soli e dimenticati
di Walter Veltroni
Figurarsi, spesso non votano neanche. Sono i giovani di
questo paese. Los Olvidados, i dimenticati. Ogni tanto un fatto di cronaca ci
ricorda che ci sono anche loro, in questo mondo in mascherina. Per randellarli
ben bene basta una foto dei Navigli affollati una sera. Per ascoltarli non
basta la notizia che nel 2020 l’unità di Neuropsichiatria dell’infanzia e
dell’adolescenza ha avuto 300 ricoveri, quasi uno al giorno, per attività
autolesionistiche di varia natura fino a propositi suicidi. L’anno prima erano
stati 12, uno al mese. Vogliamo attribuire anche questo al nefasto anno bisesto
o vogliamo cominciare a capire che tutta la società dovrebbe piegarsi, come un
albero disneyano, verso i più piccoli e i più giovani e ascoltare la loro voce,
per quanto flebile sia? La prosecuzione della pandemia fino a un momento che
nessuno indica, la certezza che loro saranno gli ultimi a essere vaccinati, il
ripetersi della proibizione di ogni relazione sociale collettiva — scuola,
concerti, cinema, discoteche, cene con gli amici — la impossibilità di
programmare, forse persino di sognare, un viaggio o una vacanza immerge i
ragazzi in una condizione di buio e di solitudine. Questa crisi, della quale
stiamo per celebrare un anno, delimita il loro principale spazio vitale in un
ambito, la casa, che è quello da cui ogni adolescente spera di poter uscire e
finisce con lo strutturare il grosso dei rapporti di relazione, persino
verbale, in una dimensione, la famiglia, dalla quale a quella età si vuole e si
deve conquistare una sana autonomia. In casa, in famiglia, con la scuola spesso
a distanza, dovendo rincasare tutte le sere, da mesi, al massimo alle dieci,
senza la possibilità di condividere uno spazio pubblico comune di musica, di
tifo sportivo, di sereno trascorrere in compagnia del «caro tempo giovanil».
Ha detto la psicologa Anna Oliverio Ferraris: «Molti adolescenti, privati della scuola e della vita
sociale, vivono come se fossero anziani o malati. E il fatto che questo
isolamento si stia prolungando è rischioso: il rischio dell’abitudine è che poi
diventa irreversibile... Gli adolescenti in casa tornano sotto il controllo
totale dei genitori. Genitori che diventano iper-controllanti, proprio in
quell’età in cui dovrebbe esserci lo svincolo dalla famiglia, la distanza,
l’autonomia. Invece fanno un passo indietro, tornano a essere bambini sotto
l’ombrello protettivo e onnipresente di madre e padre, vediamo un processo di
infantilizzazione, che certo non è positivo». Una ragazza, Virginia Perna, ha
scritto un bel testo nella pagina delle lettere del Corriere: «Alla
noncuranza verso i giovani si aggiunge il continuo disprezzo degli adulti nei
confronti delle nuove generazioni. Teppisti, irrispettosi, nullafacenti,
drogati e per ultimo untori. Pensate che strano, dei giovani reclusi per mesi
nelle loro stanze illuminati dalla sola luce di uno schermo si permettono di
uscire quando possono... Noi non vediamo prospettive per il futuro, l’oscurità
ci pervade e stiamo male. Un male che voi adulti non avete mai provato...». In
un liceo di Roma una ragazza è stata fermata nei giorni scorsi da una
collaboratrice scolastica mentre si stava accingendo a varcare una finestra del
secondo piano e storie così sono accadute in molti luoghi di questo paese. Ci
si rende conto cosa significhi tutto questo, ad esempio, per i ragazzi che sono
andati dalle medie al ginnasio, che passano dall’essere bambini alla condizione
di adolescenza e sono, in questi anni cruciali, privati della normalità della
loro evoluzione? Qualcuno sta sondando la condizione dei ragazzi delle grandi
periferie urbane che al malessere della loro condizione aggiungono l’incertezza
che avvertono per la condizione del lavoro del padre e/o della madre?
Un professore di quel liceo mi dice che i ragazzi si stanno
spegnendo, stanno perdendo attenzione, si
stanno lasciando andare, si chiudono nelle loro stanze separandosi dal mondo.
La sensazione che tutto sia precario rende per loro il futuro una minaccia e
non la più affascinante delle opportunità. Restano il silenzio delle stanze
chiuse, il conforto spesso esclusivo della rete che tra mille contraddizioni
rompe comunque questa solitudine. Abbiamo visto anche le risse gratuite tra i
ragazzi a Villa Borghese, figlie di un malessere che sarebbe sbagliato
etichettare sbrigativamente. Los Olvidados. Mi ha colpito che in questo paese
con i capelli bianchi nessuno si sia fermato, anche solo un attimo, per
chiedersi se fosse proprio da escludere l’idea di cominciare a vaccinare, oltre
al personale sanitario e agli ultraottantenni, proprio i più giovani. Per
restituire loro una normalità la cui perdita, a quindici o venti anni, è una
ferita difficilmente rimarginabile.
A Mario Draghi tutti, in questi momenti, chiedono ogni cosa perché, dopo anni di zuzzerellona sbornia populista e
demagogica, ci si è resi conto che la competenza, l’esperienza, la gentilezza
che significa accoglienza e ascolto, non sono reati perseguibili, ma valori
essenziali per una comunità. Io a Draghi chiederei solo di ascoltare una
rappresentanza di ragazzi. Di quelli che oggi occupano le scuole per poter studiare,
che chiedono, con gli insegnanti, di poter sapere di più e meglio, non il sei
politico. Ai ragazzi, che magari hanno creduto allo spirito indotto del tempo
egoista che raccomandava di tenersi ben lontani dall’impegno civile e di
curarsi solo di loro stessi, vorrei dire che tra le tante cose meravigliose
della loro difficile stagione della vita c’è anche la difesa dei propri
diritti, il vivere insieme esperienze di comunità politica, culturale o
sociale. E che quindi più loro si organizzeranno, saranno davvero rete, più le
loro esigenze saranno considerate centrali e la loro voce non sarà un grido
muto. Nel mondo che li vuole, in ogni caso, soli e isolati, il fatto che da
loro salga, in mille forme, una domanda di socialità è una buona notizia.
Basta solo ascoltarli. In
famiglia, a scuola, nelle istituzioni. E costruire per loro un futuro in cui
non esistano solo debito pubblico da portare sulle spalle e precarietà sociale.
Nel 2020 in Italia ci sono stati 300.000 nati in meno di quanti siano defunti,
e ci sono oggi la metà delle culle rispetto al 1975. In questo paese egoista,
che invecchia e fa debiti per chi nasce, dovremmo avere almeno avere
un’attenzione. Dovremmo ascoltare la voce e occuparci davvero, sinceramente,
dei pochi clienti del nostro futuro.
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