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martedì 29 novembre 2022

PINOCCHIO IN CLASSE

L'ARTE DI LEGGERE

 E DI ASCOLTARE 

Leggendo il terzo volume dei “Quaderni del libro fondativo” (Bonomo editore) dedicato a Pinocchio, si rimane sorpresi dal riscontrare l’impatto che la lettura in classe di Pinocchio, da parte dell’insegnante, produce negli alunni, anche in quelli della secondaria di primo grado. Un impatto costituito da interesse, prima di tutto, e dalla provocazione di domande, di quelle domande che innescano il cammino conoscitivo.

 La storia risulta incantare i ragazzi e catturare la loro attenzione. Dalla lettura delle esperienze raccontate dalle insegnanti emerge un tratto comune: un lavoro di riflessione sulla figura del padre, sulla libertà, sull’amicizia, sull’imprevisto, sul perdono. Come pure viene descritto il tipo di lavoro legato alle discipline, soprattutto lingua italiana e arte.

Gli alunni della scuola secondaria statale di primo grado “Don Milani” di Lavagno (Verona) – dove da sei anni agli studenti di prima media viene letto il libro di Collodi – guidati dalla loro insegnante Eleonora Alga, si sono appassionati e immedesimati talmente tanto da esplodere in un grandissimo applauso al termine dell’ultima parola dell’ultimo capitolo. L’applauso era per loro stessi e per Pinocchio, hanno detto, per il cammino che avevano fatto insieme.

L’insegnante Laura Vitale in una classe seconda della scuola primaria “Sant’Angela Merici” di Desenzano (Brescia), parla di un silenzio assoluto e profondo, parla di una presenza reale del burattino. “È impossibile non lasciarsi toccare fino all’anima, impossibile non commuoversi, arrabbiarsi, ridere, spaventarsi, divertirsi, soffrire con lui”.

Claudia Conti e Maria Cristina Bruno della scuola primaria “Gianna Beretta” di Padova raccontano che per loro scegliere ogni anno un libro da leggere in classe è una questione di stima che hanno nei confronti della persona, perciò del bambino a cui propongono di incontrare, con loro, un autore e la sua opera. Nel caso di Pinocchio il lavoro ha svelato che a qualsiasi età si può suscitare un pensiero critico e ha confermato che “quando una cosa è bella, viene riconosciuta, non importa se non si capisce tutto e subito”.

Nicoletta Bonomi, insegnante nella scuola statale primaria Aleardi di Quinto (Verona), rileva che in genere, a scuola, sia molto curata la parte relativa alla comprensione del testo a livello letterario “…ma viene poco stimolata la ricerca di significato oltre le righe”. E lei con i suoi alunni ha voluto andare oltre le righe.

Sorprendente, poi, è la lunga sfilza di aspetti critici in fase di verifica, situati al termine della descrizione del suo lavoro su Pinocchio.

E che dire della singolare esperienza raccontata nella prima parte del Quaderno? Quando sono degli insegnanti che leggono insieme Pinocchio con il commento di Franco Nembrini, cosa succede?

Racconta Maria De Nigris, insegnante nella scuola primaria dell’Educandato statale “Agli Angeli” di Verona, che in un corso di formazione per l’educazione civica era stato richiesto di lavorare con i propri colleghi all’elaborazione di unità didattiche di apprendimento riferite all’educazione civica. “In un gruppo di lavoro, con maestre ed educatrici, abbiamo riletto Pinocchio e, grazie alle riflessioni e agli approfondimenti di Nembrini, abbiamo visto che ben si prestava a un lavoro in classe, come ‘sfondo integratore’ per l’educazione civica. In ogni capitolo emergevano ai nostri occhi attenti i bisogni dei bambini, i loro desideri più profondi, le loro debolezze (…) che sono di ognuno di noi. Ritrovavamo, nella nostra esperienza personale, ma anche di mamme e di maestre, situazioni descritte nel libro e da lì nascevano riflessioni e condivisione di esperienze”.

Così in ogni capitolo sono state indicate le “virtù civiche”, il lessico emotivo e le domande-guida. Una proposta per gli alunni generata dal lavoro su se stessi dei loro insegnanti e offerto a tutti.

Come dice Dario Nicoli nella prefazione, la lettura ad alta voce del libro di Collodi “smentisce la tesi, oggi molto sostenuta dagli esperti, secondo cui i ragazzi sarebbero insofferenti nei confronti della lettura di libri, in quanto maggiormente portati ad una comunicazione tramite i social: veloce, superficiale, emotiva, immaginifica, multitasking (che poi vuol dire caotica)”. E poi ancora: “questo modo di procedere è un approccio convincente perché il metodo del confronto tra i bambini (o ragazzi) esalta la loro libertà e rifugge dal pericolo di indottrinamento tipico del nostro tempo, che consiste nel caricare sulle spalle dei ragazzi una visione negativa della realtà e dei rapporti tra gli individui e con la natura, tutta centrata sui ‘problemi’ piuttosto che sulla bellezza dei doni ricevuti e sull’amore per la vita”.

Per info: librofondativo.blog

Il Sussidiario

 

lunedì 28 novembre 2022

LA FILOSOFIA SERVE AI RAGAZZI?

Se la filosofia è affare da piccoli

Walter Omar Kohan e Massimo Iiritano puntualizzano come il percorso dell’apprendimento coincida con quello “spirito utopico” che ha sempre segnato la storia del pensiero.

- di DORELLA CIANCI

«Per fare studiare i ragazzi volentieri, entusiasmarli, occorre ben altro che adottare un metodo più moderno e intelligente. Si tratta di sfumature, di sfumature rischiose ed emozionanti», diceva Pier Paolo Pasolini, ed è così che si potrebbe introdurre un bel volumetto appena edito dalle Edizioni Francescane Italiane, dal titolo Educare all’infanzia di Walter Omar Kohan con Massimo Iiritano (pagine 88, euro 9,00). Il cuore del testo ruota intorno ai complessi tempi attuali: da un lato tecnologici (dove si arriva perfino a parlare assurdamente di “missili intelligenti” ed esperienze didattiche nel metaverso); dall’altro, però, c’è sempre più un crescente disagio dei bambini e degli adolescenti, immersi, per troppo tempo, nel linguaggio dominato dalla paura e dall’ansietà. Dinanzi a questo scenario, quali nuovi strumenti di apprendimento entrano in gioco? Quali riflessioni vengono fuori relativamente alla didattica della filosofia, che va sempre più a coincidere con una “pratica” quotidiana, senza per questo togliere scientificità alla disciplina? Iiritano, filosofo e docente, inizia la sua riflessione con il noto filosofo dell’educazione Kohan, docente presso l’Università Statale di Rio de Janeiro, oltre che specialista del pensiero antico, partendo da qui. Scrive Iiritano: «Veniamo al ruolo della filosofia, al posto che questa dovrebbe avere nella scuola e nella classe, a partire dall’infanzia». Kohan, intervenendo, dice: «Il mio riferimento è soprattutto la scuola filosofica e popolare dell’America Latina: per esempio Simón Rodríguez, la quale diceva che l’America è la terra dell’invenzione e che “o inventiamo o erriamo”. Non credo che la filosofia possa essere un modello di come pensare. Penso a una filosofia inventiva e anche errante, nel senso non dello sbagliare, ma del viaggiare senza una destinazione predeterminata. La filosofia è una dimensione indimenticabile del viaggio pedagogico, perché rende questo viaggio più aperto, problematico, intenso. La filosofia non è la guardiana dei saperi pedagogici, ma una compagna di viaggio». Proprio per questo, come ricorda Iiritano, la filosofia, in classe, ha una dirompente portata politica, volta anche a considerare l’assenza alla maniera in cui la intendeva Camille Claudel: «C’è sempre qualcosa di assente che mi perseguita». Alla scuola delle “presenze immobili”, Iiritano sostituisce quella delle “assenze” per l’esserci. Kohan, con la sua lunga esperienza coi bambini e con gli adolescenti, ricorda: «Non c’è un unico concetto filosofico di educazione. Ogni educatore può fare questo esercizio filosofico: perché e per cosa entro ogni giorno in classe? La filosofia è l’esercizio del mettersi in questione con la propria vita. I modelli sono buoni per il mondo del mercato, nella filosofia abbiamo bisogno di pensare insieme ascoltandoci con attenzione,

 

senza modelli». E il suo esempio torna col pensiero al Brasile, perché gli anni ’60, in Brasile, come pure in altri paesi dell’America Latina, quali il Cile e l’Argentina, sono stati anni di terrore e dittatura, riversata anche sulla filosofia e sulla pedagogia. Lo stesso Freire è stato prima arrestato e poi ha dovuto esiliarsi, colpevole agli occhi regime per aver coordinato un piano nazionale di alfabetizzazione. «Sembra assurdo – scrive Kohanma questa è una delle eredità delle dittature: impegnarsi nell’alfabetizzazione critica del popolo può mettere la tua vita in pericolo. […] Freire è un importante riferimento della scuola filosofica popolare latinoamericana, da cui si può trarre spunto. Ispira un’educazione amorevole, infantile e rivoluzionaria; sposta la centralità del metodo verso i principi dell’educazione: curiosità e impegno politico per gli oppressi. È fonte d’ispirazione per tanti insegnanti che incontro ogni giorno nelle scuole e che non smettono di sognare e sperare in un’altra educazione e in un altro mondo… ». È evidente già in queste parole come la filosofia sia indissolubilmente dentro e accanto l’educazione, ma non è l’unico ingrediente. Kohan ricorda giustamente che se studiamo l’etimologia greca della parola “pedagogia”, scopriamo che essa è composta dal sostantivo paidos, “bambino”, e dal verbo ago, “guidare”: l’educazione implica l’erranza. Scrive: «Credo che abbiamo reso troppo stanziali le relazioni pedagogiche, le abbiamo fissate in luoghi e posizioni rigide; al contrario, credo che le relazioni educative richiedano movimento, provare anche la paura dell’ignoto. Non c’è niente che può sostituire il viaggio per imparare e insegnare». È quasi una condizione necessaria per la filosofia e per l’educazione: viaggiare con il pensiero, ma anche e soprattutto con il corpo. Viaggiare: cioè des-plazar-se, diciamo in spagnolo; “deterritorializzarsi” e “riterritorializzarsi” direbbe Deleuze. Però, alla fin fine anche Deleuze ha viaggiato poco o niente. Lo sguardo filosofico torna allora centrale, perché Kohan e Iiritano parlano di un viaggio esteriore e interiore, per ritrovarci anche come insegnanti. A questo punto si apre la parte più bella del libro, in cui si sottolinea l’intrinseco legame fra l’infanzia e la filosofia. Entrambi precisano: «Abbiamo già scolarizzato sufficientemente i bambini, forse è ora di rendere infantile la scuola». In fondo, dire “sei infantile” non deve avere più una connotazione dispregiativa.

www.avvenire.it


 

 

domenica 27 novembre 2022

COLORE


 - di ANTONIO SPADARO

Qual è il senso del colore? Che relazione c’è tra i colori e la vita, la mia? La domanda può apparire banale. Non si può, infatti, pensare una vita senza colori, senza sfumature; una vita, come si suol dire, «in bianco e nero». In realtà, anche il bianco e il nero sono colori. Dunque, una vita senza colori sarebbe impossibile: l’esistenza è sempre radicalmente colorata. Il colore è uno dei canali attraverso il quale il mondo ci raggiunge, ci viene incontro: è un potente canale di relazione, di comunicazione. Crea abbinamenti e atmosfere. Il colore contribuisce a fare della realtà un «ambiente». Ci si immerge nel colore, e così si conosce la realtà. Ma non c’è nulla di più fluido del colore, che genera una percezione differente in chi lo guarda sulla base della propria cultura e della propria esperienza personale. Non tutti vediamo allo stesso modo, infatti. Cioè non tutti interpretiamo ciò che vediamo nella stessa maniera. Il colore va ben al di là della biologia. Qualcuno faceva notare che il porpora, che per l’italiano è un rosso, per l’inglese è un viola, ad esempio. anche affermare che la stessa percezione dei colori ha una sua evoluzione nel tempo, non omogenea per Paesi e culture.

Ogni colore ha, dunque, una sua storia, che è anche sociale e sentimentale. È anche persino teologica: basterebbe pensare ai colori delle liturgie per svelare l’evidenza che il colore è ambiente del sacro.

Una cosa è certa, comunque: i colori ci raggiungono da un «oltre», al di là di noi stessi.

 Un colore suggestivo caro a molti – da Giotto a Yves Klein, da Derek Jarman a Raymond Carver – è il «blu oltremare», nel quale «l’oscurità diviene visibile» (Klein). In natura la composizione di questo pigmento la si trova nel lapislazzuli che veniva estratto principalmente in Oriente e arrivava in Europa dai porti del Vicino Oriente. Arrivava da Oltremare, dunque. Quel che mi sembra illuminante è il fatto che il colore arrivi da altrove. 

In realtà questo, simbolicamente, vale per tutti i colori. Quando l’artista li usa, essi non sono semplicemente imitazione della natura, ma intuizione di qualcosa che lo ispira arrivando da un «oltre».

Nel giungere a noi è come se arrivassero via mare, superando la possibilità di un naufragio, quello che per noi farebbe andare a picco il mondo. 

Da L’ESPRESSO

 

sabato 26 novembre 2022

SEMPRE PRONTI


 – Dal Vangelo secondo Matteo 
- Mt 24,37-44

 -In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

 - Commento al Vangelo di domenica 27 Novembre 2022 - di p. Ermes Ronchi

Nel grembo del mondo lievita una vita nuova

Come nei giorni che precedettero il diluvio, mangiavano e bevevano e non si accorsero di nulla… i giorni di Noè sono i giorni ininterrotti delle nostre disattenzioni, il grande peccato: «questo soprattutto perdonate: la mia disattenzione» (Mariangela Gualtieri).

Al vertice opposto, come suo contrario, sull’altro piatto della bilancia ci soccorre l’attenzione «che è la preghiera spontanea dell’anima» (M. Gualtieri).

Avvento: tempo per essere vigili, come madri in attesa, attenti alla vita che danza nei grembi, quelli di Maria e di Elisabetta, le prime profetesse, e nei grembi di «tutti gli atomi di Maria sparsi nel mondo e che hanno nome donna» (Giovanni Vannucci).

Avvento è vita che nasce, a sussurrare che questo mondo porta un altro mondo nel grembo, con la sua danza lenta e testarda come il battito del cuore. Avvento: quando Dio è una realtà germinante, colui che presiede ad ogni nascita, che interviene nella storia non con le gesta dei potenti, ma con il miracolo umile e strepitoso della vita, con la danza di un grembo, in cui lievita il pane di un uomo nuovo. Dio è colui che invece di porre la scure alla radice dell’albero, inventa cure per ogni germoglio, per ogni hinnon (Salmo 72,17), che è anche nome di Dio.

Due uomini saranno nel campo… due donne macineranno alla mola, una rapita, una lasciata; due soldati saranno al fronte in Ucraina, uno sarà ferito, uno resta incolume…. 

UN SOGNO DI PAROLE IN ATTESA

Matteo ci introduce nell’attesa di un Dio che ha sempre da nascere, incamminato e straniero in un mondo dal cuore distratto, oggi “come ai giorni di Noè, quando non si accorsero di nulla”. E’ questo il Tempo per guardare in alto e più lontano.

Inizia il tempo d’Avvento, quando la ricerca di Dio si muta in attesa di Dio. Con Matteo, prima al soldo dell’impero, poi sedotto da Gesù, ci immergiamo in un sogno di parole chiamato Vangelo. Questo termine, all’origine, non indicava il titolo di un libretto su Gesù, ma identificava una “buona notizia”, l’annuncio di un accadimento felice che attraversava l’impero.

Matteo ci introduce nell’attesa di un Dio che ha sempre da nascere, incamminato e straniero in un mondo dal cuore distratto, oggi “come ai giorni di Noè, quando non si accorsero di nulla”.

È possibile vivere così, da utenti e non da viventi, senza sogni e senza mistero. È possibile vivere senza accorgersi dei volti, ed è questo il grande diluvio che spazza via tutto! I giorni di Noè sono i miei, quando dimentico che il segreto della vita è oltre me, e placo la fame di cielo con larghe sorsate di terra, senza più pensare in grande, senza sognare più pace e giustizia per me e per il mondo.

È possibile vivere senza neppure accorgersi di chi ti sfiora in casa e ti parla; senza spingere l’orizzonte un po’ più in là, un po’ più in alto, indifferenti ai barchini di Lampedusa, al pianeta umiliato, alla casa comune depredata e avvelenata. Si può vivere senza vedere i volti dei popoli in guerra, come sotto anestesia.

Avvento, tempo di strade

L’Avvento che inizia è invece un tempo per accorgerci, come madri in attesa, che germogli di vita crescono e si arrampicano in noi.

Tempo di strade è l’avvento, quando il nome di Dio è “Colui-che-viene”, Dio che cammina a piedi nella polvere della strada, sui passi dei poveri e dei migranti, camminatore dei secoli e dei giorni. E’ questo il Tempo per guardare in alto e più lontano, per vivere con attenzione a ciò che è dentro di me e con grandi occhi sul mondo. Ma per farlo è necessario rallentare la corsa, questa furia di vivere che ci ha preso tutti.

L’immagine conduttrice è Miriam di Nazaret nell’attesa del parto, incinta di Dio, gravida di luce. Attendere, infinito del verbo amare. Le donne, le madri, sanno nel loro corpo che cosa è l’attesa, la conoscono dall’interno.

Avvento è vita che nasce, a sussurrare che questo mondo porta un altro mondo nel grembo, con la sua danza lenta e testarda come il battito del cuore.

 «Due uomini saranno nel campo, uno sarà preso e l’altro lasciato… perciò anche voi state pronti». Sui campi della vita, ognuno di noi può vivere in modo adulto oppure infantile; uno vive nell’attesa di un mondo nuovo, uno no; uno è dentro il circuito breve della sua pelle, l’altro vive sull’orlo dell’infinito.

Antonio Rosmini morendo affidava a Manzoni le tre parole del suo testamento spirituale: tacere, adorare, godere.

Tacere, non per amore del silenzio, ma della sua Parola.

Adorare, per aprire varchi al Signore nel cielo chiuso dei giorni.

Godere, perché la bella notizia del Vangelo ci assicura che la vita è una continua ricerca di felicità, di un Dio regala gioia a chi produce amore.

Sono tre parole, colonne per il tempo d’Avvento, per ogni tempo di chiunque attenda qualcosa.

 

p. Ermes Ronchi 

 

NON FARE SVANIRE LA BELLEZZA

 Parolin: la bellezza della nostra casa comune svanirà se non ce ne prendiamo cura

 

Nel videomessaggio per il secondo Meeting sulla bellezza del creato, in corso ad Assisi, il segretario di Stato Vaticano ricorda il dovere di tutelare e garantire la continuità della fertilità della Terra per le generazioni future

 

- di Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano

 

 “Tutto quello che è stato creato va riconosciuto, curato e tutelato, valorizzato e coltivato. Solo tramite la gratitudine per il Creato possiamo concepirlo come dono. Solo tramite il riconoscimento del dono che ci è stato fatto, ci verrà spontaneo prendercene cura”. È quanto sottolinea il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, nel videomessaggio in occasione della seconda edizione del Meeting nazionale Bellezza del Creato, promosso dalla Fondazione Sorella Natura in programma il 25 e il 26 novembre a Montefalco e ad Assisi. Nella terra di San Francesco, l’Umbria, “spiritualità e storia si fondono”: “È in questi luoghi - ricorda il cardinale Parolin - che il Santo di Assisi riconosce la bellezza e il valore di ciò che ci circonda ogni giorno: il sole, la luna, le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco, la Terra con i suoi frutti e tutte le creature che condividono questa Casa”.

L’impegno della Santa Sede

“La Santa Sede - sottolinea nel videomessaggio - è continuamente impegnata attraverso diverse iniziative a diversi livelli per concretizzare queste importanti azioni, non solo di rispetto, ma soprattutto di amore nei confronti del Creatore”. Tra i passi più recenti, il porporato ricorda “l’adesione alla Convenzione-Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e all’Accordo di Parigi da parte della Santa Sede, in nome e per conto dello Stato della Città del Vaticano”. “Questi documenti giuridici internazionali sono entrati in vigore in un giorno particolare: il 4 ottobre 2022, il giorno dedicato a San Francesco”.

Agire con urgenza, responsabilità, solidarietà

Il cardinale ricorda poi che oltre agli impegni già precedentemente portati avanti, la partecipazione della Santa Sede alla Convenzione-Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici “rappresenta un tassello significativo per la cura della Casa comune, anche a livello multilaterale, per condividere e rafforzare l’impegno internazionale volto a fronteggiare il cambiamento climatico, un problema serio da affrontare ora e in futuro”. Si tratta di una sfida complessa, “come mostrano gli esiti della recente Cop27 svoltasi a Sharm el-Sheikh, che richiede il coinvolgimento di tutti nell’agire con un chiaro orientamento animato da un senso di urgenza, responsabilità e solidarietà”.

Serve una conversione comunitaria

“La bellezza che ci circonda è immensa: pensiamo al patrimonio ambientale, storico e culturale”. La conversione individuale, aggiunge Parolin, deve essere accompagnata da una conversione comunitaria: “abbiamo la responsabilità di custodire e coltivare la nostra Casa comune”; è nostro il “dovere di tutelarla e garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future”. “La bellezza che abbiamo intorno svanirà se non ce ne prendiamo cura, privandone così i giovani di oggi e di domani, i quali non potrebbero mai vederla”. Dal porporato giunge infine un appello all’azione e alla collaborazione: “Auspico fortemente che questo motivo di incontro generi una riflessione sul riconoscimento della bellezza del Creato che ci circonda, e che da questo derivi un’azione concreta e responsabile per la sua tutela e la sua promozione”.


Vatican News

 

AGONIA DELLA CHIESA ?

  

- di Giuseppe Savagnone*

 

Una difesa non richiesta e fuorviante

L’assurda proposta, presentata alla Camera dalla Lega, di incentivare con un bonus chi si fosse sposato in chiesa col rito cattolico, anche se poi ritirata (per l’evidente vizio di costituzionalità), è solo l’ultimo sintomo di una situazione in cui a difendere le pratiche religiose sono rimasti spesso dei poco illuminati sostenitori della tradizione religiosa, che, con la loro rozzezza – si pensi al vangelo e al rosario sventolati da Salvini nei suoi comizi di qualche anno fa – ne evidenziano piuttosto il tramonto.

Perché il problema è reale, anche se la soluzione non è promettere soldi. È vero, infatti, che i matrimoni religiosi diminuiscono ogni anno. In un contesto in cui le coppie ricorrono sempre più tardi e sempre meno al matrimonio per legittimare la loro convivenza, l’ultimo rapporto Istat segnala che «sono in particolare i primi matrimoni religiosi ad aver subito la contrazione più forte dal 2011 al 2019 (-29,9 %), con un’incidenza sui primi matrimoni che è diminuita dal 70,1 % al 58,4 %». Ormai solo poco più di metà dei giovani che si sposano lo fanno in chiesa.

Chi ancora accetta la logica del matrimonio, lo fa sempre più spesso in municipio: «Nell’ultimo decennio si è assistito, all’opposto, a un incremento continuo del ricorso al solo rito civile per la celebrazione delle prime nozze: dal 29,9 % del totale dei primi matrimoni del 2011 al 43,4 % del 2021».

Ma è abbastanza ovvio che non si risolve la questione “pagando” gli sposi perché lo facciano secondo il rito tradizionale. Non è certo questo l’interesse della Chiesa. Ci sono già fin troppi matrimoni la cui validità canonica è viziata da fattori che ne inficiano il significato propriamente religioso. E in ogni caso il problema è molto più radicale di quello economico. La crisi del matrimonio cattolico ha origini molto più profonde. Siamo davanti una eclisse del cristianesimo – non solo in Italia, ma in tutta l’Europa – che neppure l’effervescente testimonianza di papa Bergoglio riesce a mascherare.

L’Europa scristianizzata

Nell’immediato dopoguerra, l’arcivescovo di Parigi, il card. Suhard, pubblicò una lettera pastorale che, nell’edizione italiana, apparve col titolo, un po’ allarmistico, Agonia della Chiesa. Oggi, a distanza di quasi un secolo, questa espressione non appare più esagerata, almeno per quanto riguarda l’Europa. La scristianizzazione del continente che storicamente è stato la culla della civiltà cristiana è troppo evidente per avere bisogno di illustrazioni.

Basti pensare che, mentre i “padri” del progetto di un’Europa unita – uomini come Robert Schumann, Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer – erano anche dei ferventi cattolici e vedevano nel cristianesimo l’anima spirituale della nuova realtà politica che essi auspicavano, pochi mesi fa il parlamento europeo ha votato a larga maggioranza una mozione che chiede l’inserimento del diritto di aborto nella Carta dei diritti fondamentali. Stridente, emblematico contrasto fra un sogno e la sua realizzazione concreta.

 Ma è solo il sintomo di un clima culturale che ha ormai ridotto drasticamente l’influenza della visione cristiana sulla popolazione del Vecchio Continente. Siamo immersi in un clima che si potrebbe definire post-cristiano, perché, se pure risente in qualche modo dell’originaria prospettiva religiosa, la declina attraverso il filtro dell’illuminismo e del liberalismo. La concezione della persona che sembra dominare pressoché incontrastata si ispira a un individualismo che assolutizza i diritti dei singoli nella loro sfera privata – secondo il noto principio che “la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella dell’altro” –  e riduce ad una funzione puramente formale il ruolo delle comunità e dell’autorità, anche di quelle civili, ma innanzi tutto di quelle religiose.

La crisi nell’ambito ecclesiale

La crisi del cristianesimo è così anche crisi delle Chiese e di quella cattolica in particolare. Sono eloquenti alcuni dati: in Olanda i cattolici oggi sono circa 3,5 milioni su una popolazione di 17 milioni e soltanto 150.000 vanno a messa la domenica. In Germania, le persone che frequentano la messa domenicale sono il 6% e, solo nel 2019, 272.771 persone hanno deciso di abbandonare deliberatamente la Chiesa cattolica. In Francia la partecipazione alle messe è ormai sotto il 4% e i matrimoni in chiesa rappresentano il 40%. A confronto in Italia, col 19% di partecipazione alla messa domenicale e il 58,4% di matrimoni religiosi la crisi è ancora molto meno marcata.

Eppure, c’è, ed è evidente. Anche là dove rimane una sensibilità religiosa, essa tende sempre di più a esprimersi in credenze e comportamenti fortemente soggettivi. È venuta meno l’adesione incondizionata ad un orizzonte organico di verità di fede. Ormai la maggior parte degli stessi “credenti” ha una sua “lista” personale delle cose in cui crede e di quelle in cui non crede.

Ma è la stessa struttura ecclesiale che appare in seria difficoltà. Sintomatica la forte diminuzione delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. I seminari sono spesso enormi edifici, costruiti in altri tempi per ospitare un numero ingente di futuri presbiteri, e oggi dati parzialmente o totalmente in affitto per ospitare scuole o altri enti pubblici.  Ci sono diocesi dove una percentuale sempre maggiore di presbiteri è costituita da stranieri. Per non parlare degli ordini religiosi, in particolare di quelli femminili, i quali ormai hanno le loro nuove vocazioni quasi esclusivamente in Africa e in Asia.

Ma la crisi dei presbiteri e dei religiosi, prima ancora di essere quantitativa, riguarda la loro percezione della propria identità, in un mondo che è profondamente cambiato e dove già l’idea stessa di una scelta definitiva, com’è quella del sacerdozio ordinato o della consacrazione, appare problematica.

A questa difficoltà di fondo si sono aggiunte le sconvolgenti rivelazioni sulla diffusione degli abusi sui minori commessi da sacerdoti e l’onda di discredito e di sospetto che esse hanno gettato, per colpa di alcuni (troppi!), sull’intera categoria.

 Così accade che oggi, nella Chiesa, l’incertezza più profonda e più sottile circa la propria identità e le motivazioni della propria scelta serpeggia proprio tra i presbiteri. Ed è una fragilità che si riflette nel modo di interpretare la propria missione e di esercitare il proprio ministero.

Tra vecchio e nuovo

A confronto, il laicato appare più vivace e determinato, ma spesso manca ancora della piena consapevolezza e della formazione necessarie per svolgere con efficacia il proprio ruolo, che non è di semplice fiancheggiatore del clero (come in passato veniva inteso), ma di protagonista a pieno titolo della vita e della missione della Chiesa. Per non dire che una eredità ancora molto radicata di clericalismo, presente nelle comunità ecclesiali, continua a pesare nelle parrocchie e nelle diocesi, impedendo nella maggior parte dei casi una coraggiosa valorizzazione delle competenze dei laici e dunque una reale condivisione del carico pastorale. Stenta a svilupparsi, così, quella necessaria sinergia tra pastori e fedeli, che oggi più e mai appare necessaria ad entrambi per ridare slancio alla comunità ecclesiale.

Una forte corrente tradizionalista, nata in polemica più o meno aperta con il rinnovamento proposto dal Concilio, accusa proprio questo sforzo di modernizzazione della Chiesa di avere indebolito lo spirito di fedeltà che la rendeva salda di fronte alle difficoltà. È una polemica che già serpeggiava durante il pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, che del messaggio conciliare sono stati per la verità interpreti molto prudenti, e che è esplosa sotto il pontificato di papa Francesco, molto più esplicitamente impegnato ad attuare lo spirito del Concilio. Come se la tradizione si riducesse alla conservazione del passato e non fosse, piuttosto, la rilettura di quest’ultimo alla luce dei problemi e delle opportunità del presente e nella proiezione verso le prospettive del futuro. E come se la fedeltà alla radici escludesse il rischio della crescita.

La lotta che ci attende

Non è certo la prima volta che la barca di Pietro si trova ad affrontare flutti tempestosi che la scuotono con violenza. Non si tratta di eludere la crisi, ma di affrontarla senza nascondere i problemi, e al tempo stesso senza lasciarsene scoraggiare. Il significato originario del termine greco agonia non è “morte”, ma “lotta”, “combattimento”.

 La Chiesa è messa alla prova, come del resto è accaduto in altre epoche di transizione, e – come allora – solo con scelte coraggiose di rinnovamento potrà riscoprire e riproporre efficacemente il senso della sua missione.

Nella sua lettera pastorale il card. Suhard attribuiva grande importanza, per questo, alla capacità dei cristiani di impegnarsi in un grande sforzo di creatività culturale, essenziale per il mondo e, al tempo, stesso, per assolvere in esso la loro missione.

Vorremmo vedere maggiore consapevolezza di questa urgenza nelle nostre diocesi e nelle nostre parrocchie, ancora spesso dominate da un ritualismo che lascia poco spazio alla riflessione e al dibattito culturale. «Il più grave errore in cui potrebbero cadere i cristiani del xx secolo», scriveva l’arcivescovo di Parigi, «l’errore che i loro discendenti non perdonerebbero loro mai, sarebbe di lasciare che il mondo si faccia e si unifichi senza di essi, senza Dio – o contro di Lui; sarebbe di accontentarsi per il loro apostolato di ricette e di espedienti. Questo errore noi non vorremmo commetterlo».

In un mondo che ha smarrito in larghissima misura il senso della realtà e della stessa vita umana – sostituita nella scala di valori dal profitto capitalistico, dalla logica della violenza, dalla omologazione dei fenomeni di massa – , bisogna ricominciare a esercitare il diritto/dovere di pensare i problemi in termini nuovi.

Il Vangelo è per questo la migliore risorsa. Ma bisogna saper attingere ad esso gli stimoli per una svolta – della società e al tempo stesso della comunità cristiana – e avere il coraggio di tradurli in pratica.

Il cammino sinodale che sta impegnano la Chiesa universale e quella italiana in particolare può essere per tutto questo una grande occasione. A patto di non ridurlo a una prassi meramente formale. È il momento di cambiare passo. Dipende da ciascuno dare un contributo perché questo avvenga.

 *Pastorale della Cultura – Diocesi Palermo

 www.tuttavia.eu

 

 

 


UMILIARE PER EDUCARE ???


 CHI UMILIA PERDE E FA PERDERE 

NON FA SCUOLA E NON FORMA

 

- di ERALDO AFFINATI

 

È giusto mortificare un adolescente che sbaglia, come ha dichiarato Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione (e del Merito)? Direi proprio di no: in tanti anni di insegnamento, prima negli istituti professionali per l’industria e l’artigianato, poi agli immigrati, mi sono reso conto che umiliare i ragazzi sarebbe un errore imperdonabile. Ogni bravo docente lascia sempre una possibilità di recupero all’allievo, soprattutto quando esprime nei suoi confronti un giudizio negativo. Mai e poi mai lo dovrebbe mettere con le spalle al muro. Non tutti infatti hanno la capacità di reagire alla sorte avversa: se la personalità del “reprobo” è fragile, vulnerabile, segna-ta da precedenti esperienze negative, la condanna che egli subisce rischia di farlo sprofondare nel gorgo in cui già annaspa. L’impostazione punitiva non giova a nessuno, per questo è stata abbandonata da tutti i grandi educatori, i quali hanno superato l’idea vendicativa fine a se stessa puntando al riscatto di chi non si comporta in modo corretto.

Ciò non significa, intendiamoci, assumere un atteggiamento lassista. Quando hai a che fare con una personalità in formazione, sei chiamato a ripristinare lo spazio dialettico: tesi, antitesi e sintesi. Se i ragazzi non trovano l’incarnazione del limite da rispettare, non potranno crescere, resteranno nel vuoto. Insegnare ai giovani è un lavoro meraviglioso che esige dedizione assoluta: per diventare al tempo stesso maestri e amici non basta indicare il rispetto del precetto, bisogna mostrare sulla propria pelle il costo della scelta compiuta, vale a dire le rinunce che hai fatto per essere ciò che sei. Solo così gli scolari problematici ti verranno dietro. Altrimenti, se li hai feriti, appena potranno, se ne andranno via. E quando ne perdi uno, è come se li avessi persi tutti. Ci starai male anche più di loro. Se invece li avrai fatti rientrare nel gruppo, ti sentirai soddisfatto.

Don Lorenzo Milani, di cui stiamo per celebrare il centenario della nascita, era severo, spesso intransigente; molti suoi ex allievi rammentano i modi bruschi che aveva, impegnato a far emergere in ogni alunno le risorse migliori, tuttavia non mancava di far trapelare dietro a ogni rimbrotto un buffetto affettuoso, ben sapendo che la gioventù è l’età degli errori, delle piste false, delle tentate prove, dell’incertezza. Non si raggiunge la maggiore età eseguendo il mansionario che ci viene proposto. È necessario superare un percorso irto di ostacoli: se la scuola non aiuta a far questo, scoprendo il futuro spesso ignoto agli stessi allievi che la frequentano, si trasforma in un semplice ufficio culturale e amministrativo.

Ecco perché sui temi educativi non si dovrebbe mai neppure ragionare solo per slogan: ad esempio, chiedere di togliere i cellulari dalle aule, sulla carta, potrebbe sembrare una cosa logica, di buon senso, accettabile dalla maggioranza, per evitare che i ragazzi si distraggano. Salvo poi magari scoprire che in molte aule del nostro Paese gli smartphone vengono utilizzati didatticamente da docenti esperti per realizzare imprese conoscitive rilevanti con l’ambizione di uscire dal sistema ottocentesco purtroppo ancora presente in larga parte del sistema nazionale. Suggerire l’abolizione del reddito di cittadinanza per chi non è riuscito a conseguire il titolo di studio obbligatorio aggiunge legna al fuoco del dibattito in corso, così come l’invocato incremento dei lavori socialmente utili per fronteggiare i casi di bullismo. Più che le teorie, vengono in mente i volti delle persone: quelle variamente imperfette, che per questa ragione hanno sinora fruito del sussidio, una volta erano studenti sul crinale dell’abbandono, poi sono stati incapaci, per una ragione o per l’altra, di occupare un posto stabile all’interno della comunità d’appartenenza. C’è un rapporto che lega entrambe le schiere: gli sconfitti, i reietti, i fuori squadra, i ripetenti, i casi difficili. Si ha l’impressione che lo Stato, se imboccasse il sentiero appena intravisto, farebbe un passo indietro, lasciando nella retrovia polverosa tutti loro con l’implicita conseguenza logica e operativa di delegare alla Caritas o alle associazioni di volontariato ogni assistenza umana e sociale.

 Ps. Apprezziamo le scuse del Ministro per quanto riguarda l’uso del termine “umiliazione”. In effetti il tema scolastico è talmente delicato da invitare tutti noi a una estrema prudenza nell’uso delle parole.

 

www.avvenire.it

 

 

venerdì 25 novembre 2022

ALLA RICERCA DELL'UMANO


INTERVISTA 

SERGIO MASSIRONI

 - di Rocco Gumina*

Le società complessa nella quale viviamo è contraddistinta da un fluire infinito di informazioni, eventi e crisi. In questo contesto, tutto è fluido perciò si stenta a individuare il senso profondo degli avvenimenti e della storia in generale. La Chiesa cattolica, attualmente impegnata in un processo di riflessione e riforma tramite il percorso sinodale, avverte profondamente la crisi dell’epoca dei cambiamenti e, pertanto, abbisogna di un cammino di ripensamento radicale. Di questo tema discutiamo con don Sergio Massironi. Direttore di ricerca presso il Dicastero vaticano per lo Sviluppo Umano Integrale, si occupa del rinnovamento della teologia a partire dai margini e dalle periferie. Di recente, per le edizioni Castelvecchi, ha pubblicato il suo ultimo volume intitolato "Cattolico cioè incompleto". Un’identità estroversa. Un’appartenenza antitotalitaria.

 – Don Massironi, nel suo ultimo libro, lei sostiene che la vera cifra del cattolicesimo sia il perenne riconoscimento della propria incompletezza. Da ciò, ne consegue un’identità dialettica diretta alla continua ricerca di tutto ciò che è umano. Quali sono i motivi che la spingono a ritenere che questo sia una possibile declinazione del cattolicesimo nel XXI secolo?

 Grazie per questa domanda. Per rispondere devo anzitutto riconoscere un grande debito: nessuno è se stesso e arriva a cogliere le parole che deve dire, senza avere ascoltato e ricevuto molto. Il titolo di questo libro rinvia direttamente, come scrivo nell’introduzione, a delle espressioni provocatorie di papa Francesco: «Il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre. Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto».

 Ascoltandole, si è stabilita in me la connessione con quanto ci insegnava, da arcivescovo di Milano, un uomo per molti aspetti diverso da Bergoglio: il cardinale Scola, infatti, insisteva sul fatto che “cattolico” non significhi tanto “universale”, quanto “ciò che rinvia all’intero”. Se a definire la mia identità è il rimando ad altro, significa che decisiva è la sua apertura: il suo avere un sapore non è quindi alternativo al rimanere estroversa. Scriveva Simone Weil in un libro che ho studiato con Roberta De Monticelli: «Quando un pittore di autentico valore va in un museo, la sua originalità si sente rafforzata».

 Il volume si intitola La prima radice ed è uno dei migliori scritti del Novecento sul tema controverso dell’identità. In Cattolico, cioè incompleto tento di raccogliere questa eredità e di inserirmi – lo faccio a più riprese ed esplicitamente – nel solco del maggiore riferimento della mia giovinezza, il cardinale Carlo Maria Martini. A dieci anni dalla morte è sempre più chiaro come il suo rapporto con la Parola di Dio e con la Chiesa-istituzione sia stato nutrito dall’incontro con gli altri e insieme lo abbia reso possibile a livelli sempre più radicali. Il suo ministero rappresenta una delle più efficaci declinazioni del Vaticano II, realizzatasi in anni in cui venti freddi rischiavano di congelare i germogli della primavera conciliare.

 Oggi tutto – non solo il papa, ma la frantumazione delle vicende individuali e sociali e la complessità del panorama internazionale – chiede alla Chiesa di dare seguito al Concilio, alla «continua ricerca – come diceva nella sua domanda – di tutto ciò che è umano». Per il mistero stesso dell’incarnazione, infatti, solo questa è la via che consente di entrare in tutto ciò che è divino.

 – La sua proposta pare avanzare la necessità di un esercizio di costante interpretazione evangelica della realtà. Quali conseguenze può generare questo stile di approccio al mondo e alla storia per i cristiani e per la Chiesa di oggi?

 “Interpretare” è un verbo decisivo. Non solo condensa, in ambito filosofico, la svolta ermeneutica del secolo scorso, ormai imprescindibile nell’elaborazione di un pensiero serio e pubblicamente sostenibile; la vera questione è molto più antica. Quello che nel libro chiamo “il corpo a corpo” con il testo biblico ha reso l’ebraismo, e di conseguenza il cristianesimo, vere e proprie culture dell’attenzione: la Parola di Dio va decifrata, non è sempre la stessa, ha sensi molteplici, ci raggiunge in ciò che è scritto, ma più spesso in ciò che resta fra le righe. Figuriamoci che la lingua delle Scritture di Israele è consonantica: già le diverse vocalizzazioni aprono i testi a più interpretazioni. C’è una logica in tutto questo, necessariamente. È il contrario del fondamentalismo. La Bibbia, nome plurale che rinvia a decine di libri diversissimi fra loro, è il più grande dispositivo antidolatrico che l’umanità abbia generato. È a questo livello che si coglie maggiormente il suo essere un testo ispirato: Dio si sottrae a ogni chiusura del discorso, a ogni irrigidimento. Nessuna parola è indifferente, sebbene nessuna basti. È chiaro che il contributo della filosofia greca abbia alimentato in modo formidabile questa propensione a interrogare, a vedere sempre l’altra faccia della realtà. A suo modo anche la capacità inclusiva del diritto romano e la scoperta in architettura e nella pittura della prospettiva lo hanno fatto: centralità del punto di vista. Per tornare – va detto – a quel pensiero ebraico senza il quale il Novecento avrebbe rappresentato la fine della parabola moderna. Ebbene, nel libro provo a dire che il Moderno è un orizzonte di grazia che non solo non è finito, ma in cui i cattolici sono fino a oggi troppo poco entrati. È prevalsa per quasi cinque secoli un’opposizione ecclesiastica alla cultura contemporanea che, se ha colto in anticipo i limiti strutturali di tendenze che hanno prodotto conseguenze tragiche, ha manifestato più la paura di perdere potere e controllo che la capacità di interpretare i segni dei tempi. “Interpretare”, appunto. Significa saper leggere, e saperlo fare criticamente, a più voci, integrando prospettive. Significa anche dare credito, provare sincera curiosità, incantarsi.

 – Il turbocapitalismo dell’odierna società spinge verso la moltiplicazione delle prestazioni finalizzate a produrre secondo modelli meritocratici sempre più stringenti. Per molti studiosi, è possibile uscire da questa implicita forma di totalitarismo attraverso la vulnerabilità e l’incompletezza tipiche della natura umana. Su questo tema, a parer suo, il cristianesimo quale contributo può offrire?

Il magistero cattolico rappresenta oggi, a livello planetario, la piattaforma più strutturata e almeno potenzialmente più influente per una critica radicale a quello che, come lei, molti chiamano ormai “turbocapitalismo”. È evidente che la drammatica perdita di credibilità del clero e la lentezza delle riforme indebolisca molto questa epocale chiamata a esercitare un ruolo profetico, anche fra le religioni e le prospettive laiche con cui sono reali le convergenze.

 Le encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti, insieme a molti viaggi e gesti di Papa Francesco, hanno un impatto pubblico che le Chiese locali e numerosi cattolici sembrano ancora stentare a riconoscere. Naturalmente ci sono anche grandi interessi e veri e propri centri di potere che non hanno alcun guadagno dalla credibilità della Chiesa e dai contenuti del suo messaggio.

 Al cui interno – nel libro provo a dirlo – certamente la vulnerabilità e persino il fallimento hanno un posto, ma in una visione che afferma la vita, non il dolore. Noi abbiamo letto Nietzsche e non possiamo in alcun modo cadere nelle defigurazioni del cristianesimo che il filosofo acutamente denuncia. La nostra non è una morale degli schiavi. Noi non contestiamo la crescita, il successo, la vita. Abbiamo ottime ragioni, però, per ritenere devastanti, ingiuste, insostenibili molte delle traiettorie che minacciano il Pianeta e allargano la forbice delle diseguaglianze rendendo il mondo infernale per un numero sempre maggiore dei suoi abitanti, umani e non. C’è chi pensa a colonizzare Marte e rifiuta di vedere le periferie della propria città.

 – La Chiesa cattolica, per ferma volontà di papa Francesco, è in pieno cammino sinodale. Un percorso di conoscenza delle proprie fragilità e di rilancio dell’annuncio evangelico in un mondo in perenne crisi. Per i credenti, l’unica certezza è la consapevolezza che è giunto il tempo di “rimboccarsi le maniche”. Su questo siamo tutti d’accordo, ma verso dove dovrebbe indirizzarsi l’esito di questa fatica quando molti scenari ecclesiastici appaiono immobili e privi di vitalità?

 Rimboccarsi le maniche non basta. Specialmente noi Italiani siamo fatti così. Generosi, pronti, specialmente nelle emergenze. No, ci occorrono visioni. Papa Francesco ama molto una espressione biblica: ci occorrono sogni. Sogni personali innestati su un sogno comune. Senza il secondo si restringono e poi svaniscono anche i primi. Non basta “fare”. Persino la carità potrebbe diventare retorica. Abbracciare il povero sconvolge il pensiero. Commuove. Muove cioè da dentro e muove tutto.

 Noi abbiamo bisogno che la realtà sposti le nostre idee. Ci metta gli altri davanti, facendoci alzare lo sguardo e guardare negli occhi chi rappresenta veramente altro. L’intruso, come lo definiva il filosofo francese Jean-Luc Nancy in un saggio di straordinaria bellezza e di capitale importanza, in cui il primo straniero si rivela essere non quello che viene da fuori, ma quello che già abita in lui. Essere incompleti non è una forma di debolezza, ma una legge di apertura, che è insieme di morte e di vita: “morire a sé stessi” – si diceva una volta – è la chiave per vivere di più. Non abbiamo mostrato ancora questo “vivere di più”. Forse non l’abbiamo realmente sperimentato.

 In tal senso l’esito della fatica di cui lei parla dovrebbe essere gioia. Questo è il punto a mio giudizio vertiginoso. Siamo una Chiesa che dà credito alla gioia, che sostiene chi genera gioia? Molte energie sembrano spese per difendere strenuamente ciò che è morto e nel combattere ciò che nasce. Chiacchiericcio, sospetto e non di rado interventi disciplinari minacciano ciò che, siccome vive, sembra mettere in ombra chi vita non ha.

 In tutti i gruppi umani esistono dinamiche di questo genere, ma è paradossale che chi vuol fare affari oggi sia attento a coltivare buone idee e qualità relazionali che la Chiesa stenta a riconoscere generative. È precisamente in questo, così come nella critica al capitalismo, che il laicato appare silenziato, invisibile, trattato ancora come se non fosse Chiesa. La distinzione clero-popolo di Dio, oltre a trattare il clero come se stesse di fronte e non dentro il corpo, impedisce un “rimboccarsi le maniche” efficace. E spegne i sogni. La via sinodale riguarda questo punto.

– La grande lezione dell’insegnamento sociale ci dice che la Chiesa è “esperta di umanità”. Tuttavia, non solo nel nostro Paese, i cattolici appaiono sempre più afoni e incapaci di produrre utilità sociale a partire dal messaggio evangelico. È possibile invertire la rotta?

 In troppe occasioni i cattolici non si dimostrano affatto esperti in umanità. Per l’importanza storica che hanno avuto nel rappresentare la Chiesa, va aggiunto che i preti e le persone consacrate non appaiono ai nostri contemporanei e in particolare ai giovani esperti di umanità, o portatori di un di più di umanità. Che ci piaccia o meno e che sia giusto o meno – la realtà è infatti sempre più ricca delle impressioni generali – oggi si pensa il contrario e cioè che la Chiesa cattolica rappresenti un vero e proprio dispositivo di blocco rispetto ai diritti delle persone, alla piena fioritura delle loro differenze, specialmente culturali e di genere, così come alla loro autodeterminazione.

 Non credo si tratti solo – come spesso si dice – di un problema di comunicazione. Il punto non è diventare più accattivanti, perché non abbiamo un prodotto da vendere. La Chiesa è “esperta di umanità” non per ciò che possiede, ma per ciò che la possiede: è l’umanità di Cristo il mistero di Dio. L’umanità di Cristo è tutto meno che ecclesiastica e infatti continua a sprigionare fascino. La Chiesa è credibile nella misura in cui se ne lascia affascinare non spiritualisticamente, ma operativamente. È esperta in umanità se – come hanno fatto i grandi missionari del passato e teologi come Agostino, Tommaso, Ildegarda, Ignazio, Teresa – assume e allarga la cultura in cui è inserita.

 La contemporaneità va amata. I seminari non possono essere il rifugio di chi la fugge o vi si trova a disagio. Nel mio libro cito un’intervista al cardinale Ravasi in cui Gesù è descritto così: «La mia convinzione è che egli fosse una figura simile a spugna, uno di quelli che riescono a filtrare e a comprendere percorsi diversi, un uomo molto sensibile alle atmosfere e per questo capace di conoscere con precisione le tipologie fondamentali del suo mondo, entrando però anche in polemica con esse, il che dimostra che era non solo recettivo ma anche creativo. Anzi, io direi che proprio questa era la sua grandezza». Si dovrebbe poter descrivere così anche la Chiesa che si definisce suo Corpo.

www.tuttavia.eu

*Rocco Gumina insegna Religione nell'Arcidiocesi di Palermo. Dal 2014 è presidente dell'associazione culturale "A. De Gasperi". Pubblica, su riviste specialistiche, articoli che sviluppano temi legati alla relazione fra teologia, spiritualità e politica.

SCUOLA IN FINLANDIA

 Il metodo di apprendimento finlandese 
arriva in Italia

 

 Si può applicare il metodo finlandese a scuola? La risposta è sì e ce l’hanno data cinque insegnanti dell’Istituto Pascal di Chieri, che durante l’arco del periodo pandemico, si sono posti alcune domande, come ad esempio se gli studenti fossero felici a scuola o cosa potesse accrescere la loro felicità, che sono confluite nell’apertura della prima scuola elementare d’Italia riconosciuta dal Ministero finlandese, prevista a settembre 2023.

I cardini del metodo finlandese

Il risultato sarà un progetto educativo rivoluzionario, il primo di questo genere in Italia, dove cooperazione, rispetto, integrazione ed empatia saranno gli assi primari su cui si muoveranno le giornate di lezione, gli insegnamenti e le attività̀ didattiche della scuola elementare Daisy. L’obiettivo è, infatti, quello di crescere bambini curiosi, dinamici e liberi, preparati al confronto internazionale e capaci di sviluppare un pensiero critico autonomo e strutturato. Per farlo, l’ambiente in cui i più piccoli saranno immersi presenterà̀ cardini saldi e puntuali, improntati alla condivisione, alla tolleranza e all’aiuto reciproco e osservati da una prospettiva multiculturale.

Ecco vediamo nello specifico quali sono i cardini del metodo finlandese:

Inclusività: la didattica sarà̀ pensata, progettata e pianificata in base alle variabilità̀ ed esigenze individuali, rendendosi, così, accessibile a tutti gli allievi e valorizzando l’eccellenza di tutti, emersa dalla collaborazione costante e dalla viva attenzione all’individuo;

Autonomia: i docenti aiuteranno gli studenti nello sviluppo della capacità di pensare in modo indipendente e di esercitare anche l’autovalutazione. Per essere maggiormente efficaci, saranno, inoltre, adottati strumenti come la facilitazione e il metodo del consenso, al fine di introdurre decisioni prese con il consenso di studenti e insegnanti e, per tale motivo, più stabili e migliori rispetto a quelle prese dalla maggioranza;

Spazio per apprendere: gli spazi saranno di essenziale importanza per l’apprendimento, con biblioteche e laboratori condivisi, angoli dedicati alla lettura silenziosa (il “quite time lounge”), luoghi dove gli insegnanti svolgeranno lezioni aperte al pubblico, dialogo con il territorio e integrazione tra giovani e anziani, poltrone per riposare la mente tra una lezione e l’altra (il “chill chat corner”), mostre d’arte ed eventi pubblici;

Cura: particolare enfasi sarà posta, poi, sulla relazione che intercorre tra cura, educazione e insegnamento, nell’intento di promuovere una crescita basata sulla collaborazione tra bambini e docenti come via privilegiata per il benessere e l’apprendimento di abilità sociali e pratiche;

Learning by doing: proprio l’esperienza pratica sarà uno dei fulcri della didattica, intesa alla stregua di un “punto di partenza” di ogni processo educativo;

Scuola itinerante: a essere garantite non saranno solo le canoniche lezioni in aula, ma anche modalità di insegnamento che prevedranno uscite sul territorio con finalità̀ educative, per sostenere il movimento fisico e, al contempo, il rapporto con il mondo nella sua interezza, sviluppando l’amore per la bellezza e il lavoro in gruppo.

“Il sistema didattico finlandese ha fama di essere il migliore al mondo”

E l’incoronazione arriva anche da Monica Ferri, insegnante di arte e di cinese e coordinatrice dei laboratori e dalla dirigente scolastica Nicoletta Coppo che in coro spiegano: “L’idea non è nata dall’oggi al domani, ma da un lungo periodo di riflessione e studio. In tema di didattica, siamo molto attente a ciò̀ che accade nel nord Europa, e più volte negli anni siamo state, con alcuni dei nostri insegnanti, in Danimarca, Svezia e Finlandia per visitare le scuole e confrontarci con i docenti del posto. Il sistema didattico finlandese ha fama di essere il migliore al mondo, e negli anni ne abbiamo tratto spunti per la nostra Scuola Media Internazionale Holden e il Liceo Pascal. Dal momento che volevamo completare la nostra offerta formativa inserendo la primaria, abbiamo, quindi, pensato di adottare il metodo finlandese.”

Tra i progetti che saranno promossi dall’International Daisy Primary School vi saranno, inoltre: un corso di cinese dalla prima elementare, delle letture in biblioteca, delle competenze digitali, delle lezioni in inglese e, infine, classi di yoga & Mindfulness. Gli studenti di tutti gli ordini e i gradi saranno, poi, introdotti ai principi fondamentali dell’etica e alla filosofia, necessarie per l’elaborazione del pensiero critico, riflessivo e creativo e passaggi fondamentali per il progresso civile e il rispetto altrui.

 

Metodo finlandese