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sabato 31 agosto 2024

TANTO NON SI VEDE

 


Ventiduesima domenica del T.O. anno B

1 settembre 2024

 

Dt 4,1-2.6-8   Sal 14   Giac 1,17-18.21-22.27   Mc 7,1-8.14-15.21-23

 

«Leggi, o ascolti, le parole: Non avere sentimenti d’orgoglio ma temi;

e tu nutri tali sentimenti d’orgoglio da ritenerti senza peccato?

In questa maniera, siccome tu non vuoi temere,

non ti rimarrà altro che apparire quel pallone gonfiato che sei».

Sant’Agostino, Esposizione sul salmo 118, Discorso 2, 1

 

Commento di Gaetano Piccolo*

L’apparenza inganna

 La storia e l’esperienza ci insegnano a non fidarci delle apparenze. Lo avevano imparato bene gli abitanti di Troia, che si erano fatti ingannare da un cavallo lasciato alle porte della loro città come un regalo. In realtà, all’interno, il cavallo nascondeva i nemici greci che facilmente, con questo stratagemma, penetrarono nella città per espugnarla. Nonostante ciò, continuiamo a investire ampiamente sull’immagine esteriore, come se fosse la cosa più importante. Il motivo è da ricercare forse proprio nel piacere di essere ingannati. In fondo ci piace nascondere, siamo contenti di vivere in un mondo dove quello che conta è quello che appare in superficie.

 L’interiorità inutile

 L’interiorità è faticosa da curare e comunque nessuno la vedrebbe. Sarebbe difficile essere apprezzati e riconosciuti e quindi non vale la pena investire su qualcosa che gli altri non possono valorizzare in modo immediato. Meglio seguire le mode e cercare di distinguersi in quello che è socialmente riconosciuto come un valore. In alcuni ambenti, preservare l’immagine è l’unico modo per fare carriera e per essere accettati dal gruppo. Anche a questo scopo, occorre giocare d’anticipo e andare a caccia di chi non rispetta i canoni formali per appartenere al gruppo, in modo da poter facilmente eliminare un possibile avversario. Siamo in fondo una società di ipocriti, persone con poco giudizio, come dice il termine, che si accontentano di una esteriorità superficiale.

 La pretesa di giudicare

 La domanda che gli scribi e i farisei, paladini della correttezza formale, rivolgono a Gesù, va proprio in questa direzione: i discepoli non rispettano una prassi legalistica e non stanno dentro le norme. Purtroppo, questi ragionamenti li sentiamo spesso anche all’interno del contesto ecclesiale, che si rivela tante volte più farisaico che evangelico, pretendiamo infatti di giudicare chi può stare dentro la comunità solo alla luce di una prassi esteriore non rispettata secondo alcuni canoni prescritti. Ma è davvero quello il peccato che ci rende indegni? E, soprattutto, se per Gesù quello che conta è l’interiorità, come possiamo avere la pretesa di conoscerla e di giudicarla?

 Ipocriti contemporanei

 Si vedono in giro molti tromboni che con le loro labbra si dicono fedeli e osservanti. E attraverso le loro parole riescono a comunicare un’immagine costruita e falsa di se stessi. Ma dal loro cuore escono invece invidia, maldicenza, pettegolezzo, odio e rancore. Formalmente però sono a posto. Anzi, molte volte sono proprio quelli che si ergono a giudici degli altri e vanno a caccia dell’imperfezione esteriore per eliminare il presunto peccatore. È il loro modo per acquisire una patente esteriore di correttezza che li preserva da qualunque accusa.

 Fare verità

 Le parole di Gesù sono per ciascuno di noi un invito a chiederci a cosa stiamo prestando maggiore attenzione, dove stiamo investendo le nostre risorse. Possiamo chiederci se siamo più preoccupati di quello che si vede o di quello che c’è veramente nel nostro cuore. Possiamo chiederci se stiamo lavorando alla costruzione di un’immagine esteriore di correttezza o se ci stiamo prendendo cura della nostra vita interiore. Spesso le mele lucide del cesto del fruttivendolo sono quelle che all’interno sono marce. Al contrario le mele che hanno più difetti all’esterno, sono probabilmente senza conservanti, sono più vere e hanno un sapore migliore.

 Leggersi dentro

 Quanto sono preoccupato della mia immagine?

Che cosa c’è nel mio cuore?

 

Alzogliocchiversoilcielo

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*Gesuita, professore ordinario di filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana

 

LA LEGGE DEL DESIDERIO



Io sono la via la verità, la vita. 


E il desiderio


- di  Massimo Recalcati

 Uno fuori di sé, un falsario, un truffatore, un demone a capo di altri demoni, un delirante, un narcisista, un falso profeta, un esaltato, un beone e un mangione, un frequentatore di prostitute e di ladri, un malfattore, un impostore. È questo il ritratto di Gesù che possiamo ricavare dal giudizio dei suoi nemici: scribi, dottori della Legge, sacerdoti del tempio. Gli uomini religiosi non sanno, infatti, cosa significa spendere tutta la propria vita nell’amore, non sanno cosa significa desiderare e amare la vita.

Il loro risentimento li avvelena, la loro impotenza li intossica, la loro tristezza li inaridisce. Essi non hanno possibilità di pensare all’evento dell’impossibile che irrompe e sovverte l’ordine già stabilito dell’esistenza ricostituendolo come nuovo. La loro ipocrisia cinica non permette di aver fede nel miracolo del desiderio. Piuttosto li impegna in un’opera permanente di diffamazione e di demolizione di chi invece incarna l’impossibile che diviene possibile. «Cosa c’è in un nome?» si chiedeva Stephen Dedalus, uno dei due protagonisti dell’Ulisse di James Joyce. In quello di Gesù c’è il segreto che lo contrassegna. Nella lingua ebraica, Yeshua significa, infatti, il Dio che salva. La sua parola ha la forza di un magnete irresistibile, trasporta, smuove, erotizza, causa il desiderio, assomiglia a un fuoco sempre acceso, salva mostrando che la verità non è già tutta scritta nella Legge, ma attende di farsi ogni volta vera nella dimensione incarnata della testimonianza. Sono gli atti che Gesù compie a rendere possibile la salvezza su questa terra.

 Senza questa testimonianza di cura per chi è nella sofferenza e nella tristezza, nella povertà e nell’abbandono, nella tribolazione e nella disperazione, ma anche per chi si trova nell’ipocrisia e nell’avidità, nella conservazione ottusa dei propri beni e nel rifiuto dell’amore, il destino che egli porta nel suo nome non si sarebbe realizzato. Per questo il suo primo e decisivo passo consiste nel risignificare il rapporto tra la Legge e la vita. Se, infatti, la Legge tende a estirpare il desiderio dalla vita, essa si inaridisce, si svuota, si indurisce, resta senza cuore, diviene una norma repressiva che non agisce più al servizio della vita, ma al servizio della morte. Nello stabilire una nuova alleanza tra la vita del desiderio e la Legge Gesù non rinnega la Legge di Mosè ma la eredita pienamente, ovvero, come scrive Matteo, la conduce al suo pieno «compimento» (Mt 5,17). Gesù è un giudeo, la sua predicazione risulterebbe incomprensibile se non si considerassero le sue radici ebraiche e la sua profonda conoscenza della Torah. È il movimento che impegna ogni erede degno di questo nome. Lo ricorda Freud al termine della sua opera, citando Goethe: «Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero».

 L’eredità non è un’acquisizione passiva di rendite, ma un salto nel vuoto, un movimento in avanti, una ripresa, uno slancio verso l’avvenire. La Legge per essere ereditata nella sua sostanza deve essere riconquistata. È questa la cifra più propria del magistero di Gesù: nessuna cancellazione del debito simbolico, nessun rigetto della sua provenienza, nessun rifiuto della Legge. Non per nulla nella Legge di Mosè il comandamento neotestamentario più decisivo, quello dell’«amore per il prossimo», si trova già scritto (Lv 19,34). È, infatti, proprio a partire dalla centralità di questo principio che Gesù rilegge la Bibbia: ama il tuo prossimo, lo straniero, in quanto «anche voi foste stranieri in Egitto» (Es 23,9; Lv 19,34).

 Ma che cosa significa allora portare a compimento la Legge se la Legge mosaica era già in se stessa esaustiva della verità della Legge? La riconquista dell’eredità di questa Legge avviene in Gesù attraverso l’affermazione inaudita dell’eccedenza della Legge del desiderio. È la tesi centrale di questo libro: la Legge non può limitarsi a interdire il desiderio perché il vero volto della Legge coincide proprio con quello del desiderio. È questo a impegnare Gesù sino alla fine dei suoi giorni: testimoniare che la Legge non è avversa al desiderio, non è il suo antagonista spietato, non è il suo censore severo, perché la Legge è, in realtà, il nome più proprio del desiderio, è il nome più proprio della vita viva, della vita sovrabbondante di vita.

 Per questo il desiderio elevato alla dignità della Legge trova la sua massima espressione nella radicalizzazione operata da Gesù dell’amore per il prossimo che rompe ogni rappresentazione narcisistico-speculare dell’amore per divenire — al suo colmo più sconcertante — «amore per il nemico».

 Formulando la tesi che il magistero di Gesù introduce l’idea che il desiderio sia Legge, evoco, in realtà, un grande tema freudiano, ripreso con forza da Lacan, le cui radici affondano nel logos biblico, ovvero quello del rapporto costituente tra Legge e desiderio. Il compimento cristiano della Legge consiste nel liberare la vita dalla Legge non opponendo più la Legge alla vita, ma iscrivendo la Legge nel cuore stesso della vita. La Legge viene riscoperta come espressione di una vocazione che sa dare forma nuova alla vita convertendo, come direbbe Lacan, la forza della pulsione nell’ordine etico del desiderio. Mentre ogni religione della Legge è nemica del desiderio — religione viene da religio che significa richiudere, recintare la potenza (dynamis) affermativa del desiderio — la parola di Gesù libera il desiderio da ogni preoccupazione securitaria. In questo senso l’evento della resurrezione assume il valore della forza indistruttibile della Legge dell’amore e del perdono che riconsegna la vita alla vita sottraendola per sempre alla maledizione della morte.

 Ogni volta che questa nuova Legge interrompe l’esercizio fustigatore della Legge c’è, infatti, resurrezione: la morte non può essere l’ultima parola sul senso della vita così come la Legge del castigo e del sacrificio non può essere l’ultima parola sul senso della Legge.

 Questo testo è un estratto dal libro: Massimo Recalcati, “La legge del desiderio. Radici bibliche della psicoanalisi” (Einaudi, 2024).

 

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LA GRANDE ILLUSIONE

ALLA RICERCA 
DELLA PACE ... 
FACENDO GUERRA


- di Giuseppe Savagnone*


 Una lunga pausa di non-guerra

Davanti agli sconfortanti scenari di guerra che ormai quotidianamente scorrono davanti ai nostri occhi, viene alla mente il famoso film girato da Jean Renoir nel 1937, intitolato «La grande illusione». Allora il regista aveva ancora solo presente il dramma della Prima guerra mondiale. Avrebbe dovuto di lì a poco prendere atto quanto il mondo fosse ancora prigioniero dell’«illusione» che egli aveva denunziato.

 È sembrato, dopo il 1945, che finalmente la lezione delle due grandi tragedie con cui si è aperto il secolo scorso avesse dato qualche frutto. La guerra è continuata, fra i paesi del blocco comunista e quelli occidentali, ma è almeno diventata “fredda”. A questo ha certamente contribuito l’avvento di nuove armi – prima fra tutte quella atomica -, di cui entrambi gli Stati leader dei rispettivi schieramenti, Stati Uniti e Unione Sovietica, erano in possesso e che, con la loro spaventosa potenza distruttiva, facevano prevedere, in caso di conflitto, una catastrofe planetaria, senza vinti né vincitori.

 Da qui un lungo periodo di relativa pace, rotta solo, in Europa, da conflitti locali – come quelli determinati, alla fine Novecento, dalla dissoluzione della Repubblica jugoslava – e, fuori di essa, da guerre, come quelle tra Israele e gli Stati arabi, che non avevano coinvolto le grandi potenze in uno scontro frontale.

 Anche le due spedizioni militari condotte, tra la fine del secolo scorso e i primi del nostro, da coalizioni guidate dagli Stati Uniti contro l’Iraq di Saddam Hussein – la prima motivata dall’occupazione, da parte di quest’ultimo, del Kuwait, la seconda da una pretesa minaccia (rivelatasi poi inesistente) con armi di distruzione di massa – tutto sommato non avevano determinato un clima di tensione internazionale che potesse far percepire, anche lontanamente, il pericolo di una nuova guerra mondiale.

 Anche perché, con la caduta del muro di Berlino, nel 1989, il blocco comunista si era ormai sfaldato, lasciando il posto a una univoca egemonia americana. I nemici naturalmente non mancavano, ma andavano cercati nelle organizzazioni terroristiche islamiche e nelle loro proliferazioni, da Al-Qāʿida all’ISIS.

 L’aggressione di Putin all’Ucraina

Con la sciagurata «operazione speciale» avviata da Putin nei confronti dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022, questa lunga pausa di pace – o almeno di non-guerra – , che durava dal 1945, si è bruscamene interrotta.

 Ben lungi da risolversi in un conflitto locale, come forse immaginava il capo del Cremlino, l’invasione  russa – dopo l’annessione della Crimea, nel 2014 – è stata considerata dalle potenze occidentali e dai loro alleati alla stregua delle annessioni messe in atto da Hitler, alla viglia della Seconda guerra mondiale e come tale è stata fronteggiata con estrema decisione, per evitare le conseguenze disastrose che un debole pacifismo aveva prodotto allora, nella Conferenza di Monaco del 1938.

 Dietro impulso della NATO – un’alleanza militare sorta in funzione anti-russa alla fine della Seconda guerra mondiale e rivalutata in questa occasione – si sono messe in atto a sostegno dell’Ucraina (che pure non faceva parte dell’Alleanza atlantica) tutta una serie di misure economiche, politiche e militari contro la Russia, tanto da far parlare di una “guerra per procura”.

 Tutto questo ha spaccato il pianeta – i grandi paesi del Sud globale (Cina, India, Brasile, Sudafrica) non hanno aderito né al boicottaggio né al fronte polito-militare che lo sosteneva – ma non impedito alla Russia di continuare la sua guerra e, dopo un inizio disastroso, di avere dei discreti successi.

 Anche la recente invasione del territorio russo nella regione di Kursk – inizialmente salutata dai governi e dalle opinioni pubbliche occidentali come una svolta decisiva e un rovesciamento delle sorti della guerra – si rivela sempre di più una mossa efficace sul piano psicologico e propagandistico, ma di dubbia efficacia sulle sorti complessive del conflitto.

 Per non dire che, stando a molte analisi militari, il “colpo di scena” voluto da Zelens’kyj (che, non dimentichiamolo è un uomo di teatro e ne ha dato prova in molte occasioni), può costare caro in termini strategici a un esercito già alle prese con una grave carenza di uomini.

 La pace impossibile

Ciò rende problematica, per non dire praticamente impossibile, ogni prospettiva di exit dal conflitto. Infatti, per il premier ucraino – appoggiato in questo senza riserve dal presidente Biden e dalla maggioranza dei leader occidentali – ciò che conta è piegare la Russia sul campo di battaglia. Il problema della pace si porrà solo dopo la vittoria. L’accordo a cui Putin dovrà essere costretto non prevede un vero e proprio negoziato, se non per sancire la totale rinunzia alle conquiste russe, perfino a quella, già realizzata nel 2014, della Crimea.

 È significativo che al grande vertice di pace indetto dalla Svizzera a Lucerna il 16 e il 17 giugno scorso, su iniziativa di Zelens’kyj, la Russia non sia stata nemmeno invitata, trasformando in realtà il convegno in una raccolta di adesioni alla rivendicazione ucraina della propria integrale identità territoriale.

 In questa prospettiva si pone anche il recente attacco nella regione di Kursk. «L’Ucraina – scrive su X (ex Twitter) Mychajlo Podoljak, consigliere presidenziale ucraino – «non è interessata a occupare i territori russi (…). Ma se parliamo di potenziali negoziati – sottolineo potenziali – dovremo mettere la Federazione Russa al tavolo delle trattative. Alle nostre condizioni (…). Abbiamo mezzi efficaci e collaudati per costringerli. Oltre a quelli economici e diplomatici, c’è anche lo strumento militare. Dobbiamo infliggere alla Russia sconfitte tattiche significative. Nella regione di Kursk, possiamo vedere chiaramente come lo strumento militare venga oggettivamente usato per convincere la Federazione Russa a entrare in un processo negoziale equo».

 Peraltro, Zelens’kyj non si stanca di ripetere agli alleati che la posta in gioco non è solo la libertà dell’Ucraina, ma quella dell’Occidente e del mondo intero.

 E così del resto, la guerra è stata impostata fin dall’inizio dalla NATO, finalizzandola a dimostrare, come ha detto Biden in un discorso del 2022, «quanto la guerra di Putin abbia fatto della Russia un paria» e «isolarla dal palcoscenico internazionale». E così si è fatto (si pensi all’esclusione degli atleti russi dalla Olimpiadi e dalle Paralimpiadi, che avrebbero dovuto essere il luogo del superamento dei contrasti).

 In questa logica, nessun dialogo è possibile, non solo per la volontà di Putin di perseguire fino in fondo il suo cinico progetto imperialistico, ma anche per la simmetrica indisponibilità occidentale a un dialogo che contrasterebbe con questa linea.

 Col rischio sempre più reale, però, di trasformare questa, che è già una terza guerra mondiale per procura, in un conflitto diretto tra l’Occidente e la Russia. Purtroppo non è un pericolo remoto. Al punto in cui siamo, nessuno dei due contendenti può permettersi di perdere. La speranza che ci rimane è quella che la guerra duri senza fine, con i suoi spaventosi costi di vite umane e di distruzioni materiali.

 Un’altra guerra infinita

C’è un’analogia tra il conflitto in Ucraina e ciò che sta accedendo nel Medio Oriente. Qui non c’è una terza guerra mondiale, nemmeno indiretta. Però anche in questo caso l’Occidente, con i suoi alleati della NATO, è fin dall’inizio schierato a fianco di Israele e gli offre il suo pieno appoggio militare, economico e politico.

 Un appoggio non certo contraddetto dagli inviti alla moderazione e dalle pressioni per una tregua, rivolti a Tel Aviv dai governi occidentali, che appaiono scandalosamente inadeguati davanti alla sistematica violazione, da parte dell’esercito israeliano, di tutti i princìpi del diritto internazionale e dei diritti umani più elementari. Quando, da parte degli Stati Uniti, basterebbe – per rendere credibili queste riserve – la sospensione delle imponenti forniture di armi che continuano ad essere garantite anche mentre il segretario di Stato Blinken pressa per una tregua umanitaria.

 E anche in questo caso l’ “aggredito” – che qui è Netanyahu – non vuole sentir parlare di pace se prima non ha ottenuto una vittoria totale, che in questo caso non e solo la disfatta dell’avversario, ma la sua totale distruzione. «Porremo fine alla guerra solo dopo aver raggiunto tutti gli obiettivi, compresa l’eliminazione di Hamas e il rilascio di tutti i nostri ostaggi», ha dichiarato, ancora lo scorso luglio, il premier israeliano.  

 E anche lui ricorda ai suoi alleati e sostenitori che la posta in gioco del conflitto che Israele sta combattendo ha un valore universale: «Quello che sta accadendo – ha detto Netanyahu parlando al Congresso americano, da cui è stato entusiasticamente applaudito, come già era accaduto poco tempo prima con Zelens’kyj – «non è uno scontro di civiltà, ma tra barbarie e civiltà, tra coloro che glorificano la morte e coloro che glorificano la vita».

 Il Bene contro il Male. In questa logica manichea, ogni concessione sarebbe un tradimento. Certo, Biden sembra colpito dalla constatazione che il Male, a differenza di quanto accade nella guerra tra Russia e Ucraina, purtroppo assume il volto di donne e bambini palestinesi massacrati a migliaia dai difensori del Bene. Ma gli scrupoli del presidente americano non lo hanno portato, in dieci messi, al punto di dissociarsi dal suo alleato israeliano.

 Anche qui, però, sembra proprio che l’appoggio dovrà essere prolungato ancora per molto, forse all’infinito. La guerra a Gaza non è andata bene a Israele, che, in questi dieci mesi, non è riuscito a raggiungere nessuno dei due obiettivi che si era proposto e questo lo spinge a cercare altri teatri dove esercitare la sua assoluta superiorità militare. In questa logica si spiega l’ultimo attacco alla Cisgiordania, il cui gruppo dirigente è costituito dall’OLP, che non ha nulla a che vedere con Hamas e con la strage del 7 ottobre, e che anzi  avrebbe dovuto essere fin dall’inizio il partner su cui puntare per isolare i terroristi della Striscia.

 Solo che moltiplicare la propria aggressività non solo non giova all’immagine internazionale, già ampiamente compromessa davanti all’opinione pubblica mondiale, ma suscita sempre nuovi nemici. Più diventa chiaro che il bersaglio da colpire e distruggere non è Hamas, ma i palestinesi, più Israele si troverà odiato e isolato dalla gente dei territori in cui deve pur continuare a vivere. E le bombe americane da novecento chili per questo non serviranno.

 La grande illusione, in entrambe queste vicende, è credere che puntando sulla forza muscolare delle armi – con i soldi degli alleati (che siamo  sempre noi occidentali) – si risolveranno i problemi. I fatti dicono il contrario. Forse sarebbe il momento che anche i nostri governi ne prendessero atto e che, invece di continuare a giurare incrollabile sostegno a Kiev e a Tel Aviv, cominciassero finalmente a chiedersi cosa fare concretamente per arrivare alla pace senza aspettare la fantomatica vittoria totale.

 *Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura – Arcidiocesi di Palermo

www.tuttavia.eu

 

venerdì 30 agosto 2024

LA GRATITUDINE, DONO SOCIALE

 


«Le persone grate determinano una atmosfera, creano attorno a sé un senso di fiducia e di benessere che coinvolge gli altri»

  Parla suor Alessandra Smerilli, docente di economia e segretario del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale «È una delle parole chiave che guidano un’economia basata sulla condivisione, la solidarietà e il rispetto per l’ambiente»

 

-         di CRISTINA  UGUCCIONI

 

La fecondità della dimensione sociale della gratitudine è al centro della riflessione che in questa conversazione offre suor Alessandra Smerilli, salesiana, docente di Economia politica alla Pontificia Facoltà di scienze dell’educazione Auxilium e segretario del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale.

La gratitudine ha dimensione sociale e fecondità sociale: come le descriverebbe?

Credo ci siano molte implicazioni pubbliche della gratitudine. Sottolineo un aspetto che è ogni giorno alla portata di tutti. Anzitutto le persone grate determinano una atmosfera, creano attorno a sé un senso di fiducia e di benessere grazie al quale è più facile che anche altri passino dal lamento e dalla sfiducia a un atteggiamento costruttivo. Questo perché le persone grate fanno sentire importante chi hanno di fronte, sono portate a sintonizzarsi sul meglio che è negli altri e a chiamarlo in gioco. La loro capacità di concentrarsi sulla crescita e la loro natura altruistica creano spazio per far fiorire gli altri. Sono persone umili perché la gratitudine le porta a riconoscere il debito che le lega ai doni altrui. Ma “umile” rimanda all’humus, alla fertilità della terra che ogni ambiente umano può diventare. Chiaramente, “fertile” può farci pensare anche alle conseguenze economiche e sociali di una convivenza segnata da queste attenzioni, dal saper dire grazie. In effetti, se una comunità ha forte consapevolezza di ciò che uno deve all’altro e di come le sfide si vincono insieme, la sua crescita è più dinamica e felice rispetto alla situazione in cui si combatte tutti contro tutti.

 In che modo la gratitudine può dare forma all’economia?

Già Adam Smith, padre fondatore della Scienza Economica, nel suo libro “ La teoria dei sentimenti morali” sostiene che la gratitudine giochi un ruolo vitale nel rendere il mondo un posto migliore. Benedetto XVI ha dedicato la Caritas in Veritate a mostrare come la gratuità, la logica del dono, non sia un di più, ma un aspetto fondante la dinamica economica. È un aspetto che le teorie economiche classiche hanno ampiamente sottovalutato e che la Chiesa ha contributo e sta contribuendo a portare in evidenza: protagonisti dell’economia sono gli esseri umani che, nonostante il peccato, non sono per natura irrimediabilmente egoisti e votati all’interesse proprio. I loro scambi, i loro progetti, le soluzioni che costruiscono per far fronte alla vita di ogni giorno, hanno in sé una continua vocazione al bene dell’incontro e della cooperazione. In questo ambito, la parola gratitudine può assumere la sfumatura della restituzione: a un territorio, alle generazioni successive, a coloro cui si deve la propria crescita. Gratitudine e restituzione implicano anche il superamento di quelle disuguaglianze che si devono alla storia e allo sfruttamento degli uni sugli altri. Noi dobbiamo ai poveri giustizia: questo è un aspetto drammaticamente attuale e poco riconosciuto della gratitudine. L’economia civile e altre ricerche di nuovi modelli di sviluppo vorrebbero manifestare più chiaramente come uno sguardo grato alla vita debba generare un’economia del dono, mostrando che si tratta di un’economia non di decrescita, ma di una crescita a più alta intensità: più inclusiva, più ecologica, più integrale.

Una delle parole chiave di The Economy of Francesco (EoF) è proprio gratitudine: questo processo/movimento, nato cinque anni fa, sta cominciando ad avere rilevanza sul piano internazionale?

Sì, ma è ancora un movimento in fase di sviluppo e di crescita. La gratitudine è una delle parole chiave che guida i giovani coinvolti, i quali promuovono un’economia basata sulla condivisione, la solidarietà e il rispetto dell’ambiente. Molti giovani imprenditori, economisti e attivisti stanno aderendo a questo movimento e contribuendo a diffondere i suoi principi e valori in tutto il mondo. Tuttavia, c’è ancora molto lavoro da fare per trasformare realmente il sistema economico attuale e portare avanti un’economia più equa e sostenibile. La gratitudine è uno dei punti di forza dell’EoF che i giovani possono capitalizzare per raggiungere questo obiettivo.

A chi desidera rivolgere parole di ringraziamento?

 Il primo pensiero va a coloro che mi hanno donato la vita e trasmesso una fede radicata nella semplicità della terra e della vita quotidiana. Si tratta dei miei genitori e di quelle persone a cui sono legate la mia infanzia e la mia adolescenza in Abruzzo. Desidero ringraziare anche chi, in oratorio, ha allargato la mia esperienza di fiducia e di casa, nell’amorevolezza del metodo educativo salesiano. Sono poi grata a coloro che mi hanno chiesto dei passi, a volte delle vere e proprie obbedienze, che hanno plasmato il cammino della mia vita adulta. La vita religiosa, in questo, credo sia per tutti una provocazione, l’invito a pensare che l’adulto non è chi si fa da sé, ma chi accoglie creativamente e attivamente anche le circostanze che non avrebbe pensato adatte a sé: da sola non avrei scelto di studiare Economia, ma poi mi sono accorta di quanto preziosa è stata l’intuizione delle mie formatrici. E da sola non avrei pensato alla Curia Romana come a un luogo di cura e di incontro.

www.avvenire.it

 

IN DIALOGO PER UN SENSO

VOCATI 

alla

 GENERATIVITA'




 -         di LEONARDO BECCHETTI

 L’estate è un tempo prezioso di pausa dalla routine lavorativa e contemplazione della natura che ci porta a riflettere su ciò che è essenziale nella nostra vita («Se non siamo alla ricerca dell’essenziale allora cosa cerchiamo?», il bel titolo del Meeting di Rimini). Da un altro bellissimo evento “in cammino”, quello della Route degli scout adulti italiani, arriva un messaggio sintetico ma fondamentale per la nostra comunità, spesso afflitta in tanti, troppi suoi membri da povertà di senso e depressione, oltre che difficoltà economiche. La felicità esiste ma si conquista... con i piedi. Ovvero senza mettersi in cammino è impossibile da raggiungere. Sono tutti messaggi coerenti con quanto la frontiera delle scienze sociali e l’economia civile oggi raccontano e hanno imparato dell’essere umano. Siamo cercatori di senso del vivere, bisognosi di riconoscimento e affamati di relazioni. Nasciamo da un dono genitoriale che ci spinge a ricambiare verso altri e siamo dunque vocati alla generatività. I dati sugli individui in tutto il mondo confermano che queste tre variabili (senso del vivere, qualità della vita di relazioni, generatività) sono i tre capisaldi di una vita felice, soddisfacente e ricca di senso.

Ma il ritorno alle nostre occupazioni farà scontrare molti di noi con la dura realtà del fatto che gli ingranaggi sociali (vere e proprie “strutture di peccato” o semplicemente percorsi che l’ingegno delle generazioni passate non è riuscito a costruire migliori) ci allontanano da questa meta e rendono spesso i nostri cammini di vita vie povere di senso. La domanda “generativa” fondamentale alla ripresa delle attività diventa dunque questa: come orientare la rotta nella direzione giusta superando gli ostacoli che abbiamo davanti?

E come indicare vie di soluzione personale e politica per i membri delle nostre comunità sulle grandi sfide che ci aspettano (pace, transizione ecologica, intelligenza artificiale e lavoro, demografia)? Ripartiamo in Italia forti di un metodo e di alcuni capisaldi già collaudati. Abbiamo un ricco e ammirevole percorso di riflessione scandito dai festival, reti virtuose di società civile al lavoro, know how che nasce dalle esperienze sul campo di buone pratiche che si è incontrato e consolidato in una visione/spartito e in un paradigma “relazional/personalista” che colma un vuoto nella cultura contemporanea. L’obiettivo è quello di dialogare in modo sempre più fecondo su questi temi con la classe politica e con pezzi del Paese disperati, isolati e alla deriva. Per farlo, non possiamo che partire laddove troviamo le persone, ovvero da risposte ai problemi di oggi in grado di incarnare quella visione: dalla lotta alla povertà e alle diseguaglianze, dalle politiche socialmente sostenibili sulla transizione ecologica, alle strategie di de-escalation per i conflitti, alla distribuzione equa dei benefici dell’innovazione dell’intelligenza artificiale, alle risposte in sanità di fronte a una domanda che, in una popolazione che invecchia e con anni non in buona salute che aumentano, rischia di diventare progressivamente infinita.

 Il dibattito di questi giorni sullo ius scholae è un esempio di come questo possa avvenire fuori da risse ideologiche portando avanti il progresso civile nel Paese. La demografia manda in crisi la vitalità del mercato del lavoro, la tenuta dei sistemi previdenziali e pensionistici. Ma in soccorso possono e devono arrivare più giovani stranieri con meccanismi di selezione che premino coloro che con la loro vita testimoniano volontà d’investimento ed integrazione ed aspirazione a migliorare le loro opportunità nel nostro Paese. Le due parole chiave che possono tenerci sul sentiero giusto sono partecipazione e generatività. La prima non è solo condizione necessaria personale per una vita ricca, ma anche condizione necessaria sociale per una democrazia in salute. La seconda è quella che nelle edizioni passate del Festival Nazionale dell’Economia Civile, in collaborazione con “Avvenire”, abbiamo trasformato in indicatore di benessere in grado di offrire mappe di misurazione della capacità delle province italiane di creare condizioni per la fioritura di vita delle persone.

 Quante vie nuove di generatività riusciremo a creare e quante delle esistenti ad allargare? Perché è velleitario descrivere mondi ideali senza indicare in che modo concretamente dai labirinti in cui ci troviamo è possibile muovere verso di esse. L’itinerario dei grandi eventi festival prosegue e serve proprio per attivare risposte di comunità e reti mettendo in moto processi creano condizioni favorevoli per l’emersione di soluzioni non già precostituite durante il cammino. Anche la verità e il progresso civile (come la felicità) si conquistano con i piedi.

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PATRIA, NAZIONE, IDENTITA'



- di Antonio Longo

Viviamo tempi di cambiamento epocale, per dirla con Papa Francesco, che mettono in discussione concetti consolidati di appartenenza. Parole “forti” come identità e patria si confrontano con fatti che mettono in discussione antiche certezze.

Di fronte alla pandemia molti si sono sentiti contemporaneamente “genere umano” oltre che italiani, europei, americani o cinesi, Dipende da come è vissuta e affrontata la minaccia esterna. Se la risposta è “siamo tutti nella stessa barca” e vogliamo dare una risposta collettiva (ad esempio, con uno sforzo comune per finanziare la ricerca per il vaccino, come propose Ursula Von der Leyen) allora emerge l’idea che l’identità nazionale non è più esclusiva, ma che accanto ad essa ci può essere anche una “identità europea”, l’unità nella diversità.

Se invece la risposta è “prima i nostri”, come sta succedendo in America, allora si mettono in moto meccanismi politici e psicologici che tendono a delimitare in modo netto ed esclusivo le diverse identità nazionali, etniche e culturali.

È la risposta politica ai problemi che poi determina, nel lungo termine, i sentimenti di appartenenza di ciascuno. Se noi ci definiamo italiani, francesi o tedeschi è perché, dopo alterne vicende storiche, sono stati costruiti gli stati dell’Italia, della Francia o della Germania, prima dei quali ci definivamo semplicemente lombardi o siciliani, provenzali o alsaziani, bavaresi o prussiani. Aggiungendo poi che ci si identificava nella comune religione cristiana.

 La “nazione” è un’idea storica che nasce con l’affermazione di una forma stato specifica: lo stato-nazionale. Come tutte le affermazioni storiche ha un suo corso: all’inizio è progressivo perché consente di superare la frammentazione sociale ed economica delle precedenti formazioni feudali e di far nascere un’identità comune superiore tra gli individui. In seguito, quando si consolida e diventa “esclusiva” delle altre identità nazionali (o delle altre patrie) allora diventa un’idea regressiva: non è un caso se in nome della nazione si sono compiuti in Europa i più orrendi massacri della storia.

Abbiamo la fortuna di vivere il tempo in cui i concetti d’identità (e di patria) si vanno trasformando. L’integrazione sociale ed economica tra gli individui è sempre più in estensione, al di la degli stati-nazione. In Europa questa esperienza ha già creato una società europea de facto, con regole e istituzioni comuni in campo economico e politico.

 Tutto ciò modifica i concetti di identità, di patria e scopriamo di possedere tante identità diverse. Se siamo in Lombardia, magari ci dividiamo tra varesini, bergamaschi o bresciani; se siamo in Italia, ci dividiamo tra lombardi e campani o tra veneti e calabresi. Se siamo in Europa, tra italiani, tedeschi, spagnoli o polacchi. Ma se siamo in America scopriamo di sentirci Europei, quando siamo in Cina ci scopriamo occidentali. E infine, di fronte a problemi planetari quali la crisi ambientale o le pandemie ci scopriamo semplicemente ‘umani’.

Tante identità, tutte diverse, ma tutte valide. Se non le mettiamo in contrapposizione arricchiscono la nostra esperienza umana, anziché ridurla. E ci consentono di affrontare i problemi del Mondo – quelli che ormai decidono della nostra esistenza su questo pianeta – con una prospettiva diversa, quella della ricerca dell’unità, nella molteplicità delle nostre differenze. Dunque, ciascuno di noi possiede tante identità culturali, quante sono le esperienze di vita che percorre.

 Tutto ciò non può non riflettersi sul concetto di “patria”. I giovani della Rosa Bianca scrissero nei loro diari che la “patria è l’odore delle mele quando stai disteso nei campi”. Una patria che corrisponde alla terra del borgo natio, una piccola patria, ma che non impediva a loro, che auspicavano la sconfitta della “patria Germania” perché si era macchiata di cose orribili, di pensare ad una patria più grande, di immaginare che in Europa ci voleva “ein Staat der Staaten”, uno stato di stati, così chiamarono la federazione europea.

Un tempo erano le guerre a creare gli Stati e le Patrie. Il processo di unificazione europea sta creando, con la pace e la democrazia, il senso di appartenenza a una comunità di popoli, diversi, ma che possono essere uniti attraverso ciò che il filosofo e sociologo tedesco Juergen Habermas chiama il “patriottismo costituzionale”. 

È una costituzione materiale comune che crea, nel tempo, l’idea di una patria sovrannazionale.

 

Pubblicato da Il Lettore di VareseNews


ANNO NUOVO VITA NUOVA

 



Valore della patria, identità nazionale
rispetto per l’autorità degli insegnanti. 

Con l’inizio del nuovo anno scolastico, la ‘scuola dei talenti’ di Valditara prende forma. Diverse le novità, a partire dal potenziamento dell’educazione civica e dall’avvio della politica di integrazione degli studenti stranieri neoarrivati nel nostro Paese messa in campo dal ministro dell’Istruzione e del Merito. 

I primi a tornare in classe, il 5 settembre saranno gli studenti della Provincia autonoma di Bolzano e delle scuole dell’infanzia della Lombardia. Il 9 sarà il turno degli alunni della Provincia autonoma di Trento, l’11 di Friuli Venezia Giulia, Marche, Piemonte, Umbria, Valle d’Aosta e Veneto, il 12 Campania, Lombardia, Sicilia, Molise e Sardegna. Il 16 settembre la campanella suonerà, infine, per gli studenti di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Puglia e Toscana.

 Calendario scolastico 2024/25: vacanze lunghe per Natale e super ponte per Pasqua e Primo maggio

 Integrazione degli alunni stranieri

"In un’epoca di forti migrazioni, solo una forte identità sui valori fondanti potrà consentire di accogliere, di integrare, senza creare società lacerate, disarticolate in una pluralità di ghetti dove ognuno rifiuta l’altro" e "il primo passo per l’integrazione – afferma Valditara – è indubbiamente l’apprendimento linguistico". 

A decorrere dall’anno 2024/2025, nelle scuole che registrano tassi di presenza di alunni stranieri, è previsto, ove necessario, l’avvio di attività di potenziamento didattico della lingua italiana in orario extracurricolare. 

Dal 2025/2026 nelle classi con almeno il 20% di studenti stranieri che si iscrivono per la prima volta al Sistema nazionale di istruzione e che non sono in possesso delle competenze linguistiche di base in lingua italiana, può essere disposta l’assegnazione di un docente dedicato all’insegnamento dell’italiano per stranieri.

 Una nuova concezione dell’educazione civica

Entreranno in vigore le Nuove Linee Guida per l’insegnamento dell’Educazione civica ispirate al concetto di ‘scuola costituzionale’. Al centro la "formazione alla coscienza di una comune identità italiana", lo sviluppo di una "cultura dei doveri", ma anche promozione della cultura d’impresa, educazione al contrasto di tutte le mafie e di tutte le forme di criminalità e illegalità, educazione al rispetto per tutti i beni pubblici, promozione della salute e di corretti stili di vita, educazione stradale, cultura del rispetto verso la donna, promozione dell’educazione finanziaria e assicurativa e all’uso etico del digitale.

Stop agli smartphone in classe

Confermato il divieto di utilizzo, anche a fini didattici, dello smartphone dalla scuola dell’infanzia fino alla secondaria di primo grado, salvo i casi in cui l’uso sia previsto dal Piano educativo individualizzato o dal Piano didattico personalizzato. Pc e tablet potranno essere utilizzati per fini didattici, sotto la guida dei docenti.

 

Quotidiano net


giovedì 29 agosto 2024

GENITORI ZOMBI


 Paolo Crepet e i genitori zombie: «Credono che la responsabilità sia dare tutto ai figli: è questo il loro mantra. Continuano a dare, dare, dare e quindi tolgono, tolgono tolgono»

-         Lo psichiatra e opinionista porta avanti una battaglia culturale contro l'indifferenza e la perdita delle emozioni attraverso una conferenza-spettacolo ispirata al suo nuovo libro. Ci ha spiegato il suo punto di vista sul ruolo dei genitori, sugli sbagli dei nonni e sulla forza dell'empatia: «ciò che può salvarci dalla barbarie-         

Da tempo lo psichiatra, sociologo, educatore, saggista e opinionista italiano denuncia proprio gli effetti collaterali che questa anestesia emotiva unita a certe «disfunzioni» sociali stanno producendo su giovani e adulti. Lo fa portando avanti anche una battaglia culturale contro l’indifferenza e la perdita di responsabilità che sempre più genitori stanno mostrando. Genitori che lo stesso Crepet, in passato ha definito simili a «zombie», incapaci di fermezza, di prese di posizione decise e soprattutto di responsabilizzare i figli, educandoli alla vita.

-                            Che cosa significa essere un «genitore zombie»? «Significa tante cose. Intanto una sorta di disorientamento che la gente sente e che non è necessariamente legato a un orientamento o a un “riorientamento”. Ho l'impressione che molti abbiano capito che essere disorientati è anche molto confortante. Significa essere in una sorta di comfort zone in cui non hai responsabilità. Puoi alzare la manina e re: “Io sono disorientato, quindi non aspettatevi risposte da me”. E così ognuno fa quello che vuole, sostanzialmente continua la sua passeggiatina esistenziale che non porta da nessuna parte, se non al parco a sedersi su una panchina e accendere il telefonino. Mi pare che sia pieno di queste persone: madri, padri, parenti vari che fanno di tutto - spero incoscientemente - per rovinare i propri figli».

-          -         E il senso di responsabilità che fine ha fatto? «Queste persone ritengono che la responsabilità sia dare tutto ai loro figli: è un po' questo il loro mantra e quindi, poveretti, continuano a dare, dare, dare e invece tolgono, tolgono tolgono. Questo è l'aspetto forse più inquietante».

-          -         Lei sottolinea l'importanza di imparare sin da piccoli a fare i conti con «la vita vera». Dove sbagliano i genitori di oggi? «Posso citare il titolo dell’ultima opera che ho scritto: Mordere il cielo. Ecco, i genitori non lo vogliono più fare. Perché è faticoso e comprende anche un po’ di rischio».

-          -         Il problema maggiore non sono tanto i ragazzi quanto i genitori, quindi? «Beh, anche i nonni».

-          -         In che senso? «Un contributo negativo lo hanno dato anche loro. Perché i nonni, quando sono stati ragazzi, hanno fatto la vita che più o meno descrivo io, cioè quella in cui monti su una motocicletta e te ne vai via. Per gioco o per costrizione, per miseria o per virtù, sono stati comunque una generazione che ha accettato l'idea dell’ignoto, del costruire, del cantiere che tira su un edificio che si chiama vita. Poi, però, hanno smesso di farlo. Come se a un certo punto arrivasse un'età in cui c’è una sorta di gong a dire "fermi tutti, state pure tranquilli", come fosse il ciak finale di un film. Questo è stato delittuoso da parte nostra, sicuramente, perché poi si è trasmesso a una generazione, quella più o meno genitoriale, che ha fatto una sorta di rinuncia al pensiero: il pensiero è diventato un optional, un gadget di cui possiamo fare a meno. Oggi è più importante avere un autista sotto casa che pensare. Il che è terribile, ed è anche un atto di enorme presunzione».

-          -         Nel suo nuovo libro, Mordere il Cielo lei pone l’accento anche sul fatto che ci stiamo avviando verso una neutralizzazione emotiva sempre più forte. Che cosa sta spegnendo le emozioni? «La ripetitività delle cose. Se si vuole spegnere il senso di una cosa, proprio come se si avesse in mano un telecomando, basta ripeterla all’infinito. Esempio: se si prende il tentato assassinio di Trump e lo si vede non più tante volte, come accadeva un tempo con la televisione, ma 100, 1000, 10.000 volte attraverso i social, si toglierà definitivamente l’emozione da quella pallottola».

-         -          Lei ha parlato di «anestesia dell'anima», in riferimento alle relazioni, all'incontro con l'altro. Davvero è così? «Sì, è così. I bambini non si abbracciano più, quasi non giocano neanche più. Abbiamo proprio buttato il Napalm sulle emozioni».

-             Nel suo nuovo libro ha parlato anche dell'empatia: manca è dovremmo riacquisirla «per evitare la barbarie». Ma l'empatia si può imparare o è innata? «No, non è innata e sì, si può imparare. Per esempio, crescendo in un ambiente si gioca, si litiga con gli amici, si incontrano nuovi bambini simpatici. Si tratta di una grande ginnastica mentale e porta alla nascita di un tessuto neuronale che spinge alla ricerca dell’altro, alla curiosità per l’altro. L’empatia è questo».

-              Si può imparare anche da adulti? «Magari con dosi di difficoltà maggiori, se non la si conosce. La differenza è che a 30 anni è un impegno cosciente, a 5 anni no: giochi e basta, viene da sé. Diciamo che fare i castelli di sabbia sul bagnasciuga è empatia, perché poi magari arriva qualcuno che te lo distrugge, un altro ti dice che è bellissimo o uno che lo fa più bello del tuo».

-         Come dovrebbero intervenire i genitori per crescere nuovi adulti empatici e quindi con un atteggiamento diverso nei confronti della vita? «C'è un compito ben preciso che gli adulti hanno, per la verità, una grossa responsabilità. Perché, per esempio, non c'è più un tempo dell'ozio sociale? Perché consideriamo moderno e contemporaneo e futuribile addirittura una sorta di solipsismo digitale? Che cosa ha di così interessante? È un ergastolo! Se un padre si prendesse invece del tempo per raccontare al proprio figlio adolescente di quando da giovane prendeva un treno con tre amici e arrivava in Danimarca, di cosa succedeva, del freddo che faceva, di cosa mangiava e dove dormiva, degli incontri che faceva, del concerto che ha visto, insomma: della vita che ha vissuto durante quel viaggio, questo farà innamorare dell'idea del viaggio e allora, il minimo che possa succedere è che quel figlio o quella figlia possano aprirsi alla vita e dire, a un certo punto: “Vado con i miei amici in Finlandia!”»

         Dottor Crepet, qual è l'emozione che le manca più di tutte le altre in questo momento storico? «La sorpresa».

 

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