l’opinione degli italiani”

I cittadini. In particolare, aggiunge, «anche i cittadini giocano un ruolo centrale, sia come consumatori che come promotori del cambiamento, grazie a comportamenti e scelte di acquisto sempre più consapevoli e sostenibili».

Non si può pensare di raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile lavorando in modo individuale, ma solo agendo in una logica di sistema


Le istituzioni. Fondamentale, sostiene Corda, «il dialogo con le istituzioni: abbiamo bisogno di politiche che sostengano e favoriscano investimenti in innovazione tecnologica sostenibile. Solo attraverso un’azione collettiva e integrata possiamo garantire progresso tecnologico e tutela dell’ambiente».

Il Terzo settore, in questo quadro, può avere un ruolo importante nell’educare, formare e far conoscere. Penso però anche a progetti in cui si coniuga l’impegno nella transizione ecologica e sociale

Digitale, elemento abilitante

Spesso, sottolinea sempre Corda, «si sente parlare di transizione ecologica e digitale come realtà separate. Sono invece convergenti. Non si può avere una reale transizione ecologica senza il digitale, come elemento abilitante. Il digitale deve essere sostenibile».

Importante, ma poco conosciuto

La ricerca, mette in evidenza Lorenzo Pregliascofounding partner di Youtrend, «che la scarsa conoscenza di un tema o di un processo non si traduce necessariamente in una sua bassa rilevanza per l’opinione pubblica. È il caso della transizione gemella: un termine chiaro solo per il 17% degli italiani, ma considerato importante dal 76% una volta spiegato».

La dualità della transizione

Questa ricerca, aggiunge, «fa emergere aspetti interessanti sulla dualità di questa transizione. Abbiamo analizzato l’impatto relativo delle componenti della transizione digitale e di quella ecologica nei diversi settori economici, evidenziando come la percezione della loro importanza vari significativamente. Ad esempio, la transizione digitale domina nelle telecomunicazioni, mentre quella ecologica è più sentita in altri settori. È comunque indubbio che gli italiani riconoscano l’importanza di entrambe le transizioni: il 74% ritiene importante agire sulla transizione ecologica, e il 76% dà la stessa rilevanza a quella digitale».

Vita

 

INSEGNARE RELIGIONE A SCUOLA

 

Che cosa deve avere chiaro l’insegnante di religione (Idr)?

 La religione è una disciplina come tutte le altre? 

L’atto di fede rientra nel processo di apprendimento? 

Qual è il caso serio della religione? 

L’Idr che rapporto intrattiene con la teologia? 

Che cosa può significare essere teologi per essere Idr? 

Che senso ha per l’Idr fare teologia oggi? 

Di quale senso andrebbe riempita l’azione educativo-didattica dell’Idr senza un senso da dare al fare teologia? 

Perché non insegnare anche le altre religioni? 

Perché, se lo Stato è laico, esiste la religione cattolica come materia a scuola?

A queste e molte altre domande si potranno dare risposte chiare se all’insegnante di religione stesso sarà chiara la propria identità professionale e confessionale.

L’autore, mettendo assieme la doppia competenza ed esperienza di insegnante di religione e di teologo, inanella una serie di domande al fine di ispirare un dibattito sul modo di “pensare” questa specifica figura professionale.

Muovendo i primi passi dal basso del racconto esperienziale, prova a condurre il lettore verso una riflessione e una messa in questione di una serie di “focus tematici” imprescindibili per l’Idr fino a quella che è la questione delle questioni: con quale teologia l’Idr intrattiene una compagnia feconda?

Domande nette e tentativi di risposte vogliono condurre il lettore nella direzione di una prima configurazione dell’Idr come partner di dialogo con gli alunni, mettendo al loro servizio la competenza teologica non tanto per offrire soluzioni chiare o risposte univoche e assertorie alle tante domande sulla religione o sull’universo religioso, quanto per offrire una comprensione teo-logica che li guidi nel ritornare sui loro pensieri riguardo la religione e l’universo religioso.


Cognato - L'insegnamento della religione a scuola come pratica teologica, Ed. Pontificia Facoltà Teologica, Sicilia


 

lunedì 28 ottobre 2024

PADRE NOSTRO


 La preghiera 

che Gesù 

ci ha insegnato



-      -   di p. Giuseppe Oddone

L’ultimo sussidio sulla preghiera, l’ottavo, presentato dal dicastero per l’evangelizzazione in preparazione dell’anno del giubileo 2025, riporta le riflessioni del biblista Ugo Vanni, gesuita nato in Argentina, (1929 - 2018) che ha insegnato per molti anni all’Università Gregoriana e al Pontificio Istituto Biblico di Roma.

Il commento al Padre nostro gli è stato richiesto qualche anno fa da Mons. Rino Fisichella per commentare il Catechismo della Chiesa Cattolica, ma conserva tutta la sua freschezza e la sua attualità. Il Padre nostro, sintesi di ogni preghiera, insegnato da Gesù ha subito permeato l’ambiente della chiesa primitiva, le prime comunità cristiane ed è stato considerato da sempre compendio di tutto il Vangelo.

 È formulato solo nel Vangelo di Matteo e di Luca, ma gli elementi costitutivi di questa preghiera sono presenti in tutto il Nuovo Testamento.

Il Vangelo di Marco

 Le richieste del Padre nostro non sono in Marco collegate tra loro in una formula di preghiera. Ma la convivenza con Gesù, lo” stare con Lui” rivela ai discepoli che Egli si rivolge al Padre col termine aramaico di ’abbà come fanno i bambini in famiglia. Ed è l’unica volta che incontriamo questo termine nell’ambito dei Vangeli (Mc 14,36).  I discepoli hanno ascoltato nelle parabole Gesù che parlava del regno di Dio, seminato con la Parola nel cuore dell’uomo, hanno visto il Maestro determinato ad andare a Gerusalemme per compiere drammaticamente la volontà del Padre; Gesù ha poi parlato agli apostoli del pane dopo i miracoli della moltiplicazione, facendo loro intuire che dovevano ricercare un altro pane: “Non capite ancora e non comprendete?…

Non comprendete ancora?” (Mc. 8,17.21).

Egli esige che prima della preghiera si perdonino i fratelli: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe” (Mc 11,25); i discepoli hanno intuito che Gesù è stato tentato da Satana e lo ha vinto (Mc 1,12), hanno concretamente sperimentato nei vari miracoli che il male ed il maligno non possono reggere alla presenza di Gesù. Tutti questi elementi aderiscono perfettamente alla formula del Padre nostro, ne sono per così dire la preparazione e ci aiutano a comprenderne il significato.

Il Vangelo di Matteo

Il Padre nostro che noi recitiamo riprende la formulazione proposta dal Vangelo di Matteo: essa è inserita nel discorso della montagna, che si apre con le beatitudini e continua esponendo il programma della vita cristiana. Particolare rilievo ha la preghiera del discepolo che è rivolta al Padre che vede nel segreto, che è un dialogo che non ha bisogno di molte parole, caratterizzato da un’intensa intimità filiale. In questo contesto viene inserito il Padre nostro, preghiera che parte dal cuore del credente per raggiungere il cuore di Dio.

Essa, tuttavia, nell’intenzione di Gesù non appare come una formula fissa, ma piuttosto una griglia di riferimento per ogni altra preghiera e per la vita. Padre! La risonanza di questo termine è fortissima nell’ambiente di Gesù: fa riferimento all’ambiente collettivo della famiglia; il padre è colui che comprende ed educa il figlio, e ne riceve le confidenze, ma è anche colui che compatta la famiglia, che vincola i fratelli tra di loro.

Noi diciamo appunto “Padre nostro” con un forte riferimento alla dimensione socio familiare perché i primi cristiani si trovano a vivere insieme e avvertono questo filo che li unisce tutti nei valori più profondi.

 Dio moltiplica la sua paternità: è infinitamente Padre.

E’ il Padre “che sei nei cieli”, il “Padre vostro celeste” che va infinitamente oltre le categorie della paternità terrena. Sia santificato il tuo nome: questa santificazione si realizza non per mezzo di un’aggiunta impensabile alla santità di Dio, ma facendo in modo che la sua santità si diffonda e si realizzi in noi e in tutta la grande famiglia cristiana. Venga il tuo regno: Dio per mezzo di Cristo viene incontro all’uomo con una alleanza di amore e chiede a noi di andare incontro a Lui mediante il sì della fede; il regno di Dio è in sviluppo fino alla fine dei tempi  quando Dio sarà “tutto in tutti”.

Sia fatta la tua volontà.

 E’ aderire a ciò che Dio vuole attraverso ai comandamenti, alla sua Parola incarnata in Cristo, e anche attraverso alla nostra storia personale e agli imprevisti della vita. Dacci oggi in nostro pane quotidiano. Chiediamo il nutrimento fatto dall’uomo e per l’uomo, condiviso in famiglia e tutto ciò che rende la vita familiare non solo possibile, ma anche gradevole: in sintesi una vita vissuta con serenità e con dignità. Il pane è nostro, non mio. Lo chiediamo gli uni per gli altri.

 Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori.

Ognuno con i suoi peccati ha dei debiti verso Dio e Dio colma questo vuoto con il suo amore, ma vuole che nello stesso tempo come famiglia di Dio saniamo le fratture che abbiamo con i nostri fratelli per non bloccare quel flusso di bontà che scende da Lui ed a Lui attraverso il perdono deve tornare. Non possiamo pretendere di raggiungere Dio da soli, escludendo gli altri.

Non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.

Le ultime due richieste riguardano ancora il mistero del male, del peccato. Tutti siamo nel deserto della vita esposti alla tentazione. Con l’aiuto di Dio possiamo superare la prova e consolidare i nostri valori cristiani. Ma data la debolezza umana la tentazione può avere uno sbocco negativo: chiediamo allora al Signore che ci eviti di entrare in quelle situazioni il cui esito sarebbe rovinoso, facendoci cadere nel potere del “maligno”. Il Padre celeste ha tuttavia debellato il male attraverso alla morte ed alla risurrezione di Gesù e con il pentimento sincero è sempre possibile riprendere il nostro cammino di fede. 

Quando “il mio Padre celeste” di Gesù è diventato anche “il vostro Padre celeste” dei discepoli si ha come un passaggio dal cuore di Gesù al cuore dei cristiani e la preghiera del Padre nostro si rivela in tutta la sua bellezza e in tutto il suo significato. Il Padre nostro in San Paolo Anche in San Paolo si possono trovare numerosi riferimenti al Padre nostro. Per ben due volte l’apostolo afferma che noi cristiani, guidati dallo Spirito, nelle assemblee ci rivolgiamo a Dio e “gridiamo: Abbà! Padre!” (Rom. 8.15; cfr. Gal.4,5.6).

E’ lo Spirito di Gesù, effuso nei nostri cuori, che ci rende figli di Dio, ci santifica, attiva la nostra speranza nella venuta del regno di Dio ora e poi alla fine dei tempi, ci dona la mente, la volontà di Cristo per realizzarla nel nostro comportamento,  ci offre il pane eucaristico e il pane quotidiano del nostro lavoro, ci aiuta a vincere il male con il bene, ci rende capaci di perdono e di amore vicendevole e dà la forza di resistere alle tentazioni con la preghiera e di respingere Satana, vivendo con gioia la nostra filiazione divina.

Il Padre nostro in San Luca

Troviamo la formula del Padre nostro, con qualche omissione, anche nel vangelo di Luca. Ma Luca è più vicino alla mentalità di Paolo che a quella di Matteo. La preghiera rivolta al Padre nasce proprio dallo Spirito di Gesù, dall’esperienza del Signore che prega: “Signore, insegnaci a pregare!” (Lc 11,1). La risposta di Gesù è immediata, perentoria, coinvolgente: “Quando pregate, dite” (Lc. 11,2). Il cielo ove abita il Padre è il cuore di ogni credente, ove agisce lo Spirito “riversato” in noi. La santificazione del nome di Dio e l’avvento del suo regno avvengono nell’appartenenza alla comunità cristiana, obbediente alla voce dello Spirito.  Chiediamo con insistenza ogni giorno il pane quotidiano e ci affidiamo pienamente a Dio, domandiamo perdono dei nostri “peccati”, sappiamo che solo Lui può perdonarci, perché “anche noi infatti perdoniamo ai nostri debitori” come Gesù sulla croce.

 Infine, imploriamo di essere liberati dalla tentazione: è implicito che dietro ogni tentazione c’è un tentatore, il maligno, che si infiltra nelle strutture umane. Solo il sostegno del Padre, ottenuto con la preghiera, ci aiuta ad uscire indenni e a neutralizzare il male. Possiamo pertanto considerare la formula della preghiera in Luca, non tanto come una riduzione del Padre nostro, ma come un approfondimento secondo la linea di San Paolo, di cui Luca fu collaboratore. 

Il Padre nostro in Giovanni

Una formula del Padre nostro non appare direttamente negli scritti dell’apostolo Giovanni. Vi è invece la grande preghiera di Gesù al Padre nel capitolo 17 del suo Vangelo. È di una vertiginosa profondità. Gesù è l’unigenito pieno di grazia e di verità, che viene dal Padre, che vive in contatto con Lui ora per ora, momento per momento, che opera in unione con Lui, che glorifica il suo nome, in particolare quando è innalzato sulla croce per attirare tutti a sè.  Gesù è “una cosa sola” col Padre, dona ai discepoli la vita eterna, vuole che essi “siano una sola cosa come noi” (Gv 17,11), prega che siano tenuti lontani “dal Maligno (Gv. 17,15), che contemplino “la mia gloria, quella che Tu mi hai dato”.

 E’ grazie alla fede e all’accoglienza di Gesù che siamo diventati figli di Dio (Gv. 1,12); Egli ci pone profondamente in rapporto con il Padre: “E’ Cristo che viene donato continuamente alla comunità dalla mediazione dello Spirito. E così il Padre santifica e glorifica il suo nome, coinvolge in una situazione di regno che si realizza giorno per giorno, stabilisce una reciprocità di amore che porta a desiderare appassionatamente la realizzazione della sua volontà. Dando Cristo come nutrimento, il Padre dona quanto c’è di meglio per l’uomo, per la sua vita presente e futura, spingendolo ad amare col suo stesso tipo di amore e difendendolo da qualunque insidia. Muovendosi nell’orbita di Cristo, il cristiano diventerà pienamente figlio del Padre” (pp. 100-101).

 Conclusioni

Il Padre nostro è un condensato di vita. Continua a viaggiare nella storia della Chiesa sempre con nuove risonanze. Ogni generazione di credenti lo ha riletto, approfondito e interpretato e così sarà fino alla fine dei secoli.  Per esemplificare mi permetto di citare la rilettura poetica di Dante, che troviamo nel Purgatorio, regno della preghiera.

  «O Padre nostro, che ne’ cieli stai,  non circunscritto,

ma per più amore  ch’ai primi effetti di là sù tu hai, 

                                       laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore  da ogni creatura,

com’è degno  di render grazie al tuo dolce vapore.                               

Vegna ver’ noi la pace del tuo regno, 

ché noi ad essa non potem da noi,  s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.                        Come del suo voler li angeli tuoi  fan sacrificio a te, cantando  osanna, 

così facciano li uomini de’ suoi.

      Dà oggi a noi la cotidiana manna,

 sanza la qual per questo aspro diserto  a retro va chi più di gir s’affanna.

 E come noi lo mal ch’avem sofferto  perdoniamo a ciascuno,

 e tu perdona  benigno, e non guardar lo nostro merto.

                      Nostra virtù che di legger s’adona,  non spermentar con l’antico avversaro,

 ma libera da lui che sì la sprona. 

          (Purg. XI, vv 1-21)

 

 Parafrasando: Dio Padre è nei cieli, non limitato da essi, Lui che tutto circoscrive; si dice così per il maggiore amore che Egli ha per le prime cose da Lui create: gli angeli ed i cieli stessi. C’è poi per la santificazione del nome di Dio una sottolineatura trinitaria e una indiretta citazione del cantico delle creature di Francesco: “laudato sia” il tuo nome (Il Figlio), il tuo valore (il Padre), il tuo dolce vapore (lo Spirito).

 Il regno di Dio è un regno di pace: ad essa l’umanità non può giungere da sola, ma soltanto con l’aiuto di Dio, richiesto nella preghiera. Gli angeli sono perfetti e gioiosi esecutori della volontà di Dio, altrettanto sappiano fare gli uomini con la loro volontà nei confronti del Padre.  Nell’aspro deserto della vita chiediamo il pane (la manna) quotidiano, materiale e spirituale: senza di esso tutte le nostre fatiche non portano a nulla, anzi ci fanno solo retrocedere. Come noi perdoniamo a tutti le sofferenze che ci hanno causato direttamente o indirettamente, così chiediamo a Dio di perdonarci per il suo amore, non certo per i nostri meriti.

Infine, domandiamo al Padre di non mettere alla prova la nostra virtù, che si abbatte (s’adona) facilmente, e di non lasciarci in balia del demonio, l’antico avversario, che ci sprona al male.

Il Padre nostro, parafrasato da Dante, è rivolto al Padre da anime in stato di purificazione, ma è anche una preghiera fatta da loro per chi è rimasto sulla terra, una preghiera che unisce spiritualmente i vivi, ossia la Chiesa militante, con i defunti, con le anime oltre il confine della vita terrena, tutti in cammino verso il paradiso, nostra definitiva casa nell’unione perfetta con il Padre che è nei cieli.

CEI

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NOI e LA CATTIVERIA


“Per salvarci

 dobbiamo creare

 una barriera tra noi 

e la cattiveria mondo”



 intervista a Vito Mancuso

a cura di Bianca Senatore

 Ascoltiamo una notizia alla radio, leggiamo un giornale e poi usciamo, di corsa nel traffico. Un clacson suona, l’autobus è affollato, c’è uno che impreca.

Corriamo in giro, leggiamo dell’ennesimo omicidio, malediciamo qualcuno perché sui social abbiamo letto che… E poi torniamo a casa, la stanchezza, lo stress, un magone nel petto. Quante volte accade? Quanto della negatività del mondo ci avvelena quotidianamente? Alla fine, quel che resta è una sensazione di smarrimento e di paura, come se il mondo dovesse finire da un momento all’altro, tra guerre, crisi climatiche e migrazioni. Eppure, non è così. L’unica cosa da fare, quindi, è tirare un respiro per poi focalizzarsi su sé stessi. Non è difficile e ce lo spiega il filosofo Vito Mancuso

 In questi tempi difficili che stiamo vivendo come ci può aiutare l’etica? 

L'unica possibilità che abbiamo per non diventare difficili anche noi, come lo sono questi tempi, è di porre una barriera tra noi e la difficoltà di questi giorni. Difficoltà che si chiama cattiveria, tensione, aggressività. E la barriera che noi poniamo tra la cattiveria di questi tempi e noi stessi si chiama etica. Etica significa giustizia interiore, ricerca di armonia, ricerca del bene e non dell'interesse immediato. L’etica trasforma una persona negativa non dico in un amico, ma perlomeno in una persona non ostile. Questo vuol dire etica. Considerato i tempi che viviamo, chi non fa così soccombe. L’unica soluzione, come dicevo prima, è creare una specie di fossato, come nei castelli medievali, tra sé stessi e la cattiveria. Per isolarsi da questa specie di onda nera che arriva e che può sommergere tutti. Ci si aiuta così. Chi non lo fa, viene travolto dalla marea nera, è in balia di questo spirito. E molti lo sono già, purtroppo. Lo si capisce parlando con le persone, andando in giro, guidando nel traffico. Siamo diventati tutti tendenzialmente più aggressivi e rissosi, senza empatia. 

 Tra guerre, discorsi d’odio e altre cose, come possiamo difenderci? La filosofia può aiutarci? 

La società sta andando verso un declino, per non dire dirupo, ed è chiaro che la filosofia ci aiuta interiormente. Certo, in questo momento storico non è che con la filosofia, l'etica, la spiritualità insomma, si riesca a cambiare il mondo esterno. È evidente che questo processo nel quale siamo inseriti non è facilmente trasformabile. E, tra l’altro, chissà per quanto tempo dovremmo ancora sopportare questa situazione sempre più problematica. Però, la filosofia, l’etica, la spiritualità e la coltivazione della propria interiorità ci possono aiutare a non diventare noi stessi vittime di questa situazione. 

 E se non riuscissimo a trovare forza nella filosofia? 

Le soluzioni sono due: o diventiamo anche noi a nostra volta delle persone negative, assorbendo quello che c’è intorno, oppure resistiamo, perché sentiamo che diventare cattivi significherebbe la peggiore sconfitta per la nostra vita. Bisogna riuscire a rimanere persone giuste. Tutti insieme, con l’aiuto della filosofia, dobbiamo resistere, trovando una fonte di energie positive. Questa fonte si chiama preghiera, per chi è religioso. Per chi non lo è si chiama filosofia, meditazione. Ma anche una persona religiosa può benissimo sia pregare sia avvalersi della filosofia. E poi è anche importante creare dei legami positivi, sani. Ma, ripeto, la cosa imprescindibile è la cura della propria interiorità: a cosa serve lottare per la pace se dentro di noi c'è la guerra? Dobbiamo aspirare prima di tutto a una pacificazione interiore. Il grande errore del socialismo, del comunismo e delle ideologie del ‘900 era di pensare che i problemi umani si risolvessero solo a livello sociale. Non che la società non sia importante, ha un ruolo rilevante. Ma i problemi umani si risolvono a livello umano, a livello interiore, perché la società non è nient'altro che l'espressione di quello che siamo noi. E quindi il vero campo di battaglia è interiore. 

 Il titolo del suo ultimo libro è “Destinazione speranza”. Cosa intende? 

La parola speranza, come diceva il grande studioso della lingua latina VII secolo, Isidoro di Siviglia, viene dal termine “pes”, piede, un elemento del corpo ci tiene in posizione eretta. Ecco, la speranza è una forza interiore che non ti fa abbattere sulla realtà, quando la realtà è quella di cui abbiamo parlato finora. Se una persona non ha questa ulteriore forza interiore è chiaro che viene catturato dall’onda nera e diventa aggressivo e depresso. E anche deprimente, nel senso che deprime gli altri e si deprime sé stesso. Se, invece, si ha un'interiorità viva, vivace, allora le cose cambiano e si può affrontare la realtà senza scoraggiarsi, senza cadere nello scetticismo. E questo distributore di energia positiva la possiamo chiamare, appunto, speranza.

 

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