- - di Alessandro D’Avenia
«Ho finito di leggere Ciò
che inferno non è, ma nella mia vita ultimamente ho difficoltà a vedere,
nell’inferno, ciò che inferno non è e questo è pericoloso per me, che sono
mamma di tre figli. Non ho vissuto una vita ovattata, il contesto in cui sono
cresciuta è equivalente al degrado del quartiere descritto nel libro, ma il
sorriso e la speranza, che non mi sono mai mancati, ora invece, nelle brutture
odierne, vacillano, facendomi pensare che forse non è stata la migliore delle
idee mettere a questo mondo marcio i miei ancora ignari figli. Come ritrovare
il coraggio e la “leggerezza attenta” di cercare il bello anche dove non sembra
esserci?».
Questo messaggio ricevuto
di recente mi ha costretto a chiedermi se esiste un metodo per trovare gioia
dove non sembra che ci sia, se ci sia ancora la possibilità di scorgere un
cigno in mezzo alla polvere e all’immondizia della città, come racconta Charles
Baudelaire in una delle sue poesie più belle. Siamo sicuri che questo mondo sia
così marcio o più marcio di quello di prima? E se invece di aspettare
l’apparizione del cigno fossimo noi a poterlo far apparire? Esiste un metodo
per sperare anche nella disperazione amplificata da una comunicazione che,
drogata dai click, predilige la sovraesposizione del marcio e crea un effetto
depressivo? Provo a rispondere con due storie vere in cui mi sono imbattuto di
recente.
La prima è quella di
Cicely Saunders, una ragazza londinese avviata agli studi di economia a Oxford,
che, durante la Seconda Guerra mondiale, incapace di stare a guardare, si
arruola come infermiera per curare i feriti che giungono dal fronte. Trova l’inferno:
centinaia di coetanei che muoiono tra atroci sofferenze. Invece di scoraggiarsi
di fronte all’impossibilità di salvarli, comincia a studiare la situazione e
scopre che per lenire la sofferenza dei moribondi non bastano le cure fisiche,
bisogna curare la loro disperazione. Farà di questo la ragione della sua
esistenza: trovata la sua vera vocazione, comincerà a studiare medicina a 33
anni e aprirà nel 1967 il primo Hospice moderno, dove non si va a morire ma a
vivere bene sino all’ultimo istante. Le cure palliative create dalla dottoressa
Saunders sono oggi un punto di riferimento a livello mondiale per la cura dei
malati terminali.
Ho conosciuto la storia
grazie al recente romanzo di Emmanuel Exitu, intitolato Di cosa è fatta la
speranza. È proprio in mezzo all’inferno che Saunders inventa il nuovo: «La
speranza è il modo peggiore di affrontare la vita. Naturalmente se si escludono
tutti gli altri, che sono molto peggio». La frase che apre il libro è
paradossale quanto vera. La speranza non è una tecnica di suggestione per
vedere le cose come non sono, anzi è la capacità di stare talmente dentro e di
fronte al presente da innamorarsene. In questo senso la speranza «è il modo
peggiore di affrontare la vita» perché è impegnativa, ma «tutti gli altri sono
molto peggio» perché escludono la creatività e la libertà, l’azione da
protagonisti. Cicely Saunders fu visionaria perché sperava, essere visionario
non significa avere visioni ma prestare attenzione fino a scorgere il possibile
dove tutti vedono l’impossibile.
Nel capitolo che dà il
titolo al libro, l’autore elenca gli ingredienti della speranza, e sono tutte
quelle cose e persone che i malati terminali hanno care e che il personale
dell’hospice procura loro: da un whisky con ghiaccio tritato a un cucciolo d’elefante,
perché «la speranza è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia
accadere». Quindi il mio primo consiglio è essere una di quelle persone che le
fanno accadere, essere visionari nel qui e ora. Altrimenti ci si consegna alla
disperazione che è proprio ciò che impedisce di vedere. Se Saunders avesse
pensato: prima, a casa, «ho i miei studi che m’importa di chi muore in guerra»,
e dopo, in corsia, «tanto è tutto inutile» non avrebbe inventato le pratiche
che oggi rendono umana anche la morte inevitabile (la morfina veniva data solo
su richiesta; i parenti non erano coinvolti e aiutati ad affrontare il
lutto...).
La seconda storia vera è
narrata dal protagonista, Michel Simonet: spazzino per vocazione. Ogni mattina,
all’alba, da trent’anni, mette una rosa fresca sul suo carretto come un
vessillo: è felice di rendere bella la sua città, portare a casa ciò che serve
alla famiglia e far vivere meglio i suoi concittadini. Trova il bello anche in
mezzo alla sporcizia, fosse anche solo la strada pulita dopo il suo passaggio.
Il suo diario di strada fa vedere come ciò che conta nella vita non è
innanzitutto il lavoro che si fa, ma perché e per chi lo si fa. Così la
sporcizia diventa occasione di quotidiane scoperte e relazioni. Per Simonet la
strada è il luogo in cui far accadere la speranza: fatto con e per amore il suo
lavoro diventa ricco di possibilità inattese (anche diventare scrittore) e non
prigione da cui fuggire.
Allora la seconda cosa
che suggerirei è continuare a mettere al mondo e sempre di più i tre figli,
proprio in un mondo marcio (quando il mondo non lo è stato? Però oggi il marcio
ci viene sbattuto in faccia con più frequenza da quella che è una vera e propria
infodemia). E poiché i figli si mettono al mondo in due, sono quei due che
continueranno a metterli al mondo. Noi siamo le relazioni in cui siamo
cresciuti. Dall’amore dei genitori e di chi lo educa dipende la fiducia con cui
un bambino guarda la realtà, dalla cura che gli viene data dipende il suo
sistema immunitario non solo fisico, ma anche psichico, che è la speranza, cioè
saper stare nel presente senza soccombere (abbiamo bisogno di ricevere più
amore di quanto male ci arriva) e senza fuggire (la tecnologia oggi offre un
comodo altrove in cui rifugiarsi).
Alzogliocchiversoilcielo-Corriere della Sera
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