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lunedì 28 novembre 2022

LA FILOSOFIA SERVE AI RAGAZZI?

Se la filosofia è affare da piccoli

Walter Omar Kohan e Massimo Iiritano puntualizzano come il percorso dell’apprendimento coincida con quello “spirito utopico” che ha sempre segnato la storia del pensiero.

- di DORELLA CIANCI

«Per fare studiare i ragazzi volentieri, entusiasmarli, occorre ben altro che adottare un metodo più moderno e intelligente. Si tratta di sfumature, di sfumature rischiose ed emozionanti», diceva Pier Paolo Pasolini, ed è così che si potrebbe introdurre un bel volumetto appena edito dalle Edizioni Francescane Italiane, dal titolo Educare all’infanzia di Walter Omar Kohan con Massimo Iiritano (pagine 88, euro 9,00). Il cuore del testo ruota intorno ai complessi tempi attuali: da un lato tecnologici (dove si arriva perfino a parlare assurdamente di “missili intelligenti” ed esperienze didattiche nel metaverso); dall’altro, però, c’è sempre più un crescente disagio dei bambini e degli adolescenti, immersi, per troppo tempo, nel linguaggio dominato dalla paura e dall’ansietà. Dinanzi a questo scenario, quali nuovi strumenti di apprendimento entrano in gioco? Quali riflessioni vengono fuori relativamente alla didattica della filosofia, che va sempre più a coincidere con una “pratica” quotidiana, senza per questo togliere scientificità alla disciplina? Iiritano, filosofo e docente, inizia la sua riflessione con il noto filosofo dell’educazione Kohan, docente presso l’Università Statale di Rio de Janeiro, oltre che specialista del pensiero antico, partendo da qui. Scrive Iiritano: «Veniamo al ruolo della filosofia, al posto che questa dovrebbe avere nella scuola e nella classe, a partire dall’infanzia». Kohan, intervenendo, dice: «Il mio riferimento è soprattutto la scuola filosofica e popolare dell’America Latina: per esempio Simón Rodríguez, la quale diceva che l’America è la terra dell’invenzione e che “o inventiamo o erriamo”. Non credo che la filosofia possa essere un modello di come pensare. Penso a una filosofia inventiva e anche errante, nel senso non dello sbagliare, ma del viaggiare senza una destinazione predeterminata. La filosofia è una dimensione indimenticabile del viaggio pedagogico, perché rende questo viaggio più aperto, problematico, intenso. La filosofia non è la guardiana dei saperi pedagogici, ma una compagna di viaggio». Proprio per questo, come ricorda Iiritano, la filosofia, in classe, ha una dirompente portata politica, volta anche a considerare l’assenza alla maniera in cui la intendeva Camille Claudel: «C’è sempre qualcosa di assente che mi perseguita». Alla scuola delle “presenze immobili”, Iiritano sostituisce quella delle “assenze” per l’esserci. Kohan, con la sua lunga esperienza coi bambini e con gli adolescenti, ricorda: «Non c’è un unico concetto filosofico di educazione. Ogni educatore può fare questo esercizio filosofico: perché e per cosa entro ogni giorno in classe? La filosofia è l’esercizio del mettersi in questione con la propria vita. I modelli sono buoni per il mondo del mercato, nella filosofia abbiamo bisogno di pensare insieme ascoltandoci con attenzione,

 

senza modelli». E il suo esempio torna col pensiero al Brasile, perché gli anni ’60, in Brasile, come pure in altri paesi dell’America Latina, quali il Cile e l’Argentina, sono stati anni di terrore e dittatura, riversata anche sulla filosofia e sulla pedagogia. Lo stesso Freire è stato prima arrestato e poi ha dovuto esiliarsi, colpevole agli occhi regime per aver coordinato un piano nazionale di alfabetizzazione. «Sembra assurdo – scrive Kohanma questa è una delle eredità delle dittature: impegnarsi nell’alfabetizzazione critica del popolo può mettere la tua vita in pericolo. […] Freire è un importante riferimento della scuola filosofica popolare latinoamericana, da cui si può trarre spunto. Ispira un’educazione amorevole, infantile e rivoluzionaria; sposta la centralità del metodo verso i principi dell’educazione: curiosità e impegno politico per gli oppressi. È fonte d’ispirazione per tanti insegnanti che incontro ogni giorno nelle scuole e che non smettono di sognare e sperare in un’altra educazione e in un altro mondo… ». È evidente già in queste parole come la filosofia sia indissolubilmente dentro e accanto l’educazione, ma non è l’unico ingrediente. Kohan ricorda giustamente che se studiamo l’etimologia greca della parola “pedagogia”, scopriamo che essa è composta dal sostantivo paidos, “bambino”, e dal verbo ago, “guidare”: l’educazione implica l’erranza. Scrive: «Credo che abbiamo reso troppo stanziali le relazioni pedagogiche, le abbiamo fissate in luoghi e posizioni rigide; al contrario, credo che le relazioni educative richiedano movimento, provare anche la paura dell’ignoto. Non c’è niente che può sostituire il viaggio per imparare e insegnare». È quasi una condizione necessaria per la filosofia e per l’educazione: viaggiare con il pensiero, ma anche e soprattutto con il corpo. Viaggiare: cioè des-plazar-se, diciamo in spagnolo; “deterritorializzarsi” e “riterritorializzarsi” direbbe Deleuze. Però, alla fin fine anche Deleuze ha viaggiato poco o niente. Lo sguardo filosofico torna allora centrale, perché Kohan e Iiritano parlano di un viaggio esteriore e interiore, per ritrovarci anche come insegnanti. A questo punto si apre la parte più bella del libro, in cui si sottolinea l’intrinseco legame fra l’infanzia e la filosofia. Entrambi precisano: «Abbiamo già scolarizzato sufficientemente i bambini, forse è ora di rendere infantile la scuola». In fondo, dire “sei infantile” non deve avere più una connotazione dispregiativa.

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