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lunedì 8 febbraio 2021

PANDEMIA. RAGAZZI SOLI E DOMENTICATI

 Ascoltiamo i nostri ragazzi 

soli e dimenticati

 

di Walter Veltroni

 

Figurarsi, spesso non votano neanche. Sono i giovani di questo paese. Los Olvidados, i dimenticati. Ogni tanto un fatto di cronaca ci ricorda che ci sono anche loro, in questo mondo in mascherina. Per randellarli ben bene basta una foto dei Navigli affollati una sera. Per ascoltarli non basta la notizia che nel 2020 l’unità di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza ha avuto 300 ricoveri, quasi uno al giorno, per attività autolesionistiche di varia natura fino a propositi suicidi. L’anno prima erano stati 12, uno al mese. Vogliamo attribuire anche questo al nefasto anno bisesto o vogliamo cominciare a capire che tutta la società dovrebbe piegarsi, come un albero disneyano, verso i più piccoli e i più giovani e ascoltare la loro voce, per quanto flebile sia? La prosecuzione della pandemia fino a un momento che nessuno indica, la certezza che loro saranno gli ultimi a essere vaccinati, il ripetersi della proibizione di ogni relazione sociale collettiva — scuola, concerti, cinema, discoteche, cene con gli amici — la impossibilità di programmare, forse persino di sognare, un viaggio o una vacanza immerge i ragazzi in una condizione di buio e di solitudine. Questa crisi, della quale stiamo per celebrare un anno, delimita il loro principale spazio vitale in un ambito, la casa, che è quello da cui ogni adolescente spera di poter uscire e finisce con lo strutturare il grosso dei rapporti di relazione, persino verbale, in una dimensione, la famiglia, dalla quale a quella età si vuole e si deve conquistare una sana autonomia. In casa, in famiglia, con la scuola spesso a distanza, dovendo rincasare tutte le sere, da mesi, al massimo alle dieci, senza la possibilità di condividere uno spazio pubblico comune di musica, di tifo sportivo, di sereno trascorrere in compagnia del «caro tempo giovanil».

Ha detto la psicologa Anna Oliverio Ferraris: «Molti adolescenti, privati della scuola e della vita sociale, vivono come se fossero anziani o malati. E il fatto che questo isolamento si stia prolungando è rischioso: il rischio dell’abitudine è che poi diventa irreversibile... Gli adolescenti in casa tornano sotto il controllo totale dei genitori. Genitori che diventano iper-controllanti, proprio in quell’età in cui dovrebbe esserci lo svincolo dalla famiglia, la distanza, l’autonomia. Invece fanno un passo indietro, tornano a essere bambini sotto l’ombrello protettivo e onnipresente di madre e padre, vediamo un processo di infantilizzazione, che certo non è positivo». Una ragazza, Virginia Perna, ha scritto un bel testo nella pagina delle lettere del Corriere: «Alla noncuranza verso i giovani si aggiunge il continuo disprezzo degli adulti nei confronti delle nuove generazioni. Teppisti, irrispettosi, nullafacenti, drogati e per ultimo untori. Pensate che strano, dei giovani reclusi per mesi nelle loro stanze illuminati dalla sola luce di uno schermo si permettono di uscire quando possono... Noi non vediamo prospettive per il futuro, l’oscurità ci pervade e stiamo male. Un male che voi adulti non avete mai provato...». In un liceo di Roma una ragazza è stata fermata nei giorni scorsi da una collaboratrice scolastica mentre si stava accingendo a varcare una finestra del secondo piano e storie così sono accadute in molti luoghi di questo paese. Ci si rende conto cosa significhi tutto questo, ad esempio, per i ragazzi che sono andati dalle medie al ginnasio, che passano dall’essere bambini alla condizione di adolescenza e sono, in questi anni cruciali, privati della normalità della loro evoluzione? Qualcuno sta sondando la condizione dei ragazzi delle grandi periferie urbane che al malessere della loro condizione aggiungono l’incertezza che avvertono per la condizione del lavoro del padre e/o della madre?

Un professore di quel liceo mi dice che i ragazzi si stanno spegnendo, stanno perdendo attenzione, si stanno lasciando andare, si chiudono nelle loro stanze separandosi dal mondo. La sensazione che tutto sia precario rende per loro il futuro una minaccia e non la più affascinante delle opportunità. Restano il silenzio delle stanze chiuse, il conforto spesso esclusivo della rete che tra mille contraddizioni rompe comunque questa solitudine. Abbiamo visto anche le risse gratuite tra i ragazzi a Villa Borghese, figlie di un malessere che sarebbe sbagliato etichettare sbrigativamente. Los Olvidados. Mi ha colpito che in questo paese con i capelli bianchi nessuno si sia fermato, anche solo un attimo, per chiedersi se fosse proprio da escludere l’idea di cominciare a vaccinare, oltre al personale sanitario e agli ultraottantenni, proprio i più giovani. Per restituire loro una normalità la cui perdita, a quindici o venti anni, è una ferita difficilmente rimarginabile.

A Mario Draghi tutti, in questi momenti, chiedono ogni cosa perché, dopo anni di zuzzerellona sbornia populista e demagogica, ci si è resi conto che la competenza, l’esperienza, la gentilezza che significa accoglienza e ascolto, non sono reati perseguibili, ma valori essenziali per una comunità. Io a Draghi chiederei solo di ascoltare una rappresentanza di ragazzi. Di quelli che oggi occupano le scuole per poter studiare, che chiedono, con gli insegnanti, di poter sapere di più e meglio, non il sei politico. Ai ragazzi, che magari hanno creduto allo spirito indotto del tempo egoista che raccomandava di tenersi ben lontani dall’impegno civile e di curarsi solo di loro stessi, vorrei dire che tra le tante cose meravigliose della loro difficile stagione della vita c’è anche la difesa dei propri diritti, il vivere insieme esperienze di comunità politica, culturale o sociale. E che quindi più loro si organizzeranno, saranno davvero rete, più le loro esigenze saranno considerate centrali e la loro voce non sarà un grido muto. Nel mondo che li vuole, in ogni caso, soli e isolati, il fatto che da loro salga, in mille forme, una domanda di socialità è una buona notizia.

Basta solo ascoltarli. In famiglia, a scuola, nelle istituzioni. E costruire per loro un futuro in cui non esistano solo debito pubblico da portare sulle spalle e precarietà sociale. Nel 2020 in Italia ci sono stati 300.000 nati in meno di quanti siano defunti, e ci sono oggi la metà delle culle rispetto al 1975. In questo paese egoista, che invecchia e fa debiti per chi nasce, dovremmo avere almeno avere un’attenzione. Dovremmo ascoltare la voce e occuparci davvero, sinceramente, dei pochi clienti del nostro futuro.

 

Corriere della Sera


 

 

 

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