La creazione, a ben guardare, non è affatto l’opposto della ripetizione, ma una sua piega interna, una sua torsione singolare.
- di Massimo
Recalcati
Per
un verso l’atto creativo somiglia a un taglio traumatico che separa l’artista
dal mondo come già visto e già conosciuto. Si tratta di dare luogo a un altro
mondo – il mondo dell’opera – rispetto a quello in cui siamo immersi.
In
questo senso esiste una frattura netta tra creazione artistica e ripetizione.
La prima si realizza solo nell’interruzione della seconda. È la stretta
parentela dell’opera d’arte con la dimensione dell’evento. L’evento dell’opera
si dà come sospensione dell’ordine consolidato del mondo e come apertura verso
un altro mondo possibile. Per questo è indispensabile un tempo di oblio,
un’immersione, uno sprofondamento, un turbamento che conduce verso il reale
«più reale», come direbbe Tàpies. È necessario, cioè, allontanarsi, sbandare,
smarrirsi, uscire fuori dalla scena appaesante (già vista e già conosciuta) del
mondo. Ogni atto di creazione avviene sullo sfondo di un’assenza, genera un
vuoto al fine di aprire uno spazio nuovo. Per un altro verso, però, la pura
contingenza del gesto creativo implica intimamente la dimensione necessaria
della ripetizione.
Siamo
qui su di un bordo che da una parte confina con la libertà della creazione e,
dunque, con un tempo in aperta discontinuità con la ripetizione e, dall’altra,
con una profonda necessità, con la dimensione dell’inesorabile del reale, con
la presenza incalzante della ripetizione. Attraverso il particolare itinerario
artistico di Antoni Tàpies, ho voluto frequentare questo confine mostrando come
il gesto creativo, pur avendo la natura traumatica di un taglio che disfa
l’ordine necessario della ripetizione, non può mai prescindere da essa. Se,
dunque, da un lato, dobbiamo concepire il gesto dell’artista come una creazione
ex nihilo – dal nulla –, un atto eretico che perfora la superficie consistente
del già conosciuto e del già visto, dall’altro però la contingenza di questo
atto non può non portare con sé la memoria della sua provenienza, non può che
inscriversi nel solco di una ripetizione necessaria.
La
creazione, infatti, a ben guardare, non è affatto l’opposto della ripetizione,
ma una sua piega interna, una sua torsione singolare. Ogni artista si trova,
nello stesso tempo, libero e vincolato, aperto e costretto, esposto alla
contingenza creatrice del suo atto creativo e condannato all’inesorabilità
necessaria della ripetizione. È questo il paradigma- Tàpies che cerco qui di
costruire. È la stessa dialettica che la psicoanalisi ritrova al centro del
processo di soggettivazione che essa mobilita in ogni cura: il soggetto è
tenuto a trovare il proprio stile attraverso la ripresa continua della sua
provenienza grazie all’incontro contingente con l’analista. Il tempo della
ripetizione si annoda così originalmente a quello della differenza: un’analisi
è lo sforzo del soggetto per costituirsi come tale attraverso un’invenzione che
non può però che avvenire sullo sfondo della ripetizione che lo ha costituito.
È quanto si trova anche in tutti i grandi artisti: ogni atto creativo separa
l’opera da tutto ciò che è già accaduto, dal passato sedimentato della storia
dell’arte, ma lo può fare solo immergendosi pienamente nella ripetizione di
quella storia.
È
da questa prospettiva che bisognerebbe ripensare il rapporto tra la biografia e
l’opera sul quale molta psicoanalisi applicata all’arte si è esercitata. Se
l’opera non scaturisce deterministicamente dalla biografia – come, appunto, una
cattiva psicoanalisi ha invece creduto cedendo alle illusioni di una lettura
solo patografica dell’opera d’arte –, la biografia è sempre immersa nell’opera,
al punto che è l’opera stessa che finisce per rivelare la verità più radicale
della biografia. Non è l’opera, dunque, a essere determinata univocamente dalla
biografia, ma si fa essa stessa strutturalmente biografica. È uno dei grandi
temi sollevati dal paradigma-Tàpies: non c’è la biografia da una parte e
l’opera dall’altra; non c’è la biografia che spiega l’opera, né l’opera come
prodotto della biografia.
Piuttosto, l’opera illumina retroattivamente la
biografia in modo inatteso.
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