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giovedì 18 novembre 2021

PAROLE, PAROLE, PAROLE

 

di Maria Laura Conte

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Le parole sono numeri. Non suona poetico, ma è così: possiamo giocare con le parole come con le cifre, ci servono a valutare situazioni, a misurare rischi, a calcolare cause ed effetti, pesi e contrappesi.

Ricorriamo alle parole-numeri per de-cifrare le nostre emozioni o quelle degli altri, per mettere ordine in testaper tirare le somme di un discorso, o verificare la differenza tra quello che esce dalla nostra bocca e quello che invece abbiamo veramente in cuore, per tenere il conto dei non detti e far pagare il dovuto.

E non sarebbe poi un problema, anzi, salvo quando - spinti alla deriva - ci trasformiamo in ragionieri nell’incontro-scontro con le parole degli altri: “Ma tu avevi detto, ma io avevo capito, tu hai frainteso, io intendevo…”. Pura ragioneria lessicale, no? Messaggi che montano a neve il disagio.

Nel mondo distopico delle chat di gruppo su whatsapp, l’esperienza dell’incomprensione verbale è quotidiana, quasi da manuale: richieste di precisazioni, qui pro quo, scambi di sillabe che generano litigi con l’esito di abbandoni e uscite dal gruppo che alle volte sfiorano il clamoroso. Quando arriva il messaggio “Tizio ha abbandonato”, è la resa: la ragioneria linguistica ha vinto sulle relazioni personali.

Il caso delle chat dei social media è auto-evidente e si spiega in parte perché le parole viaggiano senza corpi sulle piattaforme digitali, disincarnate, così è più facile che la relazione personale resti sullo sfondo fino a scomparire. Il volto dell’altro si sgrana.

Ma accade anche “on life”, non solo online: se non cedono il passo a una forma di cura per l’altro/altra a cui si rivolgono, se non si abbandonano a una certa dose di fiducia a priori per l’interlocutore, le parole diventano equazioni irrisolvibili.

Adesso ci sediamo e ne parliamo finché ce n'è bisogno

Scene da un matrimonio …..

Cioè lasciata sola la parola non sempre diventa “alata”, come la voleva Omero, cioè in grado di raggiungere il cuore del destinatario, ma si muove nell’aria come quegli uccelli che, convinti verso la loro meta, ingannati dal riflesso, a volte finiscono per sbattere contro il vetro delle finestre e precipitano.

Quando la stoffa della stima (dell’amicizia, della fiducia, dell’amore) si consuma, quando la relazione interpersonale si corrompe, lo scambio diventa come la prima nota di un amministratore: si incolonnano le responsabilità, si attribuiscono le colpe, si sommano le attese non soddisfatte, si denunciano promesse non mantenute: “ti avevo detto così, no tu avevi detto colà, speravo che tu, ma invece io…”. Non ci si capisce, e si precipita in un esercizio sterile, mentre la distanza tra quello che si vorrebbe dire e quel che viene inteso aumenta e corrompe quel che resta.

Accade in famiglia, in politica, al lavoro, nel tempo libero. Dovunque ci incontriamo e da sempre. Tutti gli attributi della parola, il potere di eliminare la sofferenza che le riconosceva Gorgia, di salvare la res publica come predicava Cicerone, di curare lo spirito, come sosteneva Seneca, perfino di evitare la guerra come auspicava Canetti, ebbene tutti questi poteri diventano zero, sfumano, quando non ci sono uomini e donne che scommettono sulla possibilità di concedere prima fiducia. Di credere che ci sia comunque un bene in vista, qualcosa di positivo. Che non ci debba per forza essere in cantiere una fregatura, un dispetto, un attacco.

Si tratta di provare. E di lasciarsi sorprendere.

 Le parole per dirlo

 

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