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venerdì 11 marzo 2022

IL DONO DEL DIALOGO, PER CRESCERE INSIEME


 Comunicazione,
dono e obbligo morale

Nell’era della cosiddetta comunicazione globale, diventare coscienti della necessità esistenziale del dialogo forse ci aiuterà ad uscire dall’alienazione a cui l’odierna quantità comunicativa ci costringe e ci condanna.
Nella stessa radice della parola “comunicazione” c’è la parola latina “munus”, che significa, contemporaneamente, dono e anche obbligazione morale verso gli altri.
Il dialogo non è la trasmissione di un contenuto, né tantomeno la definizione sempre più specialistica di termini che informano su qualcosa.
E’ la qualità della nostra relazione con l’altro e quindi del nostro essere nel mondo
Noi, esseri viventi che siamo “mancanza d’essere”, esistiamo perché coesistiamo, perché dialoghiamo.
Il dialogo quindi ci pare l’orizzonte più concreto per dare forma all’affermazione tanto sbandierata sulla centralità della dignità umana, perché impegna cioè “dà in pegno” la nostra parola e ingaggia la nostra presenza.
Ci riconosce e fa riconoscere nel “tu per tu” come nella manifestazione più alta della nostra dignità e della nostra gioia di vivere.
Parlare in latino si dice “loquor”, un verbo deponente nella grammatica latina, cioè che ha la forma passiva ma il significato attivo.
Dunque, lo stesso “parlare” ha un senso dialogico nella sua radice etimologica. Il dialogo fermenta l’anima dei dialoganti: conduce ad un nuovo stato di coscienza.
Oltre il pregiudizio e lo stereotipo
Il dialogo fa andare oltre il pregiudizio e lo stereotipo.
Di queste catene è prigioniera la dialettica contemporanea.
Il pregiudizio è un’opinione preconcetta, capace di assumere in nome di sé stessa, atteggiamenti ingiusti.
Gesù ci insegna che sempre dobbiamo staccarci da ogni pregiudizio, non essere mai “sicuri” nel giudicare gli altri, sospendere il giudizio, perché ciò ci impedisce di incontrarli come sono.
Per questo Gesù dice: “Non giudicare se non vuoi essere giudicato”.
Lo stereotipo è un’opinione rigidamente precostituita e generalizzata che non si fonda né su un’esperienza diretta, né su una valutazione di cose e persone, che in qualche modo abbiamo messo alla prova.
Spesso costruisce lo stigma sociale che incastra non solo la vita di una persona, ma anche quella di molte persone, di intere comunità e interi popoli.
Ognuno di noi, sia come singoli che come comunità, fa i conti con i pregiudizi e gli stereotipi, perché sono due condizioni cognitive della nostra intelligenza, che ogni volta ha bisogno di ancorarsi su alcuni punti fermi.
Noi siamo portati naturalmente a giudicare secondo stereotipi e pregiudizi ciò che vediamo e sentiamo.
Qui si rende necessario fidarsi di una diversa via della conoscenza: il salto della fede e della conversione.
La “buona fede”
Se riusciamo ad accogliere questo spazio e tempo della relazione, grazie alla nostra “buona fede” e alla coscienza del nostro limite, riusciamo a sospendere la visione limitata e ingiusta che deriva da questi pensieri preconcetti.
In questo senso il dialogo è una vera azione di fede, perché richiede un “salto” di natura intellettuale e sentimentale: chiede il coraggio e il rischio dell’incontro con l’altro.
Come insegna la ginnastica, più i salti sono complicati e rischiosi, più ci si deve allenare per farli, se no si rischia di rompersi l’osso del collo….
Così il dialogo che è una vera e propria ascesi, esige esercizio, sacrificio e, dunque, educazione.
Educare al dialogo è un grande compito, una vera missione: è però una di quelle forme di educazione che solo si rendono verosimili attraverso la testimonianza.
Ciò che si nota a livello di relazione fra persone diventa ancora più evidente a livello di relazioni fra gruppi e comunità: generazioni, religioni, razze e culture.
Qui il rischio del pregiudizio e dello stereotipo è ancora più grande, perché alimenta ed è alimentato da un atteggiamento difensivo, dalla paura della diversità, dalla presunzione della propria superiorità.
Invece, si dialoga solo “alla pari”: tutti uguali, fratelli tutti, alla ricerca di una verità che non è patrimonio di nessuno e che è sempre al di là di venire.
Dialogo e vita ecclesiale
Merita certamente una sottolineatura il rapporto tra dialogo e vita ecclesiale.
Un rapporto delicato, rimasto come sopito per centinaia di anni, che, a partire dal Concilio Vaticano Secondo, ha ripreso una sua dignità nell’esperienza ecclesiale, ma che tuttora facciamo ancora fatica a vivere concretamente.
Siamo condizionati dall’abitudine divisiva che ha separato fraternità da autorità, comunione da pluralismo, libertà da obbedienza.
Papa Francesco, nel suo discorso per la Commemorazione del 50^ anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi , il 27 ottobre 2015 ha detto:
Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare «è più che sentire».
È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare.
Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo «Spirito della verità» (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli «dice alle Chiese» (Ap 2,7).
Papa Francesco, 1° ottobre 2015.
Già la Genesi con il mito della torre di Babele ci ricorda che la vera comunione e la vera comunità non stanno nel “parlare la stessa lingua” e che Dio, sorridendo, “confuse” le lingue degli uomini.
La convivenza umana è segnata positivamente dal pluralismo e dallo sforzo e desiderio dell’incontro.
Nessuno può detenere il monopolio di questo incontro.
Così Gesù nel vangelo ci ricorda che l’amore di Dio e l’amore del prossimo sono la via maestra della salvezza e che, in particolare, l’amore del prossimo ha a che fare con “sé stessi”, con il nostro essere il “tu” degli altri.
Il meglio del mondo, della Chiesa, della nostra società e di noi stessi, dunque, deve ancora venire perché la riscoperta del dialogo ha il potere di rifondare e rigenerare tutto.

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