Se la filosofia è affare da piccoli
Walter Omar Kohan e
Massimo Iiritano puntualizzano come il percorso dell’apprendimento coincida con
quello “spirito utopico” che ha sempre segnato la storia del pensiero.
- di DORELLA CIANCI
«Per fare studiare i
ragazzi volentieri, entusiasmarli, occorre ben altro che adottare un metodo più
moderno e intelligente. Si tratta di sfumature, di sfumature rischiose ed emozionanti»,
diceva Pier Paolo Pasolini, ed è così che si potrebbe introdurre un bel
volumetto appena edito dalle Edizioni Francescane Italiane, dal titolo Educare
all’infanzia di Walter Omar Kohan con Massimo Iiritano (pagine 88, euro 9,00).
Il cuore del testo ruota intorno ai complessi tempi attuali: da un lato
tecnologici (dove si arriva perfino a parlare assurdamente di “missili
intelligenti” ed esperienze didattiche nel metaverso); dall’altro, però, c’è
sempre più un crescente disagio dei bambini e degli adolescenti, immersi, per
troppo tempo, nel linguaggio dominato dalla paura e dall’ansietà. Dinanzi a
questo scenario, quali nuovi strumenti di apprendimento entrano in gioco? Quali
riflessioni vengono fuori relativamente alla didattica della filosofia, che va
sempre più a coincidere con una “pratica” quotidiana, senza per questo togliere
scientificità alla disciplina? Iiritano, filosofo e docente, inizia la sua
riflessione con il noto filosofo dell’educazione Kohan, docente presso
l’Università Statale di Rio de Janeiro, oltre che specialista del pensiero
antico, partendo da qui. Scrive Iiritano: «Veniamo al ruolo della filosofia, al
posto che questa dovrebbe avere nella scuola e nella classe, a partire
dall’infanzia». Kohan, intervenendo, dice: «Il mio riferimento è soprattutto la
scuola filosofica e popolare dell’America Latina: per esempio Simón Rodríguez,
la quale diceva che l’America è la terra dell’invenzione e che “o inventiamo o
erriamo”. Non credo che la filosofia possa essere un modello di come pensare.
Penso a una filosofia inventiva e anche errante, nel senso non dello sbagliare,
ma del viaggiare senza una destinazione predeterminata. La filosofia è una
dimensione indimenticabile del viaggio pedagogico, perché rende questo viaggio
più aperto, problematico, intenso. La filosofia non è la guardiana dei saperi
pedagogici, ma una compagna di viaggio». Proprio per questo, come ricorda
Iiritano, la filosofia, in classe, ha una dirompente portata politica, volta
anche a considerare l’assenza alla maniera in cui la intendeva Camille Claudel:
«C’è sempre qualcosa di assente che mi perseguita». Alla scuola delle “presenze
immobili”, Iiritano sostituisce quella delle “assenze” per l’esserci. Kohan,
con la sua lunga esperienza coi bambini e con gli adolescenti, ricorda: «Non
c’è un unico concetto filosofico di educazione. Ogni educatore può fare questo
esercizio filosofico: perché e per cosa entro ogni giorno in classe? La
filosofia è l’esercizio del mettersi in questione con la propria vita. I
modelli sono buoni per il mondo del mercato, nella filosofia abbiamo bisogno di
pensare insieme ascoltandoci con attenzione,
senza modelli». E il suo
esempio torna col pensiero al Brasile, perché gli anni ’60, in Brasile, come
pure in altri paesi dell’America Latina, quali il Cile e l’Argentina, sono
stati anni di terrore e dittatura, riversata anche sulla filosofia e sulla
pedagogia. Lo stesso Freire è stato prima arrestato e poi ha dovuto esiliarsi,
colpevole agli occhi regime per aver coordinato un piano nazionale di
alfabetizzazione. «Sembra assurdo – scrive Kohanma questa è una delle eredità
delle dittature: impegnarsi nell’alfabetizzazione critica del popolo può
mettere la tua vita in pericolo. […] Freire è un importante riferimento della
scuola filosofica popolare latinoamericana, da cui si può trarre spunto. Ispira
un’educazione amorevole, infantile e rivoluzionaria; sposta la centralità del
metodo verso i principi dell’educazione: curiosità e impegno politico per gli
oppressi. È fonte d’ispirazione per tanti insegnanti che incontro ogni giorno
nelle scuole e che non smettono di sognare e sperare in un’altra educazione e
in un altro mondo… ». È evidente già in queste parole come la filosofia sia
indissolubilmente dentro e accanto l’educazione, ma non è l’unico ingrediente.
Kohan ricorda giustamente che se studiamo l’etimologia greca della parola
“pedagogia”, scopriamo che essa è composta dal sostantivo paidos, “bambino”, e
dal verbo ago, “guidare”: l’educazione implica l’erranza. Scrive: «Credo che
abbiamo reso troppo stanziali le relazioni pedagogiche, le abbiamo fissate in
luoghi e posizioni rigide; al contrario, credo che le relazioni educative
richiedano movimento, provare anche la paura dell’ignoto. Non c’è niente che
può sostituire il viaggio per imparare e insegnare». È quasi una condizione
necessaria per la filosofia e per l’educazione: viaggiare con il pensiero, ma
anche e soprattutto con il corpo. Viaggiare: cioè des-plazar-se, diciamo in
spagnolo; “deterritorializzarsi” e “riterritorializzarsi” direbbe Deleuze.
Però, alla fin fine anche Deleuze ha viaggiato poco o niente. Lo sguardo
filosofico torna allora centrale, perché Kohan e Iiritano parlano di un viaggio
esteriore e interiore, per ritrovarci anche come insegnanti. A questo punto si
apre la parte più bella del libro, in cui si sottolinea l’intrinseco legame fra
l’infanzia e la filosofia. Entrambi precisano: «Abbiamo già scolarizzato
sufficientemente i bambini, forse è ora di rendere infantile la scuola». In
fondo, dire “sei infantile” non deve avere più una connotazione dispregiativa.
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