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venerdì 8 ottobre 2021

UN GIOVANE RICCO


 Ventottesima domenica durante l’anno

Sap 7,7-11 / Eb 4,12-13 / Mc 10,17-30

Dal Vangelo secondo Marco:

 In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».

Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.

Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».

Commento di p. Paolo Curtaz

Ancora

 Cammina, il Signore. Da quando, a Cesarea di Filippo, Simone ha parlato a nome di tutti e lo ha proclamato Cristo di Dio.

Ma sa bene quanta strada debba ancora percorrere per far capire ai suoi, a noi, cosa significa, per lui, essere Cristo. Non un Messia trionfatore, muscoloso, vittorioso. Ma un testimone disposto a morire nel modo più brutale e ignobile, in croce, pur di non rinnegare il vero volto di Dio e che chiede a noi, suoi discepoli, di fare altrettanto.

I giochi sono fatti, solo chi è disposto a diventare bambino, a seguire la propria anima, a seguire il Maestro, è dato di conoscere cosa accadrà.

Allora Gesù scende: dal punto più a Nord della terra di Israele fino al punto più basso della crosta terrestre, Gerico. Una discesa geografica simbolo, però, di una discesa interiore, di spogliamento, di dono di sé. E, scendendo, dopo avere finalmente risposto alla domanda posta dall’evangelista Marco all’inizio del suo Vangelo, chi è quest’uomo?, Marco/Pietro ora si pone un’altra domanda: chi è il discepolo

Il primo candidato sembra avere tutti i numeri in regola, ampiamente. Il giovane ricco, come lo ha chiamato la pietà popolare. Ma si rivelerà un pessimo discepolo.

Maestro buono

Il suo approccio è folgorante, impetuoso: si inginocchia pieno di zelo, pone una domanda teologicamente ineccepibile: Maestro buono, cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?  Riconosce in Gesù un rabbino, si impegna a rendere concreta e tangibile la propria fede agendo nella sua vita, sa che la vita dell’Eterno non si merita, ma si accoglie. Gesù è piacevolmente sorpreso.

Obietta solo su quel buono che sembra un po’ eccessivo, ma accoglie l’entusiasmo e lo zelo del giovane. Gli propone di seguire i comandamenti, quelli dei Mosè. Non un anarchico, non propone percorsi inusuali, innovativi, strani. Gesù non è venuto a cambiare una virgola del percorso di fede del popolo di Israele, ma a ricondurlo alla sua origine.

Possiamo anche noi proporre ai nostri giovani un percorso semplice, legato alla Tradizione, l’appartenenza ad una comunità, una vita interiore nutrita di meditazione e preghiera, un percorso sacramentale… ma fatti col cuore, per bene, con gioia e novità.

Magnifico.

Risponde, il giovane. Ha imparato la lezione, non lo chiama più buonoAfferma di avere osservato quel percorso sin dalla più tenera età. Anima bella! O presuntuosa. 

Gesù opta per la prima soluzione, vede sempre il lato luminoso, il bicchiere mezzo pieno. Anche noi noi. Anche con me. Sa che questo ragazzo è sincero. Sta veramente camminando con entusiasmo sulla via dei comandamenti. E Gesù, sorpresa, gli rivolge uno sguardo colmo d’amore e di benevolenza.

Siamo amati

L’affermazione di Marco, unica nel vangelo, è una fucilata. Gesù guardandolo lo amò.

Quello sguardo è lo sguardo che ha incontrato Pietro e Levi e Marco. E ogni discepolo da allora ad oggi. Non basta seguire le regole. Dobbiamo, prima o dopo, fare esperienza di quello sguardo. Nessuna apparizione, per carità!

È l’esperienza concreta dello sguardo del Signore che ci raggiunge nella preghiera, nella meditazione, nell’adorazione. L’esperienza che cambia la vita.

Solo se sentiamo su di noi lo sguardo amorevole del Signore possiamo dire di avere fatto esperienza di Dio, solo se sentiamo in noi lo sguardo mai giudicante del Maestro cogliamo la verità della proposta cristiana.

Quello sguardo è la sintesi dell’annuncio cristiano.  Sei amato. A prescindere. Sei amato bene. Sei amato seriamente. Quell’amore che dona gioia, non l’amore del pozzo che non sazia, Dio solo, che ne è sorgente, può donarcelo.

Ecco, tutto è compiuto. Lo sguardo del giovane, ora, è immerso nell’amorevole sguardo di Cristo. Che osa.

 Di più

Gesù ama prima di chiedere.  Accarezza prima di indicare un percorso impegnativo. Se davvero vuole la vita dell’Eterno può fare qualcosa di più grande. Superare le regole. Osare.

Gesù sta lasciando tutto, sta salendo a Gerusalemme dopo avere abbandonato la folla e il plauso e anche la comprensione dei discepoli. Si sta spogliando di tutto per fidarsi di Dio. Se vuole, il giovane, può fare lo stesso. Wow.

 Tentenna, il giovane. Il sorriso gli si spegne sul viso. No, non se la sente. 

Vuole tenere in mano la situazione. E la propria fede sotto controllo. Così è decisamente troppo. Riservato alle persone speciali, ai religiosi, ai santi. Non esageriamo. Se ne va, triste. Gesù è cento volte più folle di noi. Perché ama. E l’amore rende folli.

Noi

Quando faremo il salto? Quando passeremo dall’osservare delle regole a ribaltare la vita? Quando seguiremo, finalmente, il Signore per quello che è, non per ciò che da?

Quando, infine, crederemo? Quando torneremo a dire alle nostre comunità in affanno, alla nostra Chiesa in cammino sinodale, che la fede ha a che fare con l’amore, col sentirsi amati, con lo scegliere di amare?  Fissiamo lo sguardo in quello sguardo che ci ama. Facciamo questo, almeno, per ora. Forse ci farà innamorare.

 Polo Curtaz



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