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martedì 1 ottobre 2024

IL PASSATO IMMINENTE


 - di Alessandro D'Avenia

Un presente sfocato o un passato imminente: dove e quando un passato può essere sempre acceso come un fuoco eterno nella notte fredda e buia?

 «Leggo il suo ultimo libro, mi fermo, penso, ne parlo con i miei figli adolescenti. È emerso qualcosa che ci ha fatto ridere e riflettere. È nato un concetto che vorremmo regalarle, dato che al momento, oltre a concepirlo, non andiamo. Lo abbiamo scritto sulla lavagna d'ardesia che abbiamo in cucina (cuore della casa), e ci osserva: una coniugazione imprevista. Si tratta del “passato imminente”, che non sappiamo esattamente gestire e affidiamo a lei». Ho accolto la suggestione di questa lettera perché vi ho scorto una luce nel buio susseguirsi dei recenti episodi di cronaca nera familiare, una luce che potrebbe illuminare almeno la crepa sui muri di case la cui frattura è profonda, nelle fondamenta. Un tempo verbale concepito tra risate e chiacchiere in famiglia appartiene alla cronaca minuta, ma raccontare avventure minime, collezionare reperti di gioia, come una lavagna in ardesia in cucina, è il compito di chi sta all'ultimo banco. Un oggetto che apparterrebbe all'immaginario scolastico si rivela per quel che è, ovunque lo si metta: promemoria e progetto. Il «passato imminente» allora sembra un passato che non smette di farsi presente, continua ad accadere. Ma dove e quando un passato può essere sempre acceso come un fuoco eterno nella notte fredda e buia?

 Il «passato imminente» appartiene alla categoria dei passati: il sugo della vita. Tra i passati verbali amo l'imperfetto (in-per-factum: «non fatto del tutto»), che non è un tempo difettoso ma carico di destino, un tempo che richiede compimento, ed è infatti il tempo delle storie: «C'era una volta...» promette che qualcuno porterà qualcosa a compimento, a perfezione (per-factum non vuol dire «senza difetti» ma «fatto del tutto»). Alla fine del racconto, infatti, compare un altro passato (che i latini chiamavano «perfetto», noi remoto) che segnala compimento: «vissero felici e contenti», dove il «vissero» non riguarda solo il dopo la vicenda, ma la vicenda stessa: felice e contento è chi porta a compimento la propria irripetibile storia.

 L'imperfetto «c'era», che è mancanza di forma, è diventato perfetto, «vissero», ha preso forma: Pollicino è tornato (in famiglia), la Bestia è tornata (umana), Biancaneve è tornata (in vita) ... Tutto «torna» o almeno ci prova. Tra questi passati allora dove mettere il «passato imminente»? Dove la vita non muore mai. È il passato che non passa, un sugo che non scade né si esaurisce. Omero, Dante, Galilei, Beethoven, Curie, Montessori, Van Gogh, Madre Teresa... sono il sugo dell'umanità, passato imminente - dal latino in-manere, «rimanere nel» (presente) - perché eminente - da e-manere, «rimanere fuori dal» (presente) -: verità che resta non invecchia e di cui non si può più fare a meno.

 Di certo al «passato imminente» appartengono anche guerre e malfattori, non possiamo dimenticarli, imminente è infatti anche aggettivo per «ciò che sta sopra»: minaccia. Il passato si conserva se è bello o atroce, ma se smette di essere imminente, perché più o meno volontariamente lo dimentichiamo, nel primo caso non ispira nuova bellezza, nel secondo provoca nuova sofferenza. Il mondo e la sua storia si danno in questa duplice manifestazione, bellezza e sofferenza, la Sagrada Familia e l'Atomica, non c'è sintesi possibile, c'è solo lo spazio della scelta: stare di fronte al bene per moltiplicarlo, stare di fronte al male per confinarlo, o viceversa. Inoltre il passato imminente non è consumazione di un bene culturale a cui è ridotta spesso la cultura, ma la sua moltiplicazione nei nuovi venuti, e non è neanche riesumazione di morti, perché vivi sono Socrate, Cristo, Buddha che per dire e fare ciò che hanno detto e fatto non hanno avuto bisogno di internet o dell'aereo, ma solo dell'amore per l'uomo. E infatti noi, ancora solo viventi, immersi nella spesso buia e fredda notte della ricerca di senso, troviamo ancora in loro un fuoco grazie alla cui chiarezza e calore diventiamo vivi, perché vivo è solo chi riceve e passa il testimone del miracolo del mondo. Insomma, questo passato imminente è il sugo della vita: che cosa resta, per sempre, di una vita «passata»? E allora questo è anche il tempo dell'educazione in generale, e della scuola in particolare: spazio in cui viene letto un testamento che cita inaspettatamente i nostri nomi come destinatari. Avi, genitori, maestri e tutti coloro che con i loro talenti hanno acceso il fuoco per noi sono «passato imminente». Ma come riconoscere questo tempo nuovo? Che forma ha? È sempre vivo: «Sono chi fui e sono qui per te». Assomiglia al fuoco acceso in una memorabile pagina di Non è un paese per vecchi di Cormack McCarthy, in cui il narratore racconta di aver sognato per due volte il padre morto: «Il primo [sogno] non me lo ricordo bene, lo incontravo in città da qualche parte e mi regalava dei soldi e mi pare che li perdessi.

 Ma nel secondo sogno era come se fossimo tornati tutti e due indietro nel tempo, ero a cavallo e attraversavo le montagne di notte. Attraversavo un passo in mezzo alle montagne. Faceva freddo e a terra c'era la neve, lui mi superava col suo cavallo e andava avanti. Senza dire una parola. Continuava a cavalcare e quando mi passava davanti mi accorgevo che aveva in mano una fiaccola. E nel sogno sapevo che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo e che, quando ci sarei arrivato l'avrei trovato ad aspettarmi. E poi mi sono svegliato». Due sono le possibilità: un «presente sfocato», cioè senza fuoco (chiarezza e calore), in cui riceviamo qualcosa che si consuma e prima o poi perderemo, o un «passato imminente», che mette «a fuoco», chiarezza e calore, il presente, e ci risveglia dal sonno dell'anima in cui siamo a volte imprigionati. Chi ha acceso per noi questo fuoco? Per chi lo accenderemo noi?

 

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SPERARE E' ANCORA POSSIBILE


UNA LUCE 
OLTRE 

IL BUIO

 DEL NOSTRO

 TEMPO


Pubblichiamo un estratto del libro «Sperare è ancora possibile. Il messaggio di san Francesco, una luce oltre il buio del nostro tempo» (Edizioni Piemme) di Roberto Repole, a cura di Domenico Agasso, in uscita l’1 ottobre.

La lezione francescana è di grande sprone ad affrontare la nostra epoca, che registra mutamenti inaspettati anche solo rispetto a qualche decennio fa. Il primo grande stimolo che ci viene dal santo di Assisi è a non fuggire questo mondo, ad abitarlo appieno e a vedere con lucidità quanto sta accadendo, senza negarsi nulla. Qualcosa che è valido per i cristiani, ovviamente, ma che può essere utile per qualunque donna e uomo voglia mantenere lucidità. Ci sono infatti rimozioni o negazioni del reale di cui tutti, pur in modi diversi e a volte antitetici, si può essere vittime.

Pensando specificamente a ciò che è chiamata a fare la comunità dei credenti in Cristo, si può prospettare anzitutto la capacità di leggere anche questo tempo come abitato da Cristo, vivo nello Spirito. Nella misura in cui si considera Cristo come principio, fine e centro del mondo e della storia, non si può ritenere che esista un'epoca disabitata da Lui. Anche l'attuale cambiamento d'epoca avviene sotto lo sguardo e la presenza di Cristo vivente.

Con Francesco e come lui, possiamo trovare perciò nella Scrittura la luce per orientarci in una società in rapido mutamento e per trasformare le problematiche e le crisi in opportunità di crescita.

E questo può valere anche per le persone che più faticano ad affrontare il presente, per esempio gli anziani, che spesso si sentono spaesati di fronte alle alterazioni socio-politico-religiose degli ultimi decenni. Che cosa bisogna vedere e su che cosa deve essere operato il discernimento alla luce della fede? È difficile rispondere sinteticamente, anche perché la contemporaneità è caratterizzata da una grande "complessità". Si può tuttavia tentare di leggere alcuni macrofenomeni da riconoscere e abitare: sia a livello socio-culturale, sia sul piano specificamente religioso.

Un primo fenomeno che sembra caratterizzare nel profondo la cultura del nostro tempo e incidere sul nostro modo di guardare alla vita e di compiere le nostre scelte, soprattutto in Occidente, è il nichilismo. Può sembrare un termine difficile e per addetti ai lavori. Non lo è, quando se ne colgano gli effetti più pratici e immediati. Prendiamo – a titolo di esempio – il fenomeno dilagante dei talk show televisivi o quello delle discussioni sul web e nei social network. Nei programmi televisivi o radiofonici, quando si affrontano temi importanti, è divenuta prassi comune far discutere fra loro persone diverse, alcune delle quali sono davvero competenti, mentre altre non hanno una particolare conoscenza di quanto si sta trattando. Vengono invitate, queste seconde, solo perché sono personaggi noti al mondo mediatico. Questo meccanismo produce effetti distorti: le posizioni di coloro che intervengono appaiono tutte equivalenti fra loro, a prescindere dalla competenza di chi parla. Con molta difficoltà, una posizione riesce ad assumere un valore qualitativamente diverso, anche se si tratta della posizione di chi è realmente esperto.

 Nel caso di internet il fenomeno risulta ancora più evidente. Si può porre qualunque domanda ai motori di ricerca; ed essi ci rimandano a una infinita serie di siti e di informazioni diversi tra loro per qualità, serietà e verità delle posizioni sostenute. Quali sono le informazioni corrette? Difficile stabilirlo. Non è certo un caso che in questi ultimi anni si siano formati gruppi di persone che portano avanti tesi complottiste oppure mettono in discussione verità consolidate in questioni che riguardano la medicina o altre verità scientifiche. Tali gruppi si sono alimentati dalle notizie che circolano, qua e là, in rete; e hanno contribuito alla confusione offrendo ulteriori notizie, della cui verità scientifica si può spesso dubitare.

Non si vuole certo negare la bontà e la bellezza dei nuovi mezzi di comunicazione. Quando si dice che con internet è avvenuta una certa democratizzazione dell'informazione si afferma qualcosa di reale: l'informazione non è più appannaggio di pochi operatori. Ci vorrà probabilmente tempo e pazienza per consentire alla società civile di formarsi uno spirito critico rispetto a quanto trova su internet, così come nel passato accadde rispetto ai contenuti di libri e giornali. È tuttavia palese che i fenomeni descritti finiscono con l'affermare una sorta di "tesi metafisica": l'idea che, alla fine, una verità valida per tutti non esiste, né è il caso di cercarla e di averne passione.

Questa idea si riscontra anche nei modi di dire e di pensare più comuni: come quando ci si dice che ognuno ha la sua verità e ha il diritto di pensare quello che vuole; o come quando, nel confronto tra religioni, si dice che una vale l'altra, senza entrare nel merito di quali credenze vi si professano.

Ecco, in questo senso viviamo ormai in un contesto nichilista. Non certo perché si professa in maniera tragica la prospettiva del nulla rispetto a una prospettiva dell'essere, ma perché si respira un modo di pensare per il quale non c'è nulla che valga davvero, ogni idea è solo un'opinione tra le altre, gli atteggiamenti sono tutti insindacabili e ingiudicabili, una verità non vale la pena di ricercarla e, più ancora, una verità non esiste.

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ELOGIO DELLA DEBOLEZZA

 


-di ENZO BIANCHI

 

Prima di organizzare dibattiti e confronti su un tema oggi evocato con frequenza come quello della “fragilità”, occorrerebbe fare con intelligenza una distinzione tra fragilità, debolezza, vulnerabilità e imperfezione. Altrimenti si fa confusione e non si accede a una consapevolezza che aiuti il nostro cammino di crescita umana.

 Certamente viviamo in un contesto di relativismo, di oblio delle esigenze morali e di fuga dalla fatica che incoraggia una certa inerzia e che non può non diventare debolezza spirituale. Anche la crescita delle ansie esistenziali e delle paure di fronte alla vita stessa, al futuro, alla morte, al fallimento, hanno alimentato un clima di depressione che porta a rimuovere le virtù da conseguirsi con fatica, mentre incoraggia la fragilità. Vulnerabili siamo tutti noi in quanto esseri umani: ma la fragilità è altra cosa e non va confusa!

Vulnerabilità” significa capacità di essere feriti, apertura ed esposizione all’altro: l’altro che ci sta davanti e ci mostra il volto con le sue ferite e il suo pianto ferisce anche noi, ci fa soffrire e ci porta alla compassione, al “soffrire insieme”. Essere vulnerabili è una grande possibilità di comunione anche perché la vulnerabilità non solo non esclude la fortezza, ma può incitarci all’acquisizione di questa virtù, tanto necessaria per poter aiutare con responsabilità e intelligenza l’altro che soffre.

 La fragilità invece è il male che ci coglie a causa della vita, della malattia, delle vicende del mondo. Dalla fragilità vorremmo “essere liberati” perché è un impedimento alla pienezza della nostra vita.

 Oggi c’è un elogio della fragilità che è insensato. Viene fatto da impotenti e inerti, ma va giudicato con chiarezza come giustificazione di una vita nella quale si rifiuta la fortezza per un equivoco: la fortezza infatti non è violenza, non è un vile prevalere sugli altri, ma è capacità di resistenza, di saldezza, di resilienza, di pazienza, di makrotymía, capacità di continuare a pensare in grande e a vedere in grande.

 Per questo le persone fragili sono riconosciute da chi sa di essere fragile e sono conosciute nel faccia a faccia, guardandosi negli occhi, nel mettere la mano nella mano, nell’abbracciarsi. Abbracciare un corpo deforme o malato, dare la mano a un mendicante, dare un bacio a un povero, accogliere un viandante in casa, è vivere la beatitudine di chi riconosce e discerne l’uomo fragile, dicono i salmi nella Bibbia.

 La debolezza. E infine possiamo dire che la debolezza è una consapevolezza spirituale della nostra situazione: siamo sempre deboli, ma è vero che in certi momenti sprofondiamo in una debolezza che rasenta la morte. Nonostante la lotta contro la tentazione cadiamo nel compiere il male, falliamo nel fare il bene, contraddiciamo l’amore. Gregorio Magno dice che, se non fossimo deboli e soggetti a cadute e a fallimenti nella vita, penseremmo che il bene che facciamo viene da noi e non da Dio. E arriva a dire con molta audacia che i peccati che facciamo, soprattutto quelli impuri, sono un rimedio all’orgoglio. 

Ma è il grande san Bernardo, che dopo una vita in cui comandava al papa e ai re, vive una crisi profonda: esce dal monastero e va a vivere da solo, in una capanna nella foresta. E qui confessa a causa dei suoi peccati il fallimento della sua vita da monaco, il fallimento del cammino verso la santità che si era prefisso. Ne esce come un uomo spogliato e canta: O optanda infirmitas! O beata desiderabile debolezza!

 

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